Pesca grossa

La Foresta di Petra

Appuntamento all'Obitorio

Zombi-Town

Semiramis II, l'Usurpatrice

Lust beyond Dust

Il Dilettante

Sbottonata calibro 9

PESCA GROSSA

di Salvatore Conte (2024)

Nessuno nel giro si aspettava che imbolsisse in quella maniera.

Soltanto pochi anni prima, Anna era formosa e asciutta insieme.

Oggi è pasta scotta.

Prima era una mangiatrice di uomini, un’imperatrice, una che fulminava al primo sguardo.

Assolutamente unica, eppure banalissima, fatta di tutto e di niente, fatta di sé stessa.

Oggi invece è sfatta e basta.

Cinque-sei anni sono bastati a far morire una donna e a farne nascere un’altra; non una bambina, però, bensì un’over 50 da quasi 100 chili.

In ogni caso, Anna Frezzante rimane un mito. Anzi, soltanto adesso diventa un mito. Prima era una bella donna, senza però una storia da raccontare.

Adesso, con una storia sulle spalle e qualche sconfitta, è un vero e proprio “donnone”.

Sul lavoro non si discute... droga, prostituzione, lavori sporchi per i servizi e qualche colpetto: un curriculum di tutto rispetto.

Ho un po' di nostalgia. È parecchio che non la incrocio, forse troppo. E nel giro ogni volta può essere l’ultima.

La ricontatto per proporle un affare.

La trovo stanca, giù di corda, preoccupata, dice di avere qualche problema di salute piuttosto serio.

In effetti, si tocca ripetutamente lo stomaco.

Spero non sia nulla di grave.

Molti chili in eccesso e tante ambizioni andate frustrate l’hanno affossata. Anche così, però, è sempre Anna Frezzante, la Sbottonata.

Dopo un drink e i convenevoli di rito, comincio a entrare in argomento.

«Spero che quel tuo problema sia risolvibile, Anna...».

«Vieni al dunque, Sal».

«Ho un affare per le mani. Mi serve un bravo autista. Per un colpetto facile-facile».

«Non sono più svelta come un tempo», fa la modesta.

«Oltre che svelta, sei anche esperta», le ribalto il concetto.

«Quale sarebbe la mia parte?».

«Un terzo della torta».

«E la torta quant’è grande?».

«Abbastanza da mangiarci, ma senza rimanerne strozzati…

Non daremo fastidio a nessuno, insomma», con lei è meglio andare sul semplice.

«Ci sto. Ho bisogno di soldi».

Vuole che le chieda perché.

«Perché?».

In risposta, si tocca per l’ennesima volta lo stomaco.

«Non è una semplice ulcera», aggiunge.

Vuole che le chieda cos’è.

«Che cos’è?».

«È un cancro».

«Cazzo... un bel problema...».

«Scoperto tardi, non è operabile. Ma riesco a tirare avanti».

«Niente chemio?», i suoi capelli sono in ordine.

«No, niente, sarebbe peggio».

«Sì, ma allora… come pensi di farcela?».

«È da tempo che mi sono rassegnata, Sal».

Non è vero.

«Quanto ti hanno dato?».

«Due mesi, tre al massimo».

«Quanto tempo fa?».

«Un anno fa».

«Cazzo… sei riuscita a farmi preoccupare, Anna...».

«Sono messa male, Sal… posso crollare da un momento all'altro... è passato all'intestino e al fegato... mi ha invaso...».

«E me lo dici così...?! È così grave la situazione?», rimango basito.

«Cerco di non pensarci troppo».

«Perché non ti sei fatta sentire?».

«Sei un medico, tu?».

«A che ti servono i soldi, allora?».

«Voglio tentare il tutto per tutto in qualche clinica d’elite».

«Non ti illudere. Nelle cliniche d’elite succhiano soldi e basta.

Guarda che fine hanno fatto fare a Farrah Fawcett...

         

Si è illusa fino all'ultimo di potersi gestire, girando un film che credeva documentasse la sua salvezza, quando invece le rimaneva poco da vivere e tutti lo sapevano.

Devi cercare tra le cure poco costose, invece».

«Non credo a queste cazzate e non farò la fine della Fawcett. Mi sto gestendo da un sacco di tempo».

«Tutti dicono così, Anna. Ma la fine arriva improvvisa...

L'hai detto tu stessa, prima, in uno sprazzo di lucidità».

«So di rischiare, ma penso di farcela».

«Te lo auguro».

«Il terzo chi è?».

«Emiliano».

«Non andavate molto d’accordo…».

«È vero, e neanche adesso. Ma gli affari sono affari».

