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L'Ultima Ora delle Cessone

Piombo d'inferno a Tucson

Zothique: Sciacalli

Zothique: L'Impero di Risha

Sentieri di fogna

La bella sbudellata nel bosco

Doccia fredda

Primo Secolo: Morte sul Congo

L'UltimA Ora DELLE CESSONE

di Salvatore Conte (2024)

Nessuna delle due cesse mollava la presa. Erano entrambe convinte di poter avere la meglio.

Il diverbio con Layla era scoppiato improvviso, in questi casi la droga e la frustrazione giocano brutti scherzi. Spacciatrici, ma anche consumatrici.

E Cessone. Cessone sbottonate.

Lavoravano nello stesso albergo di Mexico City.

Janet Frexhen, ex spia americana in Libano, aveva sbagliato un uomo dietro l'altro e ora imbolsita come una vacca faceva la fallita di lusso in Messico, spolverando armadi, tavolini e piselli.

Layla Dakmak, cameriera di origini libanesi con tanta carne addosso, era alla ricerca di un salto di qualità, l'uomo giusto e altre cose ancora.

La libanese si credeva una big, e per certi versi lo era davvero. Ma solo nel fisico. Girava per le camere con la camicetta d'ordinanza ampiamente sbottonata, per irretire i clienti, farseli amici e vendergli carne e droga, passando la stecca al Direttore; e ci riusciva quasi sempre.

Nonostante l'evidente sovrappeso, vi era un'armonia complessiva nelle sue forme possenti; il sorriso metteva allegria, l'espressione era da bonacciona.

Per raccogliere tutto questo in una sola parola, era detta la Cessona, un simpatico termine popolare di lingua italiana (o quasi), affibbiatole da un turista a suo modo innamorato; chissà se l'avesse vista quando era una semplice pupa...

Il nomignolo aveva poi ribattezzato anche la collega americana, che condivideva con lei diverse caratteristiche.
Entrambe stringevano il calcio della rivoltella, cercando di orientare la canna verso l’altra, in una lotta scomposta, come nella più classica delle scene d’azione.

Sullo sfondo la radio sparava alto un brano dal film Profondo Rosso, il settimo capolavoro di Sergio Leone, attribuito a Dario Argento: Death Dies.
«Molla la pistola, stupida, o ti farai male…!», minacciò Layla.

«Fanculo, troia, sarai tu a farti male…!», replicò secca Janet.
La pistola scomparve tra la ciccia addominale delle due cesse, nessuna voleva cedere, entrambe forti, esperte e rabbiose.
POW
Era partito un colpo...
Gli occhi delle due si fissarono, scambiandosi un’espressione interdetta: l’una di incredulità, l’altra di terrore.
I corpi, infine, dopo un lungo istante, si staccarono.
«Cristo… m'hai fottuto…», gli occhi sconcertati di Layla si puntarono su Janet. Uno sguardo recriminatorio e disperato insieme.

Era partito un colpo e se l'era beccato la Cessona libanese!
«Io… io... non volevo…», si giustificò l'americana; il revolver le cadde dalle mani e finì a terra.
Layla si piegò in due, portandosi le mani sullo stomaco.
In pochi attimi, franò sulle ginocchia e stramazzò a terra, in tutta la sua mole, rovesciandosi supina con le braccia molli, staccate dai fianchi.

Grande e grossa, eppure vulnerabile come tutti.
La bocca balbettò ancora per un po’, mentre gli occhi si fissavano vuoti e disperati sul nulla.

Tutto era avvenuto molto in fretta.
«Cazzo, l’ho ammazzata…», mormorò fra sé Janet.
Provò subito una certa pena per la collega: non voleva freddarla, ma solo darle una lezione. Si accostò al corpo esanime, per constatare se fosse finita davvero.
La libanese guardava lontano, le pupille erano fisse e dilatate, l'espressione inebetita di chi è colto da una fine imprevista e non ha avuto il tempo di prepararsi.
La bocca era rimasta semiaperta, con un vistoso rivolo di sangue che le colava languido dal labbro.
Non c'era più nulla da fare.
Janet era basita.

A lei in fondo quella troiona lardellosa piaceva...

Se solo non le avesse fregato i clienti...

D'altronde si somigliavano come due gocce di pipì, e loro, poi, i clienti, non facevano tanta distinzione.

Adesso era anche più languida del solito. Non poteva mollare così.
Janet rimase a fissarla negli occhi, gli occhi vitrei di Layla Dakmak, freddata da una calibro 38 a bruciapelo, che l’aveva uccisa quasi sul colpo.

Improvvisamente si chiese come mai nessuno fosse ancora intervenuto.

D'altra parte la radio era alta; i Goblin e il frastuono caotico della città avevano fatto il resto.

Ne approfittò per correre verso la porta ed esporre all'esterno il classico cartellino.

Anche se la cameriera era ormai dentro.

Batteva la fiacca più del solito e non avrebbe più disturbato nessuno.

Janet tornò a fissare Layla.
«Perché non reagisci, troia... ti credevi tanto forte... tanto fica... la cameriera più bona di Mexico City... fottuta da una vecchia stronza come me.

Sono l'unica Cessona rimasta, adesso».

Lo sguardo perso nel vuoto, smarrito, la bocca rimasta dischiusa, cristallizzata in un’espressione di incredula rassegnazione, la chiazza di sangue sulla camicetta bianca sbottonata da vera zozzona, il contrasto tra la massa possente del corpo e il colpo secco che l'aveva stroncata senza lasciarle scampo, tutto questo rendeva la fatale postura della Cessona libanese la visione più tragicamente sensuale su cui Janet avesse mai posato gli occhi.
L'americana non riuscì più a trattenersi e si gettò sul cadavere della collega, palpeggiandone la pancia lardellosa e le zinne da mignotta, e baciandone le labbra impastate di sangue, ancora calde: pancia su pancia, ciccia su ciccia, labbra su labbra.

«Non puoi morire così, bastarda d'una libanese...

Non volevo fotterti… lo sai...».

Esaurita la vena di follia, Janet si tirò in piedi e sferrò un calcio di frustrazione al cadavere, nel fianco molle.

«Fanculo, Layla... sei fatta...».
Un rantolio sommesso sembrò vagheggiare nell’aria.
Janet era esterrefatta.

Forse quella situazione la stava suggestionando.

Si sprofondò nella poltrona, cercando di riordinare le idee.
Eppure le era sembrato di udire un grugnito rauco provenire dal corpo esanime.

La fissò, ma Layla era completamente immobile, in tutta la sua imponente stazza.
«Stupida troia... sei crepata... sei crepata…», ripeté istericamente.
Sull'onda di quelle parole, l'americana la strattonò violentemente, afferrandola per la camicetta con entrambe le mani: «Che fine ha fatto la stronza che voleva fregarmi i clienti, eh...?! Che fine ha fatto...?».

Quando Janet mollò d’improvviso la presa, la testa di Layla cadde di sasso all’indietro. Forse a causa del contraccolpo, un grumo di sangue eruttò dalla bocca della libanese, seguito - in una frazione di secondo - da un grugnito animalesco.
Janet era incredula. Si piegò di nuovo sulla collega e le schiaffeggiò le guance per sollecitarla a mutare l’angosciante sguardo vitreo.
«Layla... mi senti? Non volevo fotterti… lo giuro!».
«Mhh… mmhhh…».

Stavolta non c’erano più dubbi!

Rapita da quella palpitante agonia, Janet non si accorse di niente.

Era entrato un uomo e le stava spianando contro un revolver.

«Che cosa è successo qui, chiese freddamente.

Era il boss di Layla. Stava controllando il suo lavoro e aveva il passepartout dell'albergo.

«Che le hai fatto? L'hai ammazzata?! Lo sai quanto vale questa troia?».
Paradossalmente, la prima risposta giunse dalla giovane Cessona.
Gli occhi della libanese, dopo penoso sforzo, agganciarono lo sguardo del capo: «Pedro... non voglio morire…», mormorò blandamente, più che mai languida e sensuale.
«Allora, cos’è questo casino?», insistette il messicano.

Sollevò da terra Layla e la depose sul letto, osservandone con attenzione il buco.
«Quella scema… gnhh... mi ha sparato…», mormorò la libanese.
«Non dovevi farti fregare, Layla», replicò secco il boss.

«Pedro... aiutami… gnhh...».

«Mi dispiace, bella mia…», afferrò un cuscino e glielo piazzò sulla faccia.

E cominciò a soffocarla!

L'altra, invece, poteva fargli comodo.

La Cessona si dimenava, ma Pedro insisteva, l'avrebbe liquidata a ogni costo, sapeva troppo; e senza usare il revolver.
BANG
BANG

Il messicano crollò sul cuscino.
La calibro 38 impugnata da Janet era ancora fumante.
CRASH
In quel momento fece irruzione la Polizia.

Qualcuno non si era fatto incantare dai Goblin.
Istintivamente Janet si voltò verso gli agenti, aveva ancora la pistola in pugno.
BANG

BANG

BANG

L'americana fu crivellata di colpi e venne sbalzata all'indietro, finendo seduta sulla poltrona come avesse scelto lei di di farlo: con una postura perfetta, a parte la testa rivolta in alto e la bocca spalancata, incredula.

«Chiamate il prete per questa mignotta!», esclamò l'ufficiale di Polizia, molto religioso.

Città del Messico:

ancora violenza

In un albergo di Mexico City, un trafficante di droga e una cameriera pregiudicata per droga hanno perso la vita in una sparatoria con le forze di Polizia.

Una seconda cameriera è stata trasportata in fin di vita all'ospedale.

 

La capitale messicana è scossa da diversi mesi da un'incontenibile ondata di violenza, spesso riconducibile al traffico di droga.

Il turista innamorato un giorno modificò il cartellino dell'albergo, sollecitando in qualche modo un servizio più accurato, per poi rimanerne completamente soddisfatto, ed estasiato, con la sola eccezione della pulizia.

Sarà che gli innamorati sono strani, ma quando guardò la notizia del televideo gli venne il dubbio che la Cessona stesse sudando le proverbiali sette camicie sbottonate pur di tenersi il posto, sempre che non fosse già cadavere.

PIOMBO D'INFERNO A TUCSON

di Salvatore Conte (2024)

Fred Courtney aveva solo 25 anni ed era orfano di padre, ma insieme alla madre e a una mezza dozzina di vaccari si era impossessato di Tucson.

Venuto meno lo sceriffo, era perfino riuscito a imporre l'avvenente madre quale sostituto.

Vi erano già dei precedenti nello Stato, nessuna legge vietava alle donne di diventare sceriffo, e con la compiacenza della madre avrebbe ottenuto ancora più potere...

La sua taglia, però, aveva raggiunto i quattro zeri e la platea dei cacciatori si era allargata. Infatti aveva commesso l'errore di ammazzare un povero cristo di passaggio e i famigliari avevano presentato denuncia nella città d'origine. Una volta registrata, una taglia aumentava di valore con relativa facilità, a volte solo per il passare del tempo: lo Stato, infatti, non ammetteva che una taglia rimanesse aperta troppo a lungo.

E così il giovanotto si era messo nei guai.

Non gli restava che fare affidamento sull'amore materno...

La Sceriffa Janet Frexhen era già riuscita a dissuadere un paio di bounty-killers, utilizzando le sue famose zinne.

John Walker, invece, non aveva ceduto, si stava mostrando un osso duro.

A quel punto Janet studiò un piano.

Lo abbordò quella sera stessa, nel saloon principale, davanti a tutti.

«Mettiamoci insieme, John… voglio un compagno forte accanto a me...

Non dirmi che non ti piaccio…», e si protese in avanti, quasi sfiorandolo con le labbra, più che mai zozza e provocante.

Era l'ultima possibilità che gli concedeva.

Janet Frexhen era un pezzo raro: oltre i 50, ma ben conservata, formosa, affascinante, con la camicetta da vaccara sbottonata aggressivamente fino allo stomaco e i seni che ci ballavano dentro, cadendo a penzoloni sulla pancia gonfia.