«Perché hai pensato a me?».

«Perché sai guidare e hai un aspetto rassicurante».

«Tu, oltre alla tua fetta, vuoi anche la ciliegina sulla torta, vero, Sal?».

Mi guarda con occhio inquisitorio.

«Io non mischio mai gli affari con le questioni personali», mi conviene negare. D’altronde è una ciliegina da 100 chili.

«Ci sto solo perché ho bisogno di soldi», mi fa pesare il suo “sì”; un “sì” che pesa un quintale, infatti.

Ci congediamo senza molta cordialità.

Anna non nasconde la sua preoccupazione. Per lei il tempo stringe. Ma neppure in questo frangente si è appoggiata a me.

Dopo il colpo, cercherò di saperne di più sulle sue effettive condizioni, ma la brutta cera che le ho visto dipinta in faccia e lo sguardo incollerito, mi fanno pensare che per Anna sia finita, anche se ci proverà fino all'ultimo.

È tutto pronto. Siamo davanti alla filiale di Ostia del Banco di Roma.

La Frezzante si è presentata con una camicia bianca, sbottonata da zozza e portata senza reggiseno; le sue famose zinne pendenti, giù a piombo come due belle melanzane.

Sotto, pantaloni di pelle nera, attillatissimi, senza cintura, che le strizzano i fianchi.

La carne si gonfia abbondante da tutte le parti.

Un completo da cagna rabbiosa che sta morendo di cancro, adatto per darle la giusta adrenalina: lei, in fondo, è una che si ciba di sé stessa.

Dozzinale, ma efficace. A 50 anni suonati, non rinuncia a nulla pur di mantenere il suo potere.

E anche se il profilo è imbarazzante - la pancia sporge più del seno - lei piace sempre. A quanto mi risulta, c’è ancora la fila per vederla.

Anna sa vendere anche le sue brutture. Un corpo da bagascia che addosso a lei sembra quello di una principessa. Questo forse il segreto di Anna Frezzante.

Le ho trovato una Golf rubata, con targa ripulita.

Lei rimane in macchina, io ed Emiliano entriamo.

Va tutto liscio fino all’uscita.

Rapine ce ne sono tutti i giorni, ormai. È routine per gli impiegati. Minacciati da tagli e licenziamenti, rapinati di continuo da gabelle statali e parastatali, si tengono stretta la vita, almeno quella.

Conviene pure alla banca, che esagera nel denunciare l’ammanco e fa la cresta sull’assicurazione.

L’assicurazione, a sua volta, risarcisce con soldi sporchi, rimettendoli in circolo. Le assicurazioni sono grandi, i grandi hanno appoggi all’estero, all’estero non ficca il naso nessuno.

Senza contare il business delle guardie giurate: che farebbero senza una rapina al giorno?

Insomma, alla fine è un gioco di squadra che conviene a tutti.

Non tutti l'hanno capito, però.

C’è sempre chi guarda troppi film e che gioca a fare il poliziotto.

Come quello che sembra aver riconosciuto Anna da qualche foto segnaletica rimastagli impressa nel cervello: niente da fare, è sempre unica e inconfondibile.

BANG

Anna spara, ha una pistola nascosta nella borsetta.

Lo fa secco.

Ma ce n’è un altro: i poliziotti sono sempre in due.

BANG

La Sbottonata è scatenata: beccato anche questo.

BANG

Ma il secondo piedipiatti non è ancora secco e le spara contro da terra.

BANG BANG

Sono io a chiudere i conti.

È andata.

SKREEEK

Anna riparte bruciando le gomme.

Fuggiamo verso sud.

Ci aspetta una roulotte in un campeggio vicino ad Anzio.

«Quei bastardi volevano fregarci…

Brava, Anna!», Emiliano si congratula; ha preso posto dietro, con il sacco dei soldi.

Ma la Frezzante non risponde. E non lo guarda. E non guarda nemmeno me.

Continua a guidare con gli occhi fissi sul parabrezza.

C’è qualcosa che non mi quadra.

Ancora un paio di curve a tutta velocità e poi, all’improvviso, frena e accosta, fermandosi in una piazzola sterrata.

«Uhhh...», la Sbottonata si china sul volante fino a toccarlo con la fronte.

«Che cazzo succede, Anna?!», forse è il tumore che le dà problemi.

«Quel bastardo... m’ha preso... ohhh...».

«Che cosa?!».

La tiro su, rimettendola con la schiena contro il sedile, e allungo la testa verso la portiera...

Anna s’è presa una pallottola nel fianco...!