Fredda, autoritaria, agli incontri decisivi si presentava con i bottoni allentati, per allungare la scollatura e mettere in soggezione il pistolero di turno. Come quella sera. La stella da Sceriffa faceva il resto.

Era quasi impossibile che cercassero di colpirla: nel West erano poche le donne che sapevano sparare e quelle poche creavano imbarazzo.

C'era quindi la possibilità di approfittarne e l’ascesa del figlio, infatti, era dipesa anche da questo fattore.

«Non che tu non mi piaccia, Janet...

Ma per mantenere un pezzo di donna come te, ci vogliono soldi, molti soldi...

E tuo figlio è arrivato a valere 10.000 dollari: una bella somma, almeno per me…

Tu, invece, sei stata più prudente, sei rimasta nell'ombra, nessuno va in giro con la tua faccia in tasca, se non per farsi una sega...».

«John... io e te, insieme... valiamo molto più di 10.000 dollari...».
L’uomo, però, aveva mangiato la foglia e si guardava intorno con la coda degli occhi, presagendo qualche trappola.

«Tu sicuramente vali un patrimonio anche da sola...», Walker stava al gioco, ma c'era del vero in ciò che diceva.

«Sei galante, a modo tuo...

Ma ho bisogno di una risposta precisa».

«Convinci tuo figlio a consegnarsi.

Lo porterò a Tombstone, dove avrà un regolare processo».

«John, mi deludi... credi ancora che la vita sia un gioco di codici e paroloni.

Solo le mie zinne valgono e sono reali.

E puoi prenderle, se vuoi..».

La tentazione era forte, ma la partita era lunga e Walker non poteva scoprire le carte.

«Gli do tempo fino all'alba».

«Stronzo...», Janet lo fulminò con gli occhi, gli voltò le spalle e lasciò il tavolo, facendo scattare il segnale convenuto: le ultime trattative erano fallite, bisognava sistemare l’affare in un altro modo.

D'altra parte un cacciatore di taglie aveva molti nemici, era inevitabile.

E poteva avere una taglia sulla testa anche lui, sebbene non avesse fatto niente di male.

Passarono pochi minuti e scattò la provocazione.

«Ehi, Jim! Quest'uomo m'ha toccato il culo!».

«Alzati, straniero! Fammi vedere come tocchi la pistola!».

Tutto fu molto veloce e banale. Solo una parvenza di realtà.

La gente sfollava in fretta.

Quelli che rimasero seduti ai tavoli dovevano essere parte del gioco.

Janet faceva il mazziere, rimanendo in disparte.

Lo stallo durò pochi attimi.

Un bandito cercò di sparare da sotto il tavolo.
BANG
BANG

BANG

Walker ne fece fuori tre in rapida successione, era veloce.

Un altro seduto ai tavoli e quello che aveva acceso la provocazione.
BANG

CRASH
Un quarto uomo precipitò dalla balaustra del piano superiore, schiantandosi su un tavolo.
Anche lui era stato troppo lento.
Janet, comunque, non si diede per vinta: stavolta fu lei a estrarre, approfittando della confusione.
BANG
Walker non le fece sconti.

Una macchia scura - all'altezza del fegato - imbrattò la camicetta sbottonata.
Janet Frexhen, gelata dal terrore, si avvitò su sé stessa e dopo aver vanamente cercato di afferrarsi a un tavolo, finì lunga a terra.

Aveva sistemato anche lei.
Walker si avviò verso i tornelli.

Era stato un bel repulisti, ma ora lo attendevano 10.000 dollari e non voleva farli aspettare troppo.
Uno scricchiolio del pavimento gli fece formicolare la mano…
BANG
BANG
Si voltò di scatto e anticipò la Frexhen, che da terra, non ancora sazia di piombo, stava per colpirlo alla schiena: gli occhi della Sceriffa si sbarrarono increduli, mentre si rovesciava sulla schiena!
La pallottola di John Walker l’aveva raggiunta in pancia.

La sua era finita sul lampadario.

Adesso era sazia di piombo.
Walker rimase a fissarla: perché non si era fermata?

Un braccio di Janet era steso lungo all’indietro, in posizione innaturale, disarticolata; il corpo si dibatteva inquieto, come prigioniero di una grossa ragnatela.

«Cristo!».
Il bounty-killer tornò indietro, verso la donna, e si chinò su di lei: «Janet... dannazione...», le accostò la fiaschetta del whisky alle labbra, sollevandole leggermente il capo da terra; si sciolse il foulard appeso al collo e le tamponò il buco al fegato, che era forse il più grave; infine le riabbassò il braccio, attaccandolo al corpo.
Gli occhi di Janet erano spalancati di incredulità e rabbia.

Ma c'era anche dell'altro in fondo agli occhi chiari: proprio adesso l'aveva fottuto?

L'avesse capito prima, si sarebbe fatta sparare a salve da qualcuno.

Era come se quella pallottola che aveva cercato di indirizzargli fosse giunta a segno.
Scosse il bacino come un serpente che si contorce per darsi slancio.
«Sapevo... di piacerti... ma non... fino... a questo punto...», si giocava a carte scoperte, non c'era più tempo per bluffare.

«Ti porto su, Janet...», la sollevò da terra, trasportandola al piano superiore.

Quando arrivò il segaossa, scosse subito la testa.

«Sono solo dei dannati menagrami, dovresti saperlo».

Janet, ansimando, si girò a pancia sotto.

Sapeva il che dottore aveva ragione, ma voleva spuntare un po' di tempo.

Scalciava con gli stivali sul terminale del letto; e premeva con la lingua sotto il palato, cercando di non lasciarsi andare.

Intanto, per le strade di Tucson circolava molta apprensione.

La sorte della Sceriffa teneva la città con il fiato sospeso.

Si attendeva con ansia febbrile qualsiasi novità sulle sue condizioni: i più, conoscendola, si aspettavano una certa resistenza, poi l'aggravamento e la concitazione finale, condita con qualche disperata invocazione dei sodali più intimi.
Walker e la Frexhen si guardavano senza dirsi niente.
Lei aveva cercato di ucciderlo.
Lui l’aveva uccisa.

Lei era una carogna.

Lui un giustiziere.

Ma alla fine qualcosa era scattato.

Janet si alzò il seno con la mano, John le succhiò le labbra impastate di sangue, con la mano che scattò sulle zinne ansanti.

A questo punto lei si aspettò le sue scuse.

«Mi dispiace, Janet. Io non volevo farlo».

Giunsero puntuali.

L'aveva ingabbiato. Troppo tardi, certo. Ma c'era riuscita.

«Non volevi... eliminarmi... lo so...

Ma l'hai... fatto...

Adesso... però... ti voglio con me... fino alla fine...

Non devi giudicarmi... ho fatto molti soldi… ma non bastavano mai… volevo di più... non potevo fermarmi... è vero... ci sono io... dietro mia figlio... lui è niente... senza di me...».

«Non ti giudico. Anch'io sono qui per soldi.

Ma c'è una cosa che devo chiederti».

«Dilla...».

«C’eri anche tu con Fred, a Moctezuma, due settimane fa?».
«Moctezuma... non ci sono... mai stata...».

«Ne sei certa?».

«John... non ci sono... mai... stata...».
«Ha detto il vero, non c'era», una figura femminile apparve silenziosamente sulla scena.

La donna si avvicinò.

«Ci sei andato pesante… », riferendosi alle condizioni di Janet.
«Ho dovuto difendermi dai suoi morsi».
«Dovresti sapere che le vipere attaccano solo se disturbate».
«Chi sei…», domandò la Frexhen.
«Sono Mitla.
Lei non c’era a Moctezuma. La sua presenza non sarebbe passata inosservata.

Quindi non è compito mio toglierle la vita.

Ma ci hai pensato tu, da quel che vedo…».
«È stato un incidente. Non ho visto bene dove mettevo i piedi.

Non puoi fare niente per lei?».
«Le darò un’occhiata mentre tu ti terrai occupato con il giovane serpentello. Sta arrivando…».
Il bounty-killer annuì e si avviò alla porta.
Quando fu uscito, Mitla si accostò alla Sceriffa: «Quell’uomo ti guarda con occhi strani: te ne sei accorta?».
«Chi sei…», domandò ancora Janet.
«Sono Mitla, l’ultima Sacerdotessa.
Tu sai perché tuo figlio si è recato nella Sonora, due settimane fa?».
«Una partita… di cavalli…».
«Giunto con i suoi nel villaggio di Moctezuma, ha fatto violentare e uccidere la ragazza che serviva nella cantina».
«Fred…».
«Sì, Fred», la guardò dura, mentre le sbottonava la camicetta.

Le medicò le ferite con degli unguenti che portava alla cinta.

La Frexhen la lasciò fare, non aveva molto da perdere.
Infine, le fece bere una pozione, molto amara, amara come la Morte.
«Mitla… aiutami… sto morendo…», sussurrò la Sceriffa.
«Ti sto già aiutando, Janet.

Tu tira i freni; e sai cosa significa».
Il corpo della Madison si stava irrigidendo. La donna cercò di reagire, scuotendo lievemente il capo, ma servì a poco. Con gli occhi comunicò la sua disperazione a Mitla, nell’estremo tentativo di prolungare la vita. Kleo non riusciva a parlare, la lingua era asciutta.
BANG
BANG
BANG
Al piano di sotto, intanto, era cominciato il concerto.
BANG
Un ultimo sparo sanzionò il requiem.
Mitla riconobbe il musicista.
Poco dopo gli stivali di John Walker rimbombarono sulla soglia.

«Janet...!», la Frexhen aveva gli occhi sbarrati.

«Calmati... e ascolta...
Il tuo piombo fa grossi buchi, John. Il mio veleno, però, ne fa uno enorme.

Il cuore pulsa una volta quando la pietra rotola giù dall'alto picco e tocca il fondo; e una seconda volta quando un'altra pietra rotola giù e tocca il fondo: solo quel tanto che basta.

Il resto lo fanno i freni della tua donna, tirati al massimo», concluse Mitla.
Walker era interdetto.

«Non la muovere e non chiamare stregoni bianchi.

Tornerò domani.

E forse pure lei».

«Se anche tornasse, non avrebbe più un figlio, e sarei io ad averlo ucciso».

«Ti prenderebbe lo stesso. L'hai segnata, l'hai marchiata col piombo, come la bestia che è. Ha bisogno di te e molto da farsi perdonare. È madre ma ama soprattutto sé stessa. Credo sappia che la vita va pagata con la morte. Le vipere sono a contatto con l'inferno».

Detto questo, la strega lo lasciò solo con i rimasugli di Janet, mentre fuori la gente - ossessionata dalla fine della Frexhen - premeva per sapere, entrare e vedere il cadavere della gran donna.

ZOTHIQUE:

SCIACALLI

di Salvatore Conte (2024)

Il  borgo di Cith, nella regione nord-orientale di Cincor, lungi dall'accrescersi, era ormai morente.

Lontano dalle rotte di comunicazione che percorrevano Zothique, incavato nelle profonde gole dei Monti Mykrasian, era sempre più spopolato.

La Sceriffa aveva al suo comando soltanto due uomini.
Nell’epoca del sole rosso, in cui si aveva la chiara percezione di una fine incombente, nessuno aveva più voglia di fare progetti a lunga scadenza, costruire case, cercare gloria, o guardare alla posterità.

E tanto meno abitare luoghi destinati alla morte.

Ci si stringeva nelle ultime città rimaste.

Bochra, la possente guerriera, entrò nella taverna e sparse la voce; cercava un ingaggio, perché non c’è epoca che non abbia i suoi avventurieri, almeno per risultati a breve termine.

L'imponente ragazzona girava con la mazza ferrata e si dava da fare; in molte taverne di Zothique, i giocatori di carte la chiamavano la Regina di Bastoni.
Ben presto, però, la frenesia che proveniva dalla strada, ove si teneva il mercato, la spinse a tornare all’esterno.
Stavano portando via - su una lettiga - l'esuberante Chana, la più grossa prostituta di Cith.