Il proiettile del poliziotto ha prima bucato la carrozzeria della Golf e poi quella della Frezzante... raggiungendola in un brutto punto, sfaldato dall’impatto con la lamiera, quasi come un proiettile a espansione...

È entrato nel fianco di Anna e s’è portato via tutto, come in una pesca a strascico... la tocco dalla parte opposta, e le fa un male boia... la pallottola calibro 38 del poliziotto ha fatto il “coast to coast” nella pancia della Sbottonata...

Anna non morirà di cancro.

«È grave?», Emiliano mette la testa fra i due sedili.

«Abbastanza…», lo guardo significativamente, senza farmi vedere da Anna.

Emiliano è allibito. Anche lui ha un debole per la Frezzante.

«E adesso che si fa con lei...?».

«Non lo so. Decide lei cosa fare di lei».

«Fa un male cane... ohhh...».

«Ti porto da un dottore... stai calma...», la tranquillizzo, asciugandole il sudore con un fazzoletto.

«Bisogna andare via subito... fra un po’ sarà pieno di poliziotti», Emiliano pensa soprattutto a salvarsi il culo.

«Sal… guida… guida tu… uhhh… brucia… ahhh… brucia da impazzire…».

«Stai calma, Anna. Guido io, stai tranquilla. E ti porto da un dottore...».

«Non dirai sul serio, spero...».

«Sta’ buono, dobbiamo prima cambiare auto...», la sua insensibilità mi dà noia; anch’io so che è inutile portarla da un dottore, ma sono cose che non vanno sbattute in faccia.

Mi scambio di posto con lei senza scendere dal veicolo.

«Ohhh... fa’ piano... ohhh...», lo scambio è doloroso, la pallottola si è strascicata lungo tutti gli intestini di Anna.

La Frezzante sembrava inaffondabile. Ora sembra il Titanic al momento dello S.O.S.

«Così... brava... stai calma...», la sistemo contro il sedile, ma lei preferisce incubarsi di fianco, con la tempia poggiata sullo schienale e le mani a stringersi la pancia.

Riparto cercando di non sballottolarla troppo.

La Frezzante si lamenta mentre spingo sull’acceleratore.

Siamo alla pineta.

Cambiamo auto, come programmato.

Una Regata è quello che ci vuole in un posto di mare.

Il trasferimento di Anna non è una cosa semplice.

Le tampono il buco con un asciugamano.

«Non è più logico farla finita qua?», suggerisce Emiliano. «Stanno cercando un terzetto con una donna…», esplicita la sua logica.

«No, non se lo merita. Ha combattuto per noi, ha fatto fuori uno sbirro e mezzo», chiudo il discorso.

Si riparte, direzione Anzio, tratti obliqui per evitare blocchi.

«Uhhh... fermati... Sal... mi sento morire... ahhh...», Anna stacca una mano dalla pancia e l’allunga all’indietro toccandomi il ginocchio.

«Va bene, Anna», l’accontento, vuole attenzione, vuole qualcuno intorno a sé, qualcuno che la calmi mentre vede la morte.

Un centinaio di metri più avanti c’è una strada sterrata, la prendo e mi fermo all’ombra degli alberi.

«Io mi faccio una sigaretta», Emiliano scende dall’auto.

Rimango al mio posto e le tiro via i capelli appiccati alla faccia, madida di sudore per il caldo, la tensione, lo sforzo.

«Anna... fatti vedere...», provo a metterla seduta con la schiena appoggiata al sedile; la Sbottonata ha assunto la stessa posizione fetale che aveva tenuto sulla Golf.

«Uhhh... lasciami stare...», mi scaccia le mani.

«Non vuoi aiuto, Anna?».

«Io… ci provo… Sal… ahhh… ma tu… controlla… Emiliano… uhhh… o lo sistemo io…», ha ancora la sua borsetta a portata di mano, infatti.

«Nessuno ti tocca, Anna. Tu tieni le mani a posto».

Intanto le premo l'asciugamano sul buco.

«Uhhh… grazie… Sal…», è raro che Anna ringrazi per qualcosa.

«Allora…?

Ne ho fumate due di sigarette…

Che ci facciamo ancora qui?».

Emiliano stavolta ha ragione.

Senza chiedere il parere di Anna, metto in moto e riparto.

Passano cinque minuti e ricomincia… la ferita è brutta, anche per una bestia come lei.

«Sal… fermati… uhhh…», mi cerca con la mano intrisa di sangue che si è appena staccata dalla pancia.

Stavolta preferisco ignorarla.

«Emiliano… ohhh… fallo fermare…

Devo… uhhh… devo… parlarvi…», la Frezzante insiste.