Era stata accoltellata, e la lama era ancora dentro, nello stomaco, fino al manico.
Le braccia abbandonate a penzoloni fuori dalla barella, i grossi seni induriti e irrigiditi, anziché morbidamente ciondolanti come al solito.

Era stata sorpresa tra la folla del mercato.

E ora veniva trasportata presso il gabinetto di Galeor, l'alchimista più importante di Cith.
Decine di persone rimasero in attesa all’esterno. Chana era popolare nella cittadina.
Ed era conosciuta per la sua sfrenata ambizione.
L'imponente prostituta si accompagnava da un po' di tempo a uomo dalla nota mancanza di scrupoli.

Restava il fatto che Chana era stata portata via dal mercato con un coltellaccio affondato per intero nella pancia, e ciò aveva lasciato interdetta la plebaglia di Cith.
Adesso tutti volevano sapere chi l’avesse scannata e perché.

La Sceriffa di Cith, l'esperta Anafra, stava ricostruendo le ultime ore di Chana.
Sebbene indurita dal suo sporco lavoro, anche Anafra era un donnone.

Avida, provocante e scaltra, arrotondava la misera paga dandosi da fare a suo modo.

Con istinto puramente femminile, realizzò subito che Chana era stata sventrata perché implicata in qualche affare illecito e potenzialmente redditizio.
I testimoni riferivano scrupolosi le circostanze dell’accoltellamento.
Un colpo preciso e mortale, in pieno stomaco, opera - evidentemente - di un sicario professionista.
Una figura corpulenta, avvolta in un mantello e travisata da un cappuccio ben calzato, si era avvicinata alla prostituta; poco dopo, tra la folla del mercato, si era udita una feroce esclamazione: CAGNA, seguita da un vibrato NO e un grido straziato di donna; la potente Chana era stata sorpresa e sventrata con un coltellaccio; ma doveva aspettarsi qualche minaccia, se aveva opposto quel disperato NO; l’assassino era subito sgusciato via, mentre la prostituta era rimasta come impalata per alcuni istanti, con le mani chiuse d’istinto intorno al coltellaccio, rimasto piantato dentro; quindi era stata soccorsa dai passanti, che l'avevano distesa a terra: gli occhi al cielo, gelati dalla sorpresa; poco dopo era giunta una lettiga, anche se era sembrato subito chiaro che sarebbe morta.
La Sceriffa mise sotto torchio l’uomo che l'accompagnava al momento dell’accoltellamento: lo stesso delle ultime settimane.
«Non so nient’altro, ve lo giuro.
Non ho la più vaga idea del perché quella stronza si sia fatta ammazzare».
«Quella “stronza”, come la chiami tu, pezzo di merda, stava camminando al tuo fianco, quando l’hanno sventrata…».
«E allora…? Che potevo fare?».
«Perché ti frequentava?».
«Sono un bel tipo e anche sveglio, forse per questo».
«Tanto sveglio non si direbbe, visto che l’hanno ammazzata sotto i tuoi occhi…
Perché non hai cercato di difenderla?».
«E come potevo fare? Quello era un armadio e io ero disarmato… avrebbe ucciso anche me…».
«Come vi siete conosciuti?».
«Mi ha abbordato lei, nel solito modo...

Ed era nato un piacevole diversivo. Ma niente di più».
«Chana era piuttosto popolare in città, è stata colpita in pieno giorno, e qualcuno dovrà pagare.
Tu rischi la Culla di Giuda, bello».

       

   

«In pieno giorno? È sempre pomeriggio a Zothique, Sceriffa…!».

«Sulla Culla perderai il tuo spirito…
Portatelo in cella e sorvegliatelo a vista», ordinò ai suoi uomini.
«Ehi, un momento… che storia è questa? Io non ho fatto nulla…».

Nel frattempo, la costernazione dilagava tra la gente radunata sotto la casa dell’alchimista.
Nessuno accettava l’idea che Chana fosse rimasta uccisa. Si sperava che la scaltra prostituta avesse un sussulto, e che comunque venisse rianimata, anche con il ricorso alla negromanzia, qualora necessario.
Gli astanti si interrogavano con morbosa curiosità su quelle braccia a penzoloni: segno inequivocabile della fine o comprensibile conseguenza dello shock?
A un tratto, l'alchimista li chiamò all'interno; anche se non tutti, ovviamente, potevano entrare.
C'era tanta voglia di avere notizie fresche di Chana, e i più tenaci si fecero strada a spintoni.
La massiccia Bochra non ebbe difficoltà a introdursi.
«Basta così!», stabilì Galeor.
E richiuse la porta.
Il coltellaccio era ancora dentro e intorno alla lama era stato applicato un unguento verde; il volto della prostituta era funestamente pallido, con un sensuale rivolo di sangue che le colava dalla bocca aperta.

Sulla fronte erano stati tracciati due segni di questa forma: 0 1.

Erano rossi, era il sangue di Chana.

«Ora aspettiamo», disse Galeor.

Fuori dal gabinetto dell'alchimista serpeggiavano apprensione e malcontento.
In parecchi sostenevano che Chana fosse ormai cadavere, che per lei non ci fosse più nulla da fare, e che per mantenerla a Cith bisognasse sottrarla ai vapori del Lete.
Galeor andò incontro alla gente rimasta fuori, che lungi dallo stancarsi di aspettare, aveva moltiplicato la propria curiosità.
«Calma, calma…

Occorre tempo...

Lo Zero e l'Uno devono elaborare la soluzione».
Detto questo, l’alchimista se ne andò senza aggiungere altro.

Anafra stava torturando Spun, il compagno della sventrata.
Sentiva nell’aria il profumo dell’oro e ciò le metteva la febbre addosso.
Il dondolio della Culla gli sciolse tosto la lingua.
Lo finì con un veleno che non lasciava tracce, sciolto nell’acqua.
Il cuore aveva ceduto, ma l’accusato aveva ormai confessato: era stato proprio lui a ingaggiare un sicario per eliminare la sua amante, che ormai sapeva troppe cose a riguardo dei suoi sporchi affari.
E ciò era perfino vero.

           

«Brava…», disse un'ombra all’altra.
«E tu chi sei?».
«Qualcuno mi chiama la Regina di Bastoni, ma adesso sono la tua socia in affari».
«Davvero? Non sapevo di averne».
«Conosci tutta la favola, o solo l’essenziale?».
«Conosco questo…», e pescò a mani aperte nel grosso bottino d’oro e gioielli sparso sul letto di Spun, che risplendeva anche al buio.
«E allora te la voglio raccontare, così faremo amicizia, intanto…».
«Ne dubito».
«C’era una volta... una bella carovana di mercanti…
Era diretta chissà dove, ma fu sorpresa dai Ghorii, brutti e affamati.
Nessuno si salvò, tantomeno i cadaveri.
Ai Ghorii, infatti, lo sapevano anche i bambini, piaceva tanto la carne.
Perle, ori e gioielli, invece, gli rimanevano sullo stomaco.
Sbagliato: uno che si salvò c’era.
Per un colpo di fortuna era rimasto indietro e allora si salvò.
Fu così che a quest'uomo fortunato venne in mente di papparsi gli avanzi dei Ghorii.
Voleva vivere felice e contento per il resto dei suoi giorni…
E fu così che si divertì con una bella vacca di nome Chana.
Purtroppo, però, questa non è una favola a lieto fine, come si raccontavano quando il sole era giallo.
La sua fortuna finì quando incontrò un donnone più tosto di lui.
Intanto la vacca finì scannata. È infatti difficile, a questo mondo, fare una bella fine.
Pur tuttavia, mentre lottava per non crepare - ma chi muore dopo aver sperato, muore due volte - Chana vuotò il sacco.
E con le mani nello stesso sacco, una sua amica trovò un’altra grossa vacca…
Ti è piaciuta la favola?», concluse beffarda la mastodontica Bochra.
«Per niente», replicò seria Anafra.
«Il sacco non è abbastanza grande per tutte e due?».

«Qua comando io!», la Sceriffa di Cith si avventò contro Bochra col pugnale alzato, scattando come una vipera.

La Regina di Bastoni scartò sul fianco, estrasse lesta il suo - lungo e affilato - e restituì la gentilezza.
Le due corpulente figure lottavano alla morte, scambiandosi occhiate assassine e affondi micidiali.

Finirono avvinghiate l’una all’altra, rotolando insieme a terra.

Le assi marcescenti del pavimento scricchiolavano sinistramente sotto il peso delle due massicce figure, torturate senza tregua dall'acerrima lotta.
SZOCK
«Arghh…!».
Il precario equilibrio si ruppe all'improvviso.

Una delle due spiccò un involontario tuffo nel Lete.
Occhi di donna strabuzzarono nella semioscurità della stanza.

Il pugnale, affondato nel fianco fino al manico, stava bevendo il suo sangue.

Ciò voleva dire che la lama era tutta dentro la pancia della Sceriffa; ed era una bella lama, come la pancia, del resto.
Anafra era precipitata nel Lete con rumoroso tonfo, anche se lei neppure lo immaginava, avida della vita com'era.

SWISH

Bochra tirò fuori la lama, e vari pezzetti di budella...
«Avresti fatto meglio ad accettare la mia proposta…».
«Accetto… adesso…».
La guardò divertita.
«E va bene… voglio essere generosa: sei una donna importante...
Ma dovrai cavartela da sola».
E quella, mentre Bochra rimetteva tutto nel sacco, si rialzò davvero sulle proprie gambe, tenendosi una mano premuta sul fianco.

La Regina di Bastoni, che se la cavava bene anche con le Spade, fissò per un attimo la Sceriffa: era patetica, ma tosta; molto tosta.
«Mi faccio... richiudere... da Galeor… mi accompagni…?».
Bochra le coprì le spalle col mantello, in modo conciliante.

O non aveva capito, o voleva illudersi.
«Una Sceriffa è una socia importante e va tenuta da conto».
Fu così che Anafra e Bochra lasciarono insieme il fatiscente alloggio di Spun, dove nessuno avrebbe mai pensato di poter trovare un sacco pieno di perle e gioielli.
Camminarono lungo le oscure vie della cittadina, una appesantita dall’oro, l’altra dal ferro.
Dal giorno alla notte, era sempre l’ora degli sciacalli a Zothique.

LA FINE DI ANAFRA

Combatteva da ore con un’emorragia fatale, sostenuta dal fisico e dalla disperazione.
«Non pensavo... fosse così grave...», recriminava.

«Il pugnale è andato in profondità, Anafra», l'alchimista gliel'aveva spiegato dieci volte. «Non ha avuto riguardi, doveva essere arrabbiata».

«Acqua... acqua... subito...», aveva paura; e la bocca secca, come tutti i moribondi.

Non voleva proprio capire cosa significasse un lungo coltello nelle sue budella, strappato via senza tanti riguardi.
Forse perché a Cith la Sceriffa era un'autorità.
Aveva superato i cinquanta soli in fronte, ma non aveva niente da invidiare a donne più giovani.
Il volto ricordava le statue dei tempi mitici, il corpo - sebbene un po’ allentato dall’età - era procace e massiccio.

       

Anafra era una potenza assoluta che rimaneva uccisa.

Non era facile per lei farsene una ragione, accettare la fine, dopo aver finalmente assaporato la ricchezza.
Bochra era rimasta a vegliarla, il loro era stato un duello leale.

Non c’erano motivi di rancore, perché durante una lotta corpo a corpo tutto era ammesso; anzi era nata una società, sia pure destinata a non durare.
Quando i popolani di Cith non la videro in servizio, arcigna e repressiva nel controllo delle botteghe e dei mendicanti, scattò subito il passaparola per avere sue notizie.
Ben presto si seppe che anche lei era stata ricoverata presso Galeor.

Durante un controllo notturno, un criminale l’aveva sopraffatta e pugnalata a morte.
L’incidente era occorso a poche ore di distanza dall’attentato a Chana e dalla morte in carcere del suo compagno.
Lei stessa l’aveva interrogato.
Qualcuno sospettava un collegamento, che infatti c’era.
Di nuovo si creò un capannello di curiosi sotto la casa dell’alchimista.