«Fermati… dai… Sal…», ora acconsente, solo perché si è rivolta a lui.

Accosto e mi fermo.

«Che succede, Anna?», le domanda, con involontario umorismo.

«’Sta bruttura… uhhh…», sposta il braccio e l’asciugamano e fa vedere lo squarcio nella fiancata, «’sta bruttura… non ci voleva… ahhh… forse… non ce la faccio… ohhh… ho paura... ho paura che sia finita...».

«Andrà tutto bene, Anna. Al campeggio ti calmerai e stupirai tutti, ancora una volta. Posso ripartire?».

Meglio sbrigarsi, non mi va di vederla crepare per strada, come una bagascia.

Ci siamo, è un bel campeggio in riva al mare.

«Eccoci nel nostro nido, amore…», la sollevo di peso dal sedile, non senza sforzo, simulando un atto galante.

Una volta dentro la roulotte, Emiliano chiude bene tutte le tendine e accende la tv, per coprire i mugolii di Anna, che al più sembreranno affanni d’amore.

«Contali».

Mentre mi occupo della Frezzante, Emiliano si occupa del pescato.

Stavolta Anna assume una posizione stravaccata: gambe aperte, un braccio sulla pancia, l’altro largo; testa circondata dai cuscini.

Ma la lingua spinge sotto il palato, segno che sta gestendo gli ultimi spiccioli.

«Il dottore… è inutile… ohhh… vero… Sal…?».

Non le rispondo nulla.

«Anna Frezzante… è solo… ahhh… una puttana… bene… ingrassata… uhhh… che… lo fa… diventare… ohhh… grosso… a tutti… ahhh… non è vero… Sal…?».

Le asciugo il sudore dalla fronte e dal collo, e la mano scivola verso le zinne a melanzana.

«Avevo… ancora… uhhh… due… tre… settimane… di vita… ahhh…».

«Solo due settimane…?! Ma che dici?».

«Il mio stomaco… ohhh… sta… per scoppiare… Sal… ahhh… la situazione… è… fuori controllo… uhhh… ho resistito… anche troppo… ohhh…».

Piove sul bagnato, dunque.

«Almeno... ohhh... li ha contati… uhhh… i soldi…?».

«Sì, il nostro Emiliano li ha contati i soldi. Sono 1.600 testoni. Troppi.

Mi aspettavo un colpetto da 200, al massimo 300 milioni, quella filiale ha aperto da poco».

«Brutto segno… ahhh…».

«Sì, lo so. Ci cercheranno. Ci stanno già cercando».

Mentre ripenso alle sue parole, le strizzo le zinne.

«Sal… sei scemo… ohhh…? Ho un buco… uhhh… da 'na piotta… nela panza… ahhh…».

«Scusate se interrompo…

C’è una notizia sul televideo».

ULTIM’ORA

Rapina di Ostia: clamorosi sviluppi

Il direttore della banca rapinata questo pomeriggio si è suicidato con un colpo di pistola alla testa, nella sua abitazione romana. Lascia la moglie e tre figli.

Quasi nello stesso momento è stato sequestrato un top manager della stessa banca, responsabile della Divisione Roma Ovest.

Secondo gli investigatori, la Banda della Magliana potrebbe essersi infiltrata nella filiale rapinata, al fine di riciclare denaro sporco.

Ecco la conferma. I soldi erano in lavatrice.

I Capi della Banda pensano a una talpa, uno della rete che ha fatto il furbo, commissionando una rapina molto ricca.

E hanno sequestrato il capo divisione per farlo cantare. L’altro non ha retto alle minacce.

Non credono a una semplice coincidenza.

«Noi… ci teniamo… ohhh… tutto… Sal… ahhh… voglio… la mia parte… e… uhhh… voglio salvarmi…».

Sta sbragata sul letto come una bagascia, con un piede e mezzo all’inferno, ma è ancora sicura di giocarsela, arrogante come non mai.

ULTIM’ORA

Rapina di Ostia: morto il manager sequestrato

È stato ritrovato morto il manager del Banco di Roma sequestrato in serata.

Continua la scia di sangue seguita alla rapina di questo pomeriggio nella filiale di Ostia del noto istituto bancario.

Ancora senza esito le ricerche dei rapinatori.

Gli inquirenti ritengono che il colpo, costato la vita a due agenti di polizia, sia da ricollegare agli intrecci affaristici che la famigerata Banda della Magliana ha sviluppato con settori deviati del sistema finanziario.

L’attenzione si sta spostando sugli intrecci tra criminalità e banche.

Io, per ogni evenienza, mi sono tenuto da parte un piano di riserva.

Non so se portarmi dietro anche Anna. Tanto non supererà la notte.

Sembra un toro imbottito di picche e ricoperto di sangue, sul punto di crollare, ma che ancora si illude di incornare il torero.

È Anna Frezzante, d’altronde.

Si tiene le mani sulla pancia, e a volte preme una o due dita, come a controllare ogni mossa falsa della pallottola: solo da Anna Frezzante ci si può aspettare qualcosa del genere.

«E così la vecchia troia non molla la presa, eh, Sal?», Emiliano parla sottovoce, perché è notte fonda.

«Tu che t’aspettavi?».

«Non lo so, ma che facciamo di lei? Per quanto ancora può reggere?».

«Ne so meno di te, Emiliano.

Ma lo sai anche tu com’è fatta, no?».

Qualcosa mi dice che è ora di far scattare il piano di riserva.

«Anna…», le sussurro il piano. In poche, semplici parole.

Accetta in un battito di ciglia.

Ha paura, vuole tentare qualcosa.

Il mio sms è partito. È proprio quello che ci vuole. La tecnologia è dalla parte di Anna.

Dico a Emiliano che la Frezzante è ormai al culmine dell’agonia e che è bene dividere subito e sciogliere la società, prima dell’alba.

A lui non pare vero.

Mi tengo solo 300 milioni, gli dico che ho paura di ingozzarmi.

A lui non pare vero.

Gli lascio la roulotte, ma mi prendo la Regata.

Scaricherò io il corpo di Anna, lungo la strada.

Manca poco all’alba, non c’è nessuno in giro.

Con la Regata raggiungo un tratto di costa quasi deserto.

Anna è sul sedile a fianco. Sta male, ma regge.

Vedo una scialuppa toccare terra. Esco dall’auto, mi sobbarco la Frezzante e scendo a riva.

Un cenno d’intesa e si riprende il mare.

Sullo sfondo c’è un peschereccio d’alta quota, adeguatamente sporco e infame.

Questi pescatori sono amici fidati da tempo, con loro ho fatto buoni affari in passato.

A bordo c'è anche una studentessa di medicina.

I soldi per il loro disturbo ci sono.

Anna avrà ossigeno e plasma in abbondanza. E presto anche uno studente in oncologia.

Intanto prova a darmi una dimostrazione.

La Frezzante, allargando i pollici, muove le altre otto dita lungo la pancia, come a tenere sotto controllo le diverse emorragie interne che la stanno uccidendo.

«Lo so che ci sai fare, Anna. Altrimenti non saresti ancora viva».

«Ma è dura… Sal… ohhh… dura...

Sal… fammi… dare… ahhh… qualcosa… ahhh… per tenermi su…», e digrigna i denti, con rabbia, rinforzando le mani sulla pancia.

La Sbottonata è scatenata.

Ma se lei è in fin di vita, non ci vuole il televideo per sapere che Emiliano è messo perfino peggio...

Perché se la pesca è troppo grossa, è il pesce che mangia te.

LA FORESTA DI PETRA

di Salvatore Conte (2024)

«Maledizione! Ci mancava solo questa!», picchio nervosamente le mani sul volante, quasi da farmi male.

Vrrr... Vrrr...

«E accenditi... su! Fai la brava», ma il vecchio motore non vuole saperne e mi rimanda una specie di lamento meccanico, un'esalazione da ultimo respiro.

«Niente... maledetta!», la macchina è morta, stecchita, e mi ritrovo in panne lungo una strada che per una decina di miglia taglia precisa una foresta in due parti, come se un'ascia gigantesca si fosse abbattuta fra gli alberi e la vegetazione, lasciando una profonda ferita d'asfalto.

Prendo il cellulare, ma l'idea è pessima come la situazione.

«Stupida!», sul display non c'è traccia delle tacche che misurano la linea telefonica.

«Petra... non sai che qui non c'è campo?», certo che lo so, questa strada l'ho già fatta altre volte, sotto questa galleria d'alberi non c'è nessun ripetitore che possa garantire neanche mezza tacca di linea.

Scendo dall'auto e i fari che ho lasciato accesi per fare luce, illuminano la scritta su di una pietra: 663. Pessima notizia.

Se non sbaglio i calcoli, le prime case dovrebbero trovarsi al numero 668, mi ritrovo esattamente a metà strada, giacché ogni pietra viene numerata un miglio dopo l'altro.

Ho percorso cinque miglia da quando sono entrata in questo tunnel naturale. Maledetta macchina...