Perdere Anafra sarebbe stato un duro colpo.
Era corrotta, avida, inflessibile, eppure - anche non volendo - portava con sé un raggio di quel sole biondo di cui parlavano le antiche cronache.
Sembrava venire da un altro tempo.
E così il rancore veniva digerito, in qualche modo le si perdonava tutto.
Ora assediavano la casa di Galeor per avere sue notizie.
«Bochra… non credevo… di avere... così paura…

Acqua... acqua... ti prego...».

Anafra cercava disperatamente di muovere qualche passo verso la salvezza, ma erano di più quelli che faceva all’indietro, verso la Porta Fatale che conduce alla Casa di Thasaidon.

La Sceriffa di Cith tentava ancora di apparecchiarsi la salvezza, ma stava per scomparire dalla scena, tra molti rimpianti.

Per salvarla sarebbe servito un capolavoro.

«Le cose... non vanno... come... pensavo io... gnhh... gnhh... il coltello... ha bevuto... troppo... gnhh...», a bocca spalancata, sconcertata, consapevole di tutto, ormai.

Bochra, che l'assisteva senza trattenere la propria eccitazione, cercò di distrarla.

Le passò una mano dentro la camicia d'ordinanza, sbottonata fino allo stomaco, palpeggiandole il seno da mignotta.

Tuttavia Anafra era troppo tesa per riuscire a spassarsela.

«Bochra... cosa ne pensi... gnhh... della negromanzia...».

«Capisco cosa intendi: in tanti ci provano; si accontentano di una vita dimessa, piuttosto che scomparire del tutto».

«Io... non ne ho... per molto... gnhh... gnhh...», Anafra aveva preso coscienza della propria sorte; sapeva di essere ormai diretta verso la Casa di Thasaidon. «Mi devo organizzare...

Hai combinato... un bel guaio... gnhh...

Devo rimediare... in qualche modo...

Ma intanto... gioca ancora... gioca... gnhh...», malgrado le budella sottosopra, cercava un modo per distrarsi.
Bochra gliele riprese volentieri tra le mani.

La Regina di Bastoni si consultò con Galeor, che convocò in segreto un esperto negromante, per esaudire l'ultimo desiderio della Sceriffa.

Le spiegò che l'avrebbe strangolata dolcemente con una sciarpa di seta e che lei non doveva opporre resistenza.

Anafra assentì distrattamente, non era più lucida, l'emorragia l'aveva sfiancata.

L'operazione ebbe inizio.

Il grande momento era arrivato.

Anafra pagava con la vita la sua scellerata ambizione.

Era finita.

La Sceriffa, però, reagì con veemenza quando si sentì stringere il collo.

Bochra sospese tutto.

Il negromante si stufò di aspettare e se ne andò stizzito.

«Non ho... il coraggio... gnhh... di farla finita...», mormorò, quasi scusandosi.

La folla in strada era inferocita, perché le notizie scarseggiavano.

Vedendolo uscire, si arrabbiò ancora di più: che ci faceva lì?

Fu circondato e minacciato.

Spiegò loro che non aveva fatto niente, che la Sceriffa ci aveva ripensato, che preferiva aspettare la fine.

I popolani volevano vederla a tutti i costi, sapevano ormai che Anafra stava per spirare.

Bochra ne fece entrare qualcuno, purché stessero zitti e non si avvicinassero troppo.

Gli occhi della Sceriffa vagavano spaventati sul soffitto della camera.

La bocca semiaperta, in un'espressione stanca e sconcertata.

Un rivolo di sangue le colava da labbro.

C'era una palpabile apprensione tra i presenti. La situazione non era migliore di quella che avevano immaginato.

Anafra piaceva sempre da morire.

Ma ormai era giunta alla stretta finale.

La sua avidità l'aveva tradita.

Avrebbe potuto dividere il malloppo, ma non si era accontentata; e adesso ne pagava le conseguenze.

La tragedia di Anafra sarebbe rimasta nelle memorie di Cith.

Allungò la testa all'indietro e allargò sfinita il braccio, che cadde a penzoloni dal bordo del letto.

Gli astanti si strinsero - come una sola persona - intorno al suo capezzale, ansiosi di aiutarla in qualche modo.

Neanche Bochra riuscì a frenarli.

Le rimisero a posto il braccio e le sussurravano parole carine.

Anafra, dal canto suo, boccheggiava disperata, ancora incredula di dover morire, nonostante l'ampio consenso e il convinto sostegno che molti le offrivano.

Mentre crepava, sembrava assorta in qualche remoto pensiero.

Aveva cercato di afferrare la salvezza, ma le era sfuggita; nonostante - in certi momenti - le fosse sembrata vicina, a portata di mano.

Poi le gambe si mossero da sole, in un sussulto involontario.

Stava perdendo il controllo.

Era uno spasmo di morte, forse l'ultimo avvertimento.

La paura aumentava e il sudore freddo con questa.

I popolani di Cith lanciarono grida a quelli rimasti fuori.

Era il momento!

Anafra non si teneva più.

Anche se a parole continuavano a incoraggiarla, tutti sapevano che era finita.

Gli sguardi scartavano tra la ferita nel fianco, quella che l'aveva uccisa, e gli occhi della morente, che si stavano fissando nel vuoto, carichi di paura.

Il coltello dell'assassino, entrato molto in profondità, le aveva segato le budella, e neppure una come lei, dura e ambiziosa, riusciva a prendere altro tempo, in quelle condizioni.

Ebbe un altro spasmo, anche peggiore. Si contorse sul letto come una biscia.

I presenti gridarono allarmati.

Anafra stava per essere cancellata sotto i loro occhi e nessuno poteva fare niente.

Un attimo dopo rimase con la bocca spalancata e gli occhi fissi sul nulla, infine stroncata dalla fatale pugnalata di Bochra.

La Regina di Bastoni provò a stringerle la mano, ma ormai era flaccida, come le vecchie tette.

L'incredulità attanagliò i presenti, che si aspettavano altri spasmi.

La notizia attraversò come un fulmine il borgo: la Sceriffa Anafra aveva trovato la morte nella fatale pugnalata della notte precedente.

Aveva provato fino all'ultimo ad agguantare la salvezza, rifiutando una precoce negromanzia e affrontando una crudele agonia; ma alla fine era uscita di scena, lasciando molte persone incredule intorno a sé, nonostante la morte annunciata da ore.

Basiti, si ostinavano a rimanere lì, gli occhi fissi sul cadavere.

Tuttavia spasmi e sussulti erano finiti, a parte una torsione della gamba che suscitò un clamore esagerato e un breve entusiasmo; ma la notizia di una disperata reazione della Sceriffa fu presto smentita: gli occhi fissi al soffitto della camera parlavano chiaro; non c'era più niente da fare per lei; doveva essersi trattato di un tardivo assestamento del corpo indotto dal rigor mortis.

«È rimasta fottuta», il commento prevalente, che passava di bocca in bocca, non privo di incredulità, come la faccia morta della Sceriffa.

C'era disperazione al suo capezzale, in molti cercavano Galeor.

Qualcuno notò che i segni sulla fronte di Chana erano spariti.

A un'occhiata interrogativa di Bochra, l'alchimista si lasciò sfuggire queste parole: «Non si può chiedere troppo allo Zero e all'Uno. Ma sono io a fare le proposte».

Tra i disperati, c'era perfino chi giurava di seguirla nella tomba, per tenere lontano il verme.

La lotta di Anafra era stata disperata fino all'ultimo respiro; tra ambizioni di salvezza e scenari di morte.

     

Tanti gli sciacalli rimasti ad aspettare l'ultimo spasmo di Anafra, potente mignotta uccisa dall'avidità.

E in molti non si arrendevano neppure di fronte all'evidenza: con le lacrime pensavano di annegare il verme.

Si sarebbero accontentati di un piccolo spasmo. Ma la bocca spalancata e gli occhi invariabilmente fissi sul nulla non lasciavano speranze: Anafra aveva pagato un prezzo altissimo, forse esagerato; aveva provato a rimanere in gioco, ma la salvezza le era scivolata via; nelle ultime due-tre ore aveva perso il controllo, non c'erano più stati dubbi, tutti avevano capito; solo lei aveva continuato a illudersi.

E anche adesso, cadavere, aveva un'espressione incredula sul volto.

Lei, uccisa.

Assurdo.

Eppure non c'era più nulla fare, non le rimaneva che sparecchiare.

Il cadavere, su cui erano apparsi dei segni, sarebbe rimasto sotto osservazione per alcune ore; poi messo all'asta.

Difficile che 01000001 01101110 01101110 01100001 andasse al verme.

L'AVVENTO DI DAGO

La fine di Anafra aveva fatto rumore.

L'inedia regnava su tutta la terra di Zothique e le poche notizie sconvolgenti attiravano la morbosa curiosità della plebaglia.

Da Yethlyreom, capitale di Cincor, giunse a Cith una masnada di curiosi e avventurieri.

La storia dell'incidente notturno non aveva convinto nessuno.

Qualcuno aveva voluto eliminare la Sceriffa Anafra, senza lasciarle scampo; ma lei, Anafra - molto stupidamente - non rassegnandosi, lottando per ore, aveva reso tragica e famosa la sua fine.

Tra gli avventurieri pervenuti a Cith c'era un certo Dago.

Qualcosa di grosso sarebbe venuto fuori. Se lo sentiva.

E non aveva torto.

ZOTHIQUE:

L'IMPERO DI RISHA

di Salvatore Conte (2024)

Da lungo tempo era insorta un'incomprensibile ostilità tra due meschini villaggi di Yoros. Erano situati alle pendici dei Monti Ymorth, nella regione a nord-est della capitale Faraad.
Sul fuoco di questa villica rivalità, aveva soffiato una grossa mignotta.

Il suo nome era Risha.

Proveniente da chissà dove, si infiltrava tra le famiglie del villaggio con i suoi modi affabili; stringeva mani a destra e manca, si mostrava rassicurante per accattivarsi le simpatie dei villici.

Sebbene Risha fosse in realtà una cessa sfondata, si era accorta di piacere molto ai villici, e perciò aveva deciso di sfruttare la situazione per ottenere quello che più voleva: il dominio su Zothique!

La sua figura era possente, nessuna cosa sembrava poterla travolgere.

L'importante donna era famosa a Lask per la massiccia prestanza.

Risha sembrava indistruttibile e avrebbe presto avuto l'occasione per dimostrarlo.

L'imponente signora dalle zinne di lusso andava acquisendo una crescente importanza all'interno del modesto villaggio di Lask, forte della sua perversa prestanza, sicura di poter dominare la scena con i suoi modi subdoli e il fascino esotico da potente mignottona.

Donne come lei - nello spento mondo di Zothique - erano rare: perciò credeva le spettasse di diritto il sommo potere.

Per avere mano libera, l'importantissima donna si era appartata in una casa diroccata sita nello spettrale bosco che divideva i due villaggi in lotta, Lask e Melk, e da qui dirigeva un manipolo di giovani lavativi, sognando di diventare sempre più potente.

Con la sua carne aveva acquistato i favori di Lask; quasi di riflesso, era detestata a Melk.
Infatti, in quei luoghi desolati -  scarsamente visitati e lontani dalle rotte commerciali - una donna come lei - decisa, languida e in carne - era considerata o una sorta di regina, o una sorta di lamia.
La sua folle ambizione era quella di usurpare la Corona di Yoros.

E per fare questo istigava gli abitanti di Lask contro quelli di Melk, affinché poi - una volta impostasi su entrambi - potesse proclamarsi Imperatrice.

La tensione fra i due borghi era stata inasprita da un'ulteriore sciagura: un feroce orso aveva preso ad assalire i viandanti solitari, lungo l'unica, tortuosa pista che collegava tra loro i due villaggi.

        

 

       

Il tipo di ferite e le tracce lasciate sul terreno erano infatti senza dubbio riconducibili a un orso, non raro su quelle montagne, ma evidentemente molto aggressivo.
L’anomalia era rappresentata dal fatto che l’orso non si cibasse delle vittime.
Pareva agire sulla base di un puro istinto predatorio e assassino.
Si notò anche che le vittime erano quasi esclusivamente abitanti di Melk o stranieri ivi diretti.
Fu per questo che alcuni bifolchi di quel villaggio proposero di organizzare una battuta di caccia per stanare la belva.

Tuttavia la paura, fino a quel momento, scoraggiò ogni iniziativa.

                

                 

                 

Era dunque Risha, Risha Berdicev, a uccidere (!), spinta da una bestiale follia e dall'odio verso i villici di Melk. Una potentissima mignotta aveva avvelenato i pozzi di quelle squallide contrade.

«Maledetti... basta...! Ourghh...! Basta...! Oohhrgh...! Vi prego... basta!», strillava disperata Risha, che non si aspettava di morire in quel modo.

Quelli, però, non la smettevano di infierire! La colpivano a morte! Volevano la sua pelle!

La possente bagascia si trovava alla loro mercé, tormentata da calci, bastonate e soprattutto efferati colpi di forcone (!), affondati impietosamente nel ventre molle (!), che l'avevano tumefatta, infilzata (!), sventrata (!) e sbudellata (!); oltre a ciò, ancora aggrappata con le unghie alla vita, per finirla e umiliarla - senza pietà né ripensamenti per una donna agonizzante che chiedeva di vivere - l'avevano legata per i piedi a un cavallo, con lo scopo di trascinarla come una carogna lungo la squallida pista.

L'avrebbero riportata a Lask, dove sarebbe giunta cadavere.

Risha conosceva il suo destino; però non voleva arrendersi; avrebbe lottato; le forme grasse l'avevano in qualche modo protetta e le davano forza; prima di morire voleva trascinare i suoi nemici con sé, offrendoli a Thasaidon.

Aveva le budella di fuori, ma il cuore era illeso: la fortuna non l'aveva abbandonata del tutto, non era ancora crepata, poteva cercare di gestirsi.

La sua stazza la proteggeva, conservandole una parvenza di vita; era una fortezza che al momento - pur presentando diverse brecce - neppure la morte riusciva a espugnare.

La procace mignottona teneva alta la testa e confidava nella complicità dell'oscurità e delle brusche curve che obbligavano il cavallo a rallentare.

Lungo una di queste, presso il ciglio, intercettò un grosso ramo frondoso, caduto da poco.

Con tasaidica furbizia, se lo passò sotto la schiena, per proteggere il corpo dall'attrito sul terreno, cercando di salvare il salvabile. Aveva capito che la stavano portando a Lask. Se riusciva ad arrivarci viva, sarebbe spirata fra le braccia dei suoi uomini.

Fu così, infatti, che giunse al villaggio dove era molto popolare.

Il villico in groppa al cavallo non ci badò nemmeno, la grossa puttana non aveva alcuna possibilità di salvarsi. L'umiliazione era completa.

Tagliò di netto la corda e se ne ritornò indietro.

Lo strepitio del cavallo destò dal sonno gli abitanti di Lask.

Subito accorsero intorno al corpo martoriato di Risha, con grida di allarme e disperazione.

Si accorsero con stupore che respirava ancora e cercava anche di parlare.

«Ven...di...ca...te...mi...», sussurrò a stento, con la bava alla bocca.

I villici di Lask non sapevano che lei stessa era stata l'orso furioso che uccideva i viandanti nel bosco.

Perciò pensarono subito a un atto premeditato di Melk.

D'altra parte, Melk aveva dato per scontato che lei avesse agito per conto di Lask.

Alla fine, Risha aveva raggiunto il suo scopo.

La rabbia dilagò come un'alluvione di follia.

I più accesi la caricarono su un carro, legandola seduta a cassetta.

Avrebbe guidato lei stessa, anche cadavere, l'assalto a Melk.

Non ci fu nemmeno il tempo per risistemarle alla meno peggio le budella.

L'unica accortezza fu di ricomporla come piaceva a lei e a tutto il villaggio di Lask: da grossa, invincibile puttana, con la sua tipica giacchetta rossa gonfiata dal corpo possente.

Era un segno di potenza che Melk non aveva accettato, ma che ora li avrebbe distrutti.

Risha era legata saldamente contro lo schienale del carro, pronta a combattere la sua ultima battaglia.

La sua vista esaltò gli animi.

Era sempre bella e il pallore mortale dell'agonia la rendeva ancora più intensa e struggente.

Come prevedibile, vedendo la loro regina ormai cadavere, i popolani si scatenarono, infuriando al seguito del carro lanciato sulla pista per Melk.
Lo scontro fu cruento. L’odio covato da molti soli trovò sanguinosa esplosione.
Gli abitanti di Melk erano increduli di ritrovare Risha ancora disperatamente aggrappata alla vita.

«La scrofa si muove ancora! Non è morta! Uccidetela!».

Un villico le lanciò contro un forcone, ma un'improvvisa folata di vento deviò la traiettoria dell'arnese.

Benché ridotta a una montagna di carne sanguinolenta, Risha non si era lasciata andare, e comandava esplicitamente i suoi uomini con sibilanti ordini amplificati dai suoi araldi.

La sua guardia personale impediva a chiunque di avvicinarsi, proteggendola da altre coltellate.
Ottenuta la vittoria, il villaggio di Melk fu bruciato, i pochi superstiti costretti alla fuga.
Rientrata trionfalmente a Lask, Risha fu scaricata tra la concitazione generale e trasportata in tutta fretta nella casa più importante del villaggio, quella dell'esattore delle tasse.

Da lì, benché in fin di vita, continuò a dare ordini.
«Abbiamo vinto... è nato... un nuovo regno...
Io... adesso.... voi... avete una regina... Risha... l'Immortale...

Voi... adesso... siete un esercito...».
Parole senza dubbio deliranti. Per lei c'era poco da fare. Lo sapevano tutti.
Era tenuta in vita dal suo fisico massiccio e forse da Thasaidon stesso, commosso dalla sua sorte, ma la fine era considerata inevitabile.
Il violento linciaggio, le micidiali ferite riportate, avrebbero stroncato da un pezzo qualunque altra donna.
Mentre circolava la più aperta rassegnazione, e tutti erano in attesa del momento fatale, lei continuava a parlare.

«Uomini di Lask... io... non voglio crepare... la vostra Regina... non accetta di morire... per me... non... non... non è ancora finita… io... io... io voglio salvarmi… non rimarrò uccisa...», Risha cercava di infondere coraggio a quelli che ormai - dopo lo storico trionfo - considerava di diritto suoi sudditi.
Il grosso petto le era diventato sempre più pesante, sollevandosi ormai con grande stento.
Ma nei suoi occhi c’era una ferrea determinazione che sfidava la morte.
La notizia, intanto, giunse rapida all’orecchio del Re di Yoros: l’ambiziosa, folle Risha, la grossa mignotta di Lask, era stata trucidata dagli abitanti di Melk.
Ovviamente non la temeva, sapeva che quella sarebbe stata la sua fine, e perciò non era mai intervenuto.
Ma quando gli giunse voce che la possente donna, sia pure in punto di morte, si era proclamata Regina, cominciò a incuriosirsi.
Se fosse sopravvissuta, le avrebbe mandato contro il suo esercito e l’avrebbe spazzata via.
Risha, da parte sua, nonostante la morte impressa in faccia, stava ordinando ai suoi uomini di conquistare i villaggi vicini e di prepararsi a sconfiggere il Re.

«Stavolta... dovrete farcela da soli...».
E neppure mancava chi ci credesse con convinzione.
Tuttavia l'illusione non durò molto.

Quando Risha, avvicinandosi alla fine, andò definitivamente in crisi, cadendo con il capo all’indietro, gli occhi vuoti e fissi al cielo, dilagò il panico.
Pur inevitabile, il momento fatale coglieva tutti impreparati.

Si diffuse la voce incontrollata che Risha fosse spirata.

Ma non era del tutto vero. Non ancora, almeno.
Dietro gli occhi vitrei, riusciva ancora a respirare.

Era tenuta in fin di vita dalla sua ferrea volontà e dagli occulti rimedi di uno stregone giunto dalle montagne circostanti.
Una disperata speranza tornò ad aleggiare sul villaggio di Lask.
Qualcuno ci credeva.
Era troppo forte per crepare.

Provò ancora a parlare, a dare nuovi ordini.

«Non sono finita...», si ostinava a dire.

«E se anche crepo... mi mangio il verme... e ritorno su...».

Mentre lei moriva, nasceva il suo mito.

La spaventosa agonia di Risha teneva tutti col fiato sospeso: sia i suoi seguaci che i suoi nemici.

I primi sapevano di non valere nulla senza di lei, i secondi di non poterla più sottovalutare.

Risha cercava in tutte le maniere di differire la morte.

Se avesse trovato il modo di farla franca, ancora bella com'era, avrebbe potuto regnare incontrastata per molti soli.

Ma le orrende ferite erano mortali, lei lo sapeva: avrebbe fatto meglio a prepararsi, piuttosto che cullare stupide illusioni.

Con i loro forconi, i villici infuriati l'avevano sbudellata, senza lasciarle scampo.

Non c'erano chirurghi nel regno, se non a Faraad, e lo stregone delle montagne non poteva fare molto di più.

La sua vendetta, però, l'aveva ottenuta.

Il Re di Yoros non dormiva sonni tranquilli, chiedendo di continuo rassicurazioni sulla morte della tasaidica scrofa, della gran vacca di Lask, immaginandola lasciva Imperatrice di lungo corso nei suoi ricorrenti incubi.

Risha, invece, alternava momenti di incoscienza a brevi attimi di lucidità.

I suoi uomini l'alimentavano con cibi semplici, liquidi, assimilabili direttamente dallo stomaco, visto che le budella erano state ributtate dentro più o meno alla rinfusa.

«Il verme... è buono... è grasso... io... me lo mangio... e poi... io... mi mangio... il grande verme... di Yoros...».

SENTIERI DI FOGNA

di Salvatore Conte (2024)

La fisso dritto negli occhi...

È Layla Boyle, un pezzo grosso.

A quasi sessant'anni è ancora una bella donna, perfettamente conservata.

Vorrei continuasse a portarseli bene anche alla fine della serata.

La sua azienda e la sua pancia si allargano sempre più; adesso pappa pure sulla tratta delle ragazzine di buona famiglia.

Questa sera sono venuto a trovarla nel suo losco night-club, attaccato ai docks, per proporle un buon affare: la sua vita in cambio di Debbie, una bambina di dodici anni che devo riportare ai suoi genitori.
Mi guardo intorno e studio un piano.

Sono nel suo ufficio, sul retro del locale, nei bassifondi del porto. So che in uno dei container in attesa sul molo è nascosta la ragazzina. Deve dirmi quale.

Lavoro in proprio, la Compagnia non fa buone azioni.

La libanese, vecchia esperta di guerriglia e attentati, è seduta arrogante dietro la sua scrivania: indossa un'elegante camicia bianca, aperta fino allo stomaco, ben gonfiata dalle tette, e un paio di bretelle nere, intonate con i bottoni, i capelli e la beretta.

Non nascondo di essere un suo fan, ma se necessario, questa sera le faccio esplodere le budella.

Alla mia sinistra - su una poltroncina - c’è una delle sue luogotenenti: Laura Olson.

È una gran sgualdrina, una metallara del cazzo, ma con grosse zinne e occhi dolci da brava ragazza; si strofina le cosce con una beretta; alcolizzata, eroinomane, psicopatica, se non la uccido io stasera, facile che lo faccia qualcun altro molto presto.

Alla mia destra - appoggiata col culo alla scrivania - c'è l'altra sgualdrina-killer della Boyle: Nada Giansanti.

È un grosso puttanone, non certo di primo pelo; la magliettina verdognola è talmente attillata che le sue bombe sembrano sul punto di scoppiare; si tiene una uzi sottomano, con l'aria di avere una gran voglia di usarla contro di me.