Apro la bauliera e prendo una torcia.

Qui è sempre buio, anche di giorno, figuriamoci adesso che mancano due minuti a mezzanotte.

Clic, un fascio di luce bianca si aggiunge a quella dei fari e lo indirizzo a 360 gradi, compiendo un giro completo su me stessa.

Alberi a destra e strada davanti, alberi a sinistra e strada dietro, ecco quello che, oltre un lieve sbandamento, mi rimanda l'illuminato girotondo...

L'unica cosa da fare è incamminarmi lungo il ciglio della strada e sperare che qualche macchina mi risparmi cinque miglia a piedi sotto questa fottuta galleria d'alberi.

«Fanculo!», e richiudo la portiera con un calcio, in fondo lei è la sola  responsabile di questa situazione di merda.

Cinque miglia davanti e cinque miglia dietro, la distanza è la stessa per uscire da qui.

Decido di andare avanti e mi incammino con la borsetta infilata sulla spalla. E non è una civetteria.

È una necessità.

Un fascio di luce che mi dà occhi fin dove arriva la potenza della pila, con una foresta ai fianchi e un cielo stellato senza luna sopra di me: se non fosse che sopra la mia camicetta scollata ho solamente una leggera giacca di velluto, potrei pensare che i miei brividi siano di paura.

Ma è solo freddo e mi tiro su il colletto.

Spesso la convinzione è tutto.

Mi basterebbe un tizio qualsiasi, alla guida di una macchina qualunque, per evitarmi di arrivare alla prima casa con i piedi massacrati.

Mi basterebbe girare la torcia su di me per farlo fermare, cinquantanni non sono sufficienti per impedire agli uomini di sbavarmi ancora dietro.

Forse perché il mio passato da spogliarellista mi ha lasciato addosso i modi della puttana che si arrampica sul palo, e perché so bene quanto sia importante una bella scollatura. Specialmente quando si ha la fortuna di avere una quarta di seno.

«Fanculo!», mi tolgo le scarpe e decido di tenerle in mano, in quella libera dalla torcia, non posso fare tutta questa strada calzando delle décolleté con tacco da 4 pollici.

Sento lo scompiglio delle betulle che sembrano guardarmi sinistramente, con i loro mille occhi di foglie al vento, mentre gli uccelli insieme a chissà quante altre specie di animali, mescolano i loro versi accompagnandomi minacciosi.

La minaccia invisibile della foresta di notte.

664, la torcia illumina un'altra pietra, ho percorso il primo miglio.

Forza Petra, te ne restano solamente quattro.

«Deve pur passare una cazzo di macchina!», ho freddo, sono stanca, assetata come non bevessi da un mese, come stessi camminando sulla sabbia del deserto invece che su una strada che - passo dopo passo - sta diventando sempre più fredda sotto i miei piedi scalzi.

«Ah! Maledizione!», i piedi mi scivolano via, traditi da una foglia bagnata dalla pioggia di stamattina, e cado pesante all'indietro con le scarpe e la torcia che mi scappano di mano.

Mi rialzo subito, il cuore mi batte addosso ovunque e mi fa male il culo, ma il dolore è completamente anestetizzato dalla paura, devo subito ritrovare la torcia e uscire da questo buio che mi soffoca, che mi asfissia.

«Dov'è la mia torcia?!», che rischia di farmi impazzire, se non la ritrovo immediatamente.

Cammino appoggiando piano un piede dopo l'altro, attenta, concentrata, timorosa di trovare un'altra foglia sdrucciolevole.

«Eccoti!», quasi ci inciampo sulla torcia.

«E accenditi!». Clic. È uno sparo a salve.

«Accenditi, maledetta!», la scuoto rabbiosa, cattiva.

Clic! E il rinnovato fascio di luce mi fa di nuovo respirare, salvandomi da un'imminente follia claustrofobica.

Lascio l'asfalto e mi metto a camminare lungo la sottile striscia d'erba a bordo della strada, qui almeno le foglie sono un unico tappeto umidiccio dove fare affondare i piedi, la percentuale di rischio di scivolare un'altra volta dovrebbe essere più bassa.

Tremo, adesso sì che potrei farlo per colpa del freddo. Invece è solo paura.

666, la torcia illumina l'ennesima pietra, ho percorso tre miglia.

Me ne rimangono un paio per arrivare alla fine.

Mi fermo ansimando, ho la gola secca, quasi da non riuscire nemmeno a deglutire, sono esausta.

Sogno di essere sdraiata su un letto, anche non fosse il mio.

Basta che sia un letto.