Gran puttane tutte e due. Anzi tutte e tre.

Difficile scegliere chi ammazzare per prima.

Sta di fatto che mi ritrovo nel bel mezzo di un gineceo criminale.

Ma un'eccezione c'è.

Quasi di spalle, a guardia della porta, c’è uno scagnozzo con il revolver infilato nei pantaloni.

«Sei ancora una grandissima puttana», cerco di essere diplomatico.

«Lo prendo per un complimento».

«Lo era.
E adesso, se non sono indiscreto... posso sapere se hai deciso?», la incalzo subito.

«Deciso cosa?», sembra divertirsi.
«Se tenerti la bambina o la tua vita.

Mi dispiacerebbe sforacchiare le zinne di una bella signora...».

Comincia a ridere.
«A mister Jameson è andato in pappa il cervello…», la Giansanti fa il verso al boss.

«Mister Jameson è proprio un cazzone…», la Olson pure.
La risata di Layla non accenna a smorzarsi.
È il momento migliore per agire.
Si aspettano una mia replica e non le deluderò.
Sanno che ho un revolver nella tasca della giacca.
Ma non sanno che sono abbastanza pazzo da usarlo.

POW

Il primo colpo - con gesto minimo, la mano in tasca - finisce nelle budella del boss, passando sotto il piano della scrivania.

Nessuno finora aveva avuto il coraggio di farle esplodere la pancia!

La Boyle è letteralmente sbigottita.

L'ho sfondata.

Layla rovescia la testa sulla scrivania: cazzo, ci sono andato giù parecchio duro!

Spiace trattare così una signora, ma se l'è voluta.

Nada afferra la uzi e me la spiana contro, pronta a colpire...
POW
Il secondo colpo è per lei, nello stomaco, con il revolver ancora nella tasca.
Mentre barcolla, esterrefatta, in un attimo l’abbranco - non senza galanteria - portandomi alle sue spalle.
Senza sfilarle la uzi, la oriento verso la porta.

RAT-RAT-RAT

Lo scagnozzo viene sbalzato contro la parete dalla violenza della raffica.

È rimasta solo la metallara, ma devo cercare di non ammazzarla, perché di sicuro sa dov'è tenuta la bambina.

La Olson, però, non sembra preoccuparsi troppo della puttana che mi fa da scudo, anzi... sembra intenzionata a regolare qualche vecchio conto.

«No!», la Giansanti fa bene a preoccuparsi.

BANG

La mignotta infatti fa fuoco, bucando per la seconda volta la pancia di Nada: la ciccia dell'italiana assorbe il colpo e mi lascia illeso.

POW

Laura, così facendo, mi costringe a spararle.

Un colpo all'addome: la ristretta porzione visibile, non ricoperta dalle tettone, grosse e cedenti, che le spiovono sul ventre.

Può bastare: avrà tempo di parlare.

È tutto finito.

La sgualdrina-killer spalanca la bocca e incrocia le braccia sulla pancia: il colpo è arrivato, e anche una bestia matta come lei l'ha sentito.

L'ufficio è isolato, i regolamenti di conti frequenti: nessuno verrà a ficcanasare.

Avrebbero dovuto prendermi sul serio.

Ora, prima di morire, qualcuna di loro dovrà parlare.
Scarico la Giansanti sul divano e comincio da Laura, che si è accasciata sulla scrivania, mandando il culo in fuori, nell'evidente tentativo di provocarmi.

Lancio uno sguardo a Layla e ho la netta impressione che, adesso, gli anni non se li porti più tanto bene.

«Sei impazzito... potevamo metterci d'accordo...», sussurra la metallara.

«C'ho provato».

«Forse mi hai ucciso...».

«Farai in tempo ad arrivare in ospedale, se mi dici quello che voglio sapere».

«Non voglio... finire dentro...».

«Penserò anche a quello, se mi dici...».

«Quello... che vuoi sapere...».

«Ecco, brava».

«Avvicinati...

La bambina... si trova... nel container... numero...».
Sembra confessare, ma uno strano lampo negli occhi mi mette in allarme.
Laura fa scattare il braccio verso di me, con velocità insospettabile!

La blocco appena in tempo.
Impugna un affilato tagliacarte. Era diretto verso la mia gola.
La drogata ha una forza mostruosa. Mi guarda con odio. Vuole vendicarsi.
Devo impegnarmi per vincere il braccio di ferro.
Ma a questo punto non le concedo scampo.
Sfruttando la sua stessa forza, accompagno il movimento contro di lei.
Il tagliacarte affonda nel fianco lardelloso della sgualdrina!

È tanta roba anche per una come lei.

Laura accusa il colpo e strabuzza gli occhi.
«No…», sospira sommessa.
Ho un attimo di compassione per lei, la rabbia è già svanita.

«Mi dispiace, te la sei voluta».

La mignotta tiene la bocca spalancata, in cerca d'aria, per assestarsi.

«Non te lo toccare, o sarà peggio: lo estrarranno all'ospedale».

Annuisce con un breve cenno del capo, il volto tirato, un rivolo di sangue dal labbro.

È una bella ragazza, peccato sia una drogata psicopatica.

È il momento di provare con Nada.

Ma stavolta senza perdere tempo.

Anche lei deve conoscere il posto.

Aggrappandosi all'esperienza e al fisico, sta gestendo le due pallottole.
Sia pure a fatica, la prendo in braccio, esco sul retro e la carico in macchina.

Nell'uscire dall'ufficio, rivolgo uno sguardo a Layla, ma lei non ricambia: sta puntando un angolo del soffitto da parecchio tempo, ormai.

Un vero peccato.

«Avanti… portami dalla bambina, adesso», ordino a Nada. «È qui intorno, ne sono sicuro».
«Layla… mi ucciderà…», come se non l'avessi già ammazzata.
«Non credo proprio: è rimasta uccisa lei, se non te nei accorta.

Dunque non ti ucciderà di sicuro.
Ma sarò io a farlo, se non ti decidi a parlare».
«Tu non la conosci... ma va bene...».
«Ci sono guardiani?».
«No… non c’è nessuno… vai al molo 13...».

L'italiana riga dritto, ho già in macchina la ragazzina.
«Ti chiamo un’ambulanza, Nada. Te la sei guadagnata».

SKREEK...
Con uno spaventoso strepito di pneumatici, irrompe sulla scena un grosso imprevisto.
Un’auto affianca la mia e inchioda i freni.

La tengo sotto mira con il mio revolver.
Dal finestrino si intravede la canna di una pistola puntata contro di me!

È Layla, nella sua sgargiante camicia bianca!

Stavolta l'ammazzo!

POW

BANG

CRASH

L'anticipo di un niente, il suo colpo parte per la tangente e manda in frantumi il suo stesso parabrezza.

Non è stato un tiro semplice, ma non ho avuto il coraggio di freddarla: l'ho beccata alla spalla.

Esco dall'abitacolo e mi avvicino alla libanese.

«Ferma!

Mi spiacerebbe gelarti».

«So capire... quando ho perso... gnhh...».

«Magari, però, quello zuccherino nel naso ti fa capire poco...».

«Sei stato carino... con me... cowboy...

Mi hai trattato... gnh... da signora...».

«Hai i tuoi privilegi, Layla. Non sprecarli...».

«Ascolta... non lasciarmi qui... gnhh... me la faranno pagare... gnh... era per una persona importante... potente... gnhh...».

Un breve attimo di riflessione.

«E va bene...».

Ha sicuramente ragione.

L'ambulanza è arrivata.

Ma a Nada non serve più.

Scrivo un indirizzo e lo allungo all'autista, unitamente a cinque centoni.

«Ti porto da un Black Doctor, Layla».

Ovviamente non un negro; o magari anche.

Poi riporterò la piccola ai suoi genitori e il culo a casa.

«Mister Jameson... chiamata urgente!».

«Avanti...».

«Portarsi con la massima urgenza ai docks, al Tanit Club.

Tale Layla Boyle, confidente di prima classe, risulta scomparsa a seguito di presumibile regolamento di conti.

Rintracciarla immediatamente e metterla in sicurezza».

Questa poi...

E meno male che non le ho aperto un buco in fronte...

Ecco perché rideva sguaiata. Ne sapeva più lei di me che io di lei.

Però ha finto di essere in pericolo e ha accettato di non farsi portare in ospedale; come se volesse mettermi alla prova...

Vuoi vedere che... che anch'io stavolta ritorno indietro con qualcosa?

LA BELLA SBUDELLATA NEL BOSCO

di Salvatore Conte (2024)

Julia Lopez è una grossa puttana.

Mi sono rivolto a lei perché ha due grosse tette e tanta voglia di fare.
Finirà sicuramente male, abbandonata in qualche discarica con molte coltellate addosso, ma al momento è ancora in circolo.
Gira per l’albergo tutta allentata, con il grosso seno che preme pesante contro la striminzita uniforme, recando un altrettanto grosso invito a chi lo guarda.
A parte il fatto che mi piace, me ne sono servito per agganciare l'obiettivo.
La bella puttana, però, anche a lavoro finito, continua a tirarmi e faccio fatica a separarmene.
Ci sto facendo un pensierino.
Potrei usarla in altre missioni. Una così, un centravanti di sfondamento, serve sempre.
Oppure potrei tenerla come puttana personale, e basta.
Lei lo ha capito e mi viene dietro.
Ha visto i soldi e ci prova, sapendo di potermi fregare senza troppe difficoltà.
Devo stare attento.

Nel giro è detta la Piranha.

«Sei una bella puttana, ma domani parto. È lavoro».
«Andiamo… posso staccare un po’ e seguirti… ti piacerebbe?».
«Il mio lavoro è un po’ particolare, Julia».
«Andiamo… anch’io sono particolare…».
«È vero, ma non posso fare eccezioni.
Però... fra qualche giorno... mi farò risentire».
«Sì, come no...».
«Non hai fiducia in te stessa?».
«Eccome se ne ho».
«E allora?».
«Allora non è detto che abbia fiducia in uno stronzo del tuo calibro...
Ma ricordati che una come me non la trovi più», si umetta il labbro e si passa una mano - piano-piano, da bagascia - sul ventre molle...
Per tutta risposta l'abbranco e mi premo addosso l'enorme seno.
È tutta allentata, come sempre.
Ma quanti se ne fa ogni giorno?
«Quanti te ne sei fatti oggi?», faccio prima a chiedere.
«Non dirmi che sei geloso...».
«Tu mi piaci, Julia...».
«Ma davvero? Non si direbbe, visto che parti».
«Ti ho detto che mi farò risentire e ti porterò via con me...».
«Non ci credo».
«Suvvia... rimarrai stupita, allora.
Io tornerò, bella».
«Lo vedremo, bello.
Ma se non lo farai, non mi metterò certo a piangere...».
«Adesso non fare la stronza».
«Okay... okay...».
E ci lasciamo bene, con un bacio estenuato che qualcosa vorrà pure dire, che non finisce più.
«Ci tengo a te, bella puttana».
«Anch'io, stronzo».

A missione conclusa, mentre sto tornando dalla mia Bella per farle una sorpresa, la sorpresa la fanno a me: con un biglietto mi avvisano che avrei ritrovato il corpo di Julia nel bosco dell'albergo.

Una vendetta. O una trappola. O entrambe le cose.
Mi aspetto di ritrovarla cadavere.
Invece respira ancora... anche se è fottuta.
È seduta a terra, nella sua solita camicetta allentata, imbavagliata e legata contro il tronco di un albero.
L’hanno sventrata dall'ombelico al fianco.
Il coltellaccio da cucina è lì vicino.
Sicuramente è dell'albergo, hanno inscenato un delitto pseudo-passionale.
Ha gli intestini di fuori, inutile chiamare l’ambulanza.
Julia non va più da nessuna parte.
Il momento in cui farà una brutta fine è già arrivato.
Vediamo almeno se ha qualcosa da dire.
La sciolgo e la mantengo con la schiena contro il tronco.
«John... sei qui...

Io lo sapevo… che prima o poi…».
«Hai preteso troppo da te stessa, Julia.
Ma io e te siamo stati bene insieme.
Non guardare…».
Le prendo il mento fra le dita per distoglierla dalla pancia sventrata.
«Bevi qualcosa...».
Le accosto la fiaschetta del whisky alle labbra, ma è talmente disperata da non capire più nulla, è assente, guarda lontano; è stordita, bastonata, quasi addormentata, sta perdendo conoscenza.
«Julia…».
«John…

Sono solo... una puttana…

Ma non volevo... finire così…», non ha molto da dire mentre crepa, gli enormi seni affossati sulle ginocchia e praticamente mischiati alle budella.
«Julia… non mi hai mai parlato della tua famiglia… c’è qualcuno che devo avvisare?».
«No… tu... solo tu...», la morte negli occhi e tanta disperazione da affogarla.
«Sì... ci sono io… prova a resistere...».

Guardo l'orologio per capire quanto possa durare.
Comincia a tremare.
Il titolo è già pronto: "Avvenente inserviente d’albergo, sbudellata da maniaco assassino, spira tra le braccia del suo amante".
Mi frana addosso, cercando un ultimo appiglio.
Ne ha combinate tante in vita sua; ma adesso si caga sotto.
Si credeva invincibile, con il suo fisico da vacca.
«Julia... te lo ricordi... quel bacio...», provo a sentire se è ancora viva.
BANG
BANG
Le labbra fredde, il cuore caldo.
Con una bella iniezione le cose andranno meglio.
Riguardo l’orologio: il tempo per qualcuno s’è fermato.
Il micro-drone a forma di moscone ha fatto un buon lavoro.
Il resto l’ho fatto io.
Ho rischiato, è vero, poteva anche essere un guardone.
D’altronde nessun mestiere è privo di rischi. Neanche quello di chi si limita a guardare.
La prendo in braccio, non senza sforzo.
È stato molto più semplice liquidare il sicario.
Adesso il suo principe azzurro può portarla all'ospedale.

DOCCIA FREDDA

di Salvatore Conte (2024)

Greta non vedeva l’ora di fare un bagno caldo.
Però che diventasse così caldo... non poteva davvero immaginarlo.

     

La potentissima zinnona è sorpresa nella vasca da bagno da uno spietato killer.

Il bagno diventa una doccia fredda.
E parte il primo colpo…!
Nella grossa tetta!

     

Ma non basta: il killer punta ancora grosso.
Parte anche un secondo colpo…!
Nell’altra tetta!
E bruciano… bruciano tanto…

     

Ma non c'è tregua per Greta: il killer non è soddisfatto.
Arriva altro piombo... e brucia da impazzire!

      

La zinnona si agita come un'anguilla, in una vasca ormai tinta di rosso...

      

Le pallottole fanno tutte male, ma quella in pancia, nell'utero, è insopportabile...

      

Greta comincia a rilassarsi.
Ha i polmoni bucati, il tragico bagno sta per compiersi...

      

Le forze scemano.
Le mani allacciate sul ventre sono l'ultima resistenza di una bella fica morente...

      

Ma anche queste se ne vanno...
Prima la sinistra... che si sgancia dall’altra e sprofonda in acqua…

      

Poi la destra… che va alla deriva come la stessa zinnona...

      

Le sorprese, però, non sono finite: con un colpo di coda, Greta si scuote e riporta le mani sull'estrema linea di difesa…!
Ci sta provando!

     

Il killer, che era rimasto a osservarla, a questo punto si infuria. Il piombo non gli manca.
Si avvicina di nuovo e le vomita addosso altre due pallottole in rapida successione...!
La mignottona dai seni pesanti vomita qualsiasi cosa, gli occhi si incrociano impazziti, per il dolore, la rabbia e la frustrazione.
Sei preoccupata da morire, vero Greta?
La Porta di Dite è sempre aperta, ma adesso - per te - può dirsi più che spalancata!

      

Greta sta per affogare nel suo stesso sangue, ma il killer non ha udito l'ultimo rantolo, la potente zinnona è ancora in linea di galleggiamento, si rifiuta di affondare...

      

Benché per lei sia chiaramente finita, il killer non è soddisfatto...
Si avvicina ancora e spara!
Spara un altro siluro sulla povera Greta!
Per liquidarla!

Per affondarla!
E con questo fanno sei...
Il corpo da puttana di Greta, ormai completamente alla deriva, reagisce con violenti spasmi, increspando le acque.
Come se non bastasse, per evitare sorprese, il killer la rovescia a faccia in basso...!

      

La povera Greta è morta ammazzata nel suo stesso sangue.
Il killer adesso è soddisfatto.
Aspetta per scaramanzia una trentina di secondi, e si avvia alla porta...
Però non fa in tempo a raggiungerla, perché un sonoro sciabordio lo richiama all’interno del bagno!

      

Scossa da un estremo spasmo, la zinnona è riemersa dall'acqua!

      

La ritrova con la nuca appoggiata al bordo, gli occhi vaghi, le braccia abbandonate, e tanta merda che le è uscita dalla bocca e non solo; galleggiano anche due grossi stronzi, Greta si è cagata sotto dalla paura.

Il killer non sa più cosa fare per sopprimerla e non ha più il coraggio di infierire.

L’inferno non la vuole.

E lui non ama contraddire il demonio.

D'altra parte, Greta non ha scampo.

La troveranno dissanguata nella sua vasca, imbottita di piombo.

Ma lui può applicarle il bonus.

È un codice interno alla malavita, riservato alle belle donne.

Parte una telefonata.

Per vedere se il committente è disposto a ripensarci, spiegata la situazione.

«Le ho messo dentro sei pallottole. Tre o quattro sono mortali.

E le ho messo la testa sott'acqua...

Ma tira ancora avanti, è nella vasca, in fin di vita; si è pure cagata sotto.

Il nostro codice prevede che...».

E poi un'altra, per capire se si fa in tempo a mandare qualcuno.

Ma se la lascia sola, sa che verrà ritrovata cadavere.

È costretto a rimanere.

Greta non chiede niente. Sa già tutto.

Perché è stata uccisa e perché ora si cerca di farla sognare un po'.

Sa anche, però, che le rimane poco tempo.

«Fate... presto... ho... paura...», mormora disperata.

«La tua paura galleggia, Greta...».

Almeno crepa sperando in qualcosa.

Se il diavolo, perché no, ci mettesse lo zampino...

La potentissima Greta non rinuncia ai bonus.

Si gestisce, con occhi vitrei, in un bagno di sangue e merda.

Non si sa mai.

PRIMO SECOLO:

MORTE SUL CONGO

di Salvatore Conte (2024)

Nessuno è mai veramente vissuto nel Primo Secolo.

Non i Romani, non i Cristiani.

Roma non si è fatta in un giorno, all'inizio non era così importante, ci sono voluti secoli affinché avesse un Primo Secolo, col senno di poi.

Cristo è divenuto importante nel Quarto Secolo dopo sé stesso e ha avuto un Primo Secolo solo nel Sesto.

Oggi, invece, dopo quello che è successo, siamo davvero nel Primo Secolo.

Nel Ventunesimo Secolo dal presunto avvento di Cristo e nel Ventottesimo dalla nascita mitica di Roma, il latente conflitto mediorientale è degenerato in una rappresaglia nucleare tra le grandi potenze mondiali.
Pur se durata meno di un’ora, e subito seguita da una tregua, negoziata dai rispettivi leader nascosti nei rispettivi bunker atomici, lo scambio di missili nucleari ha avuto ripercussioni che sono andate ben al di là degli effetti materiali.
I maggiori sistemi politici ed economici e le principali organizzazioni si sono dissolti.
L’oggetto stesso del contendere, quello che ha scatenato le rappresaglie - ossia ottenere il controllo su un mondo sostanzialmente stabile - è venuto radicalmente meno.
La stessa datazione universale, riferita a Cristo, è stata ufficialmente abbandonata dall’ONU, con voto pressoché unanime.
Al suo posto è stata introdotta una datazione riferita alla rappresaglia nucleare.
Benché la popolazione mondiale non abbia subito una significativa riduzione, gli orientamenti culturali apocalittici hanno preso il sopravvento, portando alla condanna di tutte le elaborazioni moderne.
La negromanzia, stimolata dalla diffusa percezione della morte, ha conseguito uno status prima impensabile, divenendo la branca più importante della medicina.

La teoria della Matrix è stata largamente accettata e ha portato alla tecnomanzia, ossia alla pratica di elusione degli algoritmi eseguiti dal Server Centrale, attraverso azioni di disturbo e provocazioni mirate, oppure l'esercizio della totale passività.
La tutela giuridica dell’essere umano apparente è stata ridotta al minimo, quella di cadaveri, animali e piante portata al massimo, invertendo la concezione moderna.
D’altra parte, le poche strutture statali sopravvissute sono fortemente instabili e senza potere effettivo. Gli individui si organizzano in piccole comunità, confederate con altre dello stesso tipo, anche lontanissime tra loro, attraverso internet, che è rimasto in piedi, poiché indispensabile alla Matrix.

È in mezzo a tutto questo che naviga un certo Mark Robson.
Il contesto è cambiato, i vecchi commerci no.
Sul fiume Congo passa un po’ di tutto, è più che mai acqua di nessuno.

La bandiera della Repubblica sventola per mera nostalgia.
Robson - ex operativo CIA - si è organizzato un suo giro su una sgangherata barcaccia, la Congo Star.

L’Africa Nera non è stata coinvolta direttamente dalla rappresaglia nucleare, ma le nubi radioattive l’hanno raggiunta in un secondo momento.
I casi di tumore hanno avuto un’impennata esponenziale.

Robson non è stato colpito, ma la sua socia peruviana, Romina Lopez, si è ammalata di brutto; un tumore aggressivo si è allargato nei suoi intestini; una bomba a orologeria sta per esploderle in mezzo alle budella; l'ascite le è finita in bocca, il sapore della morte non l'abbandona mai.

Possente quarantottenne, apparentemente indistruttibile, ma gonfia d'ascite, la peruviana prova a rimanere operativa, anche se la situazione si è fatta critica.
La Lopez deve stare attenta, perché - a dispetto della sua innata vitalità - la fine è ormai vicina.

La peruviana non si rassegna, vuole tentare ancora, salvarsi a tutti i costi, ma non nasconde di avere paura; il tumore può darle il colpo di grazia raggiungendo il pancreas; ed è per questo che - con un ecografo portatile - si controlla due volte alla settimana.

Detesta la prospettiva di finire nelle grinfie di qualche negromante, ultima spiaggia per tenersi addosso una parvenza di vita.
Gli altri membri della banda sono un negro - termine rivalutato dalla diffusione della negromanzia - e un cadavere animato.
Il negro è un robusto indigeno di nome Botor, il cadavere è quello di Fred Wilker, un vecchio amico di Robson, ucciso dal cancro e ricondizionato da una potente zingara di Kinshasa, Jana la negromante.

«Oggi sei nera, che hai?».
«Ho brutte sensazioni, Mark.

Ho paura».
«Una come te non la butta giù nessuno».
«Il cancro non perdona. Fred è crepato».
«Sshhh… potrebbe sentirti… hanno bisogno di credersi vivi, lo sai.

Lui non aveva la tua energia, Romina.
Le ultime ecografie ci dicono che il tumore ha rallentato.
Devi gestirlo, certo. Ma puoi riuscirci».
«Io ho paura, Mark
», ansiosa, quasi nel panico. «Il tumore può trasmettersi al pancreas. E allora sarebbe la fine, anche per una come me...».
«Oggi tutti convivono con un cancro, Romina. Prima o poi verrà anche a me.

Siamo nel Primo Secolo.

Dobbiamo farci forza, non possiamo fuggire da nessuna parte».
La loro è una società d'affari, con un pizzico si sentimento. Ognuno si riserva di andare con chi vuole, senza disdegnare la compagnia più ovvia.
D’altronde, lei è un pezzo di donna e lui un cazzone imbufalito.
Le abbranca i fianchi pesanti, smuovendola lentamente verso di sé.
Uno sguardo sospettoso in risposta.