Per allungare le gambe sotto le lenzuola e dormire un giorno intero.

Mentre continuo a pensare a immaginifici talami accoglienti, qualcosa attira la mia attenzione, come una breccia che si apre lungo il muro di alberi che fino qui è stato invalicabile, compatto e senza mezza crepa.

Alla mia destra si apre un inaspettato sentiero largo abbastanza da permettere il passaggio di un’auto, lo deduco illuminando due strisce parallele che gli pneumatici hanno lasciato sul terriccio fangoso.

«Una luce... deve esserci una casa laggiù in fondo...», devio immediatamente nella stradina e provo un'inebriante sensazione di euforia, un calcio di adrenalina nel culo che mi spinge a rapidi passi verso quel salvifico chiarore.

Finalmente la luce della mia torcia ha trovato compagnia!

Una stradina che prima d'ora non avevo mai notato, una specie di piccola cicatrice sulla vegetazione.

«Sì... è una casetta...», per mia fortuna mi ricordavo male, c'è qualche altra abitazione in questa stramaledetta zona, le prime case non si trovano solamente all'inizio o alla fine del tratto di strada.

Percorro con passo sostenuto il centinaio di metri che mi separa da quel salvifico chiarore, voglio qualcosa di caldo da bere, voglio una coperta che mi  scaldi dal mio freddo. E voglio essere riportata in città alla svelta.

La casa è piccola, di legno, e la luce che vedevo dalla strada principale è quella di una lampada a petrolio che penzola sopra la porta, forse rimasta accesa proprio per fare arrivare fin qui chi resta in panne come me.

Guardo le due finestre laterali e dentro è tutto buio, se si esclude un bagliore che deduco essere quello di uno schermo di televisore acceso.

Nessun campanello, non mi resta che bussare alla porta.

Toc.

Toc.

Con la mano chiusa a pugno, picchio leggero, timidamente, quasi timorosa di disturbare chi c'è al di là della porta, e subito intravedo una sagoma muoversi e fermarsi dietro la tendina. Deve accertarsi di chi stia bussando a quest'ora della notte alla porta di casa sua, lo capisco.

Mi allento la camicetta, esponendo la profonda scollatura al freddo, se quella è la sagoma di un uomo si sbrigherà ad aprirmi.

Penso sempre da spogliarellista, anche se adesso sono una rispettata professionista del settore immobiliare, il passato d'altronde ci trattiene. Mentre stanotte il presente sembra sfuggirmi.

Sento camminare e i passi arrivano svelti fino a me, adesso ci divide solo la porta.

«Cosa vuole?», è la voce di una donna, stanotte la sfortuna mi sta appiccata addosso come una sanguisuga.

«Sono rimasta a piedi», e mi chiudo la giacca, non serve prendere altro freddo. «Mi si è fermata l'auto lungo la strada principale, a tre miglia da qui, le chiedo se...».

«Chiami un carro-attrezzi», la donna non mi lascia finire e mi interrompe bruscamente. Scocciata.

«In questa zona i cellulari non funzionano. Magari può farmi fare una chiamata da casa, se ha un telefono fisso», prendo una pausa per respirare, la tentazione di mandarla al diavolo è forte.

«Oppure mi accompagna in città con la sua auto. La pagherò bene», provo subito a corromperla avendo visto una vecchia e corrosa jeep parcheggiata un paio di metri alla mia destra, forse convinco la stronza sventolandole un bel mazzetto di sterline sotto il naso.

Per risposta un silenzio che sembra assoluto, totale, giacché anche gli animali sembrano aver rallentato i loro ritmi sonori, mentre le betulle - ora che s'è calmato il vento - restano immobili, fieramente vigili su tutto.

Allora, stronza?

I passi la allontanano dalla porta e la fanno ricomparire dietro alla tendina, dove intravedo una seconda sagoma, probabilmente la stronza sta cercando un assenso. Oppure un diniego.

Le due ombre rimangono in piedi per un tempo che a me sembra trascorrere infinitamente lento, e dai gesti capisco che stanno discutendo; decidere di aprirmi non deve essere semplice, evidentemente.

Perché sono così malfidati? Capisco l'ora notturna, ma accidenti la stronza ha potuto vedere che sono una donna, e per di più sfinita, infreddolita e con i piedi sanguinanti e massacrati dall'asfalto: che paura posso fare?

Finalmente una sagoma si stacca dalla scena e i passi la riconducono verso la porta, mentre l'altra rimane ritta dietro la tendina, sola e senza più la luce azzurrognola sullo sfondo.

Hanno preso una decisione.