Ci sta.

La Congo Star sta rientrando a Kinshasa, dove assumerà un nuovo incarico.
Nella solita taverna del porto, mentre la banda aspetta il contatto, si fa vivo il trafficante cinese entrato in fissa con Romina.
Le ha proposto di entrare in società con lui, o quantomeno di diventare sua moglie.
Quando uno è fissato, è fissato.
Lee Chan non perde occasione per ritentare.
Subito avvisato dai suoi informatori dell’attracco in porto della peruviana, si rifà sotto.
Lo stalking nel Primo Secolo è stato abolito. Si può perseguitare a piacimento, purché non si diventi violenti.
La risposta, però, è sempre la stessa: no.
L’orgoglio femminile, quello è rimasto.
Prima o poi la piegherà, questa la sua illusione.
Ma sarebbe più facile cambiare il corso del Congo e farlo diventare dritto.
«Posso almeno sapere come stai?», riferendosi evidentemente al cancro.
«Tiro avanti».

«Dicono tutti così», un po' di veleno in coda.

«Fatti anche tu un controllo, potrebbe esserti utile...».

Romina è sempre combattiva, anche se adesso deve stare attenta, perché il cancro non perdona nessuno.
Respinto l'ennesimo assalto del cinese, la riunione entra nel vivo.

Il contatto presenta Kelly Madison, una biondona provocante e molto atletica.

Robson la conosce per sentito dire: è una puttana di lusso che si è riciclata come mercenaria-sexy, sfruttando il fisico.

Deve raggiungere l’interno.
La Madison è in compagnia di un cadavere, Bill Watson, che le fa da autista; la sua jeep sarà imbarcata sulla Congo Star.
La missione si presenta tuttaltro che semplice.
L’alto corso del Congo è pieno zeppo di insidie, instabile, ostile.
Ma è anche l’unica via per arrivare nelle regioni interne.
Saranno pagati alla consegna, nel luogo convenuto.

Nel Primo Secolo non esistono monete ufficiali. Ma i vecchi dollari sono accettati ovunque.
Robson, prima di partire, decide di aggregare Jana, la negromante che ha ricondizionato con successo Wilker.

Oltre che brava, è una bella fica; ciò non guasta mai e aumenta la concorrenza.
Jana può essere utile sia per ricondizionare Romina, nel caso le cose precipitassero, sia per aggregare qualche cadavere lungo il viaggio e farne obbedienti gregari.
Nel Primo Secolo l'industria delle pompe funebri è stata sepolta.
I cadaveri, data la diffusione della negromanzia, sono molto richiesti e raramente vengono seppelliti o rimangono tali.
I cimiteri stessi sono giacimenti di materie prime.

Sulla Congo Star si imbarcano in sette.
Il viaggio è lungo, i chilometri d'acqua sono tanti.
La notte si getta l’ancora a breve distanza dalla riva e si fa la guardia a turno.
Le acque del Congo non sono tranquille, e nemmeno le sponde.

I morti potrebbero vegliare tutta la notte, ma non devono rammentarsene.
«Tu molto bella».
«Bella o con tanta bella carne?», Romina risponde a Watson, che sia pur morto, non ha perso interesse nella vita.
«Bella con tanta bella carne...

Tu stata mai con uomo venuto da Lete?», il linguaggio dei cadaveri è semplice, come quello parlato da uno straniero; in effetti, il Lete resetta tutto, i morti ricordano poco della loro vecchia lingua e non hanno più la mente integra per apprenderla di nuovo.
«No, questo ancora mi manca. Ma non comincerò con te, okay?», e si sposta; il carattere della Lopez è venuto fuori come sempre.
«Okay…», ripete il cadavere, perplesso, senza ricordarne il significato. «Tu presto come me, poi riparlare», mormora, vendicativo come il cinese; i morti sentono la morte.
Romina non ci ha ancora riflettuto.

Ma quando ricorda a sé stessa che non bisogna essere scortesi con i cadaveri, perché sanno cose più cose di noi... allora torna subito da lui.

Wilker ha più volte giurato di non sapere niente.

«Scusa se sono stata un po' brusca...», lo riaggancia così.

E gli chiede ciò che la ossessiona.
«Io sapere tuo destino, ma non dire. Così comandare algoritmo di tomba».
«Ragiona con la tua testa, Bill.

Voglio solo sapere se sono fottuta, e quanto manca».
«Fottuta...», per un attimo si allarma, poi capisce che non ha capito.
«Spacciata, condannata, senza via di scampo.
Destinata a morire».
«Tu chiedere tuo destino. Io detto non potere».
«Ascolta... io... posso essere carina con te... se mi vieni incontro...», lo blandisce, cercando di vincere la ripugnanza per gli occhi inespressivi e il marcio di tomba.
Il sangue dei cadaveri animati circola con estrema lentezza, è praticamente solido.

Ciò li rende lenti nei movimenti, ma sicuri di sé.

Watson si avvicina, le va incontro.

Sembra non abbia capito niente.

E invece... le mette le mani sulle zinne... e vuota il sacco...
«Io paura per te. Tu grande tumore dentro di te».
«Non ti ho chiesto un'ecografia, ma di fare una previsione...
Hai capito o no?», la peruviana perde la pazienza, il suo sangue circola veloce.
Si stacca da dosso le mani del morto, va da Robson e si mette a frignare.
Anche un donnone del suo stampo, scaltro e quasi indistruttibile, ha dei momenti di fragilità.
Mark la consola: non è vero che i morti possiedano la preveggenza, sono soltanto appendici del Server Centrale, tutto viene deciso dalla Matrix in base a precisi algoritmi; finché continua a fare cose importanti, insieme a lui, e a sviluppare energia, il Server non ha motivo di sbarazzarsi di lei; e poi la sua volontà è importante in questo genere di cose: l'Algoritmo Generale è obbligato a rispettare la volontà umana, ed è per questo che ricorre con tanta frequenza all'inganno.

Il viaggio prosegue con Romina imbronciata, attaccata all'ecografo, Jana che passa del tempo con Wilker per controllarne i progressi e la Madison che fa prendere il sole alle tettone.

«Hai qualche dolore, Kelly?», la negromante ha notato che si tocca lo stomaco.

«Niente... solo una sensazione», sembra quasi infastidita dalla domanda.

Jana annuisce.

La Star incrocia il Lulonga, affluente di sinistra del Congo, e fa rotta per risalirlo.
L’obiettivo è ormai vicino: un piccolo porto fluviale, dove la Madison è attesa da qualcuno.
Robson si fa prima consegnare la paga, poi fa sbarcare la jeep da Botor.
Mancano solo i saluti.
Ma devono attendere.

BANG BANG
RAT-RAT-RAT
«Maledetti negri, il Congo è nostro!».
L’accento è francofono: nel tutti contro tutti del Primo Secolo, i belgi vogliono riprendersi il Congo.

«Vogliono fermarci, state giù!», il belga raggiunge Kelly, evidentemente è lui che doveva incontrare.
I colpi volano, la sparatoria è pesante.

I belgi sono tre o quattro, i negri di più.
Wilker e Watson possono esporsi più degli altri: il loro sangue è così denso che non colerebbe dalle ferite; gli unici punti - per così dire vitali - sono il cuore e il cervello.
C'è molta confusione, ci si attesta dietro le casse e i barili dell’area portuale, e si spara all'impazzata.

Romina non si sente al sicuro in mezzo a quel casino, Mark sembra preoccuparsi più della biondona che di lei.

La peruviana ingrana la retromarcia e cerca di risalire sulla Congo Star per mettersi al riparo.

Salta dentro e si sente quasi al sicuro.

BANG

BANG

Ma un paio di negri hanno abbordato la Star con una piccola piroga e si sono ritrovati faccia a faccia con Romina.

E uno di loro, prima di essere centrato in fronte dalla procace peruviana, le ha sparato un colpo in pancia!

La Lopez strabuzza gli occhi, incredula, e - sentendosi mancare per lo shock - barcolla malferma, prima di stramazzare in avanti, mentre l'altro negro si volta e scappa.
Botor è il primo ad arrivarle vicino, preoccupato per la sua padrona.

La raccoglie e la trasporta sotto coperta.

Da lì a poco lo scontro ha termine.
I negri si ritirano.

Robson raggiunge Romina.

La peruviana annaspa disperata, con la bocca spalancata. È ancora sotto shock, nonostante l'esperienza da navigata trafficante.
«Dove cazzo eri...

Sei uno stronzo... Mark...», Romina è delusa. «Botor... scrivi...».

La Lopez tenta il tutto per tutto. Non si fida più di Robson.

Volto pallido, lingua sotto il palato, palpebre pesanti, un rivolo di sangue misto ad ascite che le cola dal labbro e la mano che si strofina sul lenzuolo.

Romina ha paura.

Al suo capezzale c'è tutta la banda, tranne Mark.

L'ex operativo CIA è a colloquio con la Madison.
«Sembri preoccupato.
Non dirmi che quella cessa sfondata ti tira così tanto...

Sono io la numero uno e due del Grande Fiume», e gliele fa sentire, spingendolo col petto. «Un duro come te potrebbe farmi comodo. Sono io che comando qui: te ne sei accorto?».

In effetti Kelly Madison non è una semplice mercenaria-sexy.
I belgi la riveriscono come la Regina del Congo Belga.
«Se sei dei nostri, ci rivedremo a Basankusu, quando l’attaccheremo. Fatti notare.
Avrai la tua fetta di potere, ti farò controllare i commerci.
Intanto ti ho inserito nel gruppo "Congo Queen" di IChat.
Attiva le notifiche per sapere quando attaccheremo.
Voglio espandermi rapidamente lungo tutto il corso del fiume che sta sopra l’equatore, da Mbandaka a Kisangani, con capitale a Basankusu, futura Madisonville: 1.000 chilometri mi bastano, per adesso.
Chi non accetterà il mio comando sarà schiacciato, bianco o negro che sia».
Sembra il delirio di una pazza, ma nel Primo Secolo i vecchi equilibri sono saltati e tutto diventa possibile, con la giusta intraprendenza.
Non si può escludere che la Madison possa riuscire nella sua folle impresa.
Probabilmente ha un esercito di cadaveri a disposizione, nel folto della giungla.
I belgi hanno scelto lei per essere guidati alla vittoria e riprendersi l'immensa colonia.
«Mark!», Botor lo chiama in maniera perentoria.
Ci sono cattive notizie, è chiaro.
Romina non ce la fa più, respira a fatica e ha una crisi di panico.
«Devi stare calma, Romina.

La tua ora non è ancora arrivata».

«Vorrei vedere te... gnhh...  al mio posto...».

«Se ti agiti è peggio.

Hai chiamato il cinese, tra non molto sarà qui. È ricco e ha molte attrezzature, si farà in quattro per te».

Le notifiche sono attive, si parte.

Si riprende il Lulonga in direzione di Basankusu.
Un attacco congiunto, dal fiume e dall’interno, desterà molta impressione. Forse non sarà nemmeno necessario sparare.
Tanto più che il cinese, con tutte le sue imbarcazioni, sarà costretto a unirsi all’attacco.

Lee Chan è succube della peruviana e farà di tutto per esibirle il suo potere e non mancare alla spartizione del Congo.

Molte cose sono cambiate nel Primo Secolo, ma donne come Romina dettano ancora legge.
Robson, infatti, non nasconde la sua preoccupazione.
«Tu che pensi? Sta crepando?», chiede a Jana.
«Per quel buchetto?

Il suo problema è il cancro.

Quello non le lascerà scampo, cerca di capirlo...

Hai visto come sputa bava grigia dalla bocca?

Si chiama ascite, sale dagli intestini, significa che ha poco da vivere».

«Quanto?».

«Poco, ma non so quanto poco.

Nel Primo Secolo si vive giorno per giorno.

Un impero può sorgere alla velocità di un fungo e deperire nel tempo di una pisciata.

Poco, sì, ma non così poco».