Taclac. La serratura fa un paio di giri e la piccola porta di legno si apre.

È la decisione giusta.

«Quella fottuta macchina mi ha lasciato a piedi tre miglia da qui e ormai mi ero rassegnata a fare anche le altre due, prima di trovare qualche abitazione», entro nella casa semibuia e la stronza, senza neanche ascoltarmi, si volta e s'allontana lungo lo stretto corridoio.

Evidentemente le presentazioni si fanno di là, dove c'è la seconda persona.

L'altra stanza è una saletta piccola, come d'altronde la casa, e la stronza si decide a fare un po’ di luce accendendo un paio di faretti a parete.

Adesso posso finalmente vederla in faccia.

«Mi chiamo Petra», allungo per prima la mano nonostante mi stia già sulle palle, e lei mi stupisce, accarezzandola con delicatezza insospettata, in netto contrasto con i modi scontrosi avuti fin qui; forse le mie zinne piacciono anche a lei.

«Piacere... Layla», è una bella donna, sui 45, ma più grassa di me; tratti decisi e trench scollato aggressivamente, più della mia camicetta; il volto ha un ché di esotico, forse un origine mediorientale; però è un po' troppo pallida, anche fosse una donna inglese purosangue.

«Lei invece è Claire», indica una biondina sulla trentina, non altrettanto piacente, e molto più grossolana.

È lei la seconda ombra dietro la tendina, quella con cui ha discusso e deciso il mio destino.

«Ciao, Petra...», la sua mano, invece, è viscida come il suo sguardo.

«Quindi sei rimasta in panne... non hai scelto certo un bel posto per essere lasciata a piedi, a quest'ora della notte...», dopo essersi strofinata la pancia, Layla mi dà una strana occhiata, che non riesco subito a decifrare. «Togliti questa giacca umida di dosso», e non è un consiglio, è un'azione, e me la sfila senza tanti indugi.

Resto con la camicetta sbottonata e gli sguardi strani su di me raddoppiano, anche Claire difatti mi dà la stessa occhiata della sua amica.

«Mi dispiace, ma per tornare in città dovrai aspettare domattina», Layla va subito al punto, si vede che qui è lei che comanda. «Il telefono di casa è staccato. Queste benedette compagnie... basta un giorno di ritardo nei pagamenti e ti tagliano subito i fili.

E poi è tardi, ormai ti conviene dormire qui».

«Abbiamo un solo letto in camera, ma è matrimoniale; se ci stringiamo, possiamo starci tutte e tre...», Claire si intromette, quasi timorosamente.

«Non è così, Layla...?».

«Certo... un po’ strette, ma ci stiamo...».

Questa storia della camera con un letto solo mi conferma che ho davanti due dannatissime, fottute, stramaledette lesbiche.

Oltre la giacca, vorreste togliermi di dosso anche la camicetta, vero, stronze?

Per una mezza nottata saprò tenervi a bada, anche perché siamo due contro due. Io non viaggio mai da sola.

«Vado a spostare la jeep», la vecchia stronza prende un mazzo di chiavi appoggiato sopra un mobiletto ed esce; sta sempre a toccarsi con un certo disgusto la pancia ben tornita: digestione difficile?

Ma perché spostare la jeep? È di intralcio a qualcuno?

Non ho visto altre case, oppure altre auto che devono fare manovra.

Mossa strana.

«Vado a prendere un altro paio di coperte», la biondina sparisce invece nel corridoio ed entra nella prima porta a destra. Sono rimasta sola.

Penso di ringraziare tutti e di andarmene, magari con un inchino, ma camminare per altre due miglia a quest'ora della notte e nelle mie condizioni è un'alternativa che scarto subito.

Due lesbiche in fondo sono il male minore, ho visto di peggio.

Mi siedo su un divano strappato e ricucito in diversi punti, e allungando la mano mi ritrovo il telecomando fra le dita.

Accendo la televisione.

Grazie alle telecamere situate all'interno del centro commerciale è stato possibile ricostruire i primi identikit degli attentatori.

Già, l'attentato della settimana scorsa a Sheffield.

189 morti e quasi 1.000 feriti, quei bastardi hanno fatto un bel casino al Meadowhall Centre.

I terroristi vengono filmati chiaramente dal sistema di video-sicurezza, mentre entrano nel centro commerciale con le borse contenenti l'esplosivo.

Già, sistema di video-sicurezza, e mi accendo una sigaretta con un sorriso amaro come la nicotina.

Siamo in grado di mostrarvi in anteprima le foto segnaletiche rilasciate poco fa direttamente da Scotland Yard... i due, un uomo e una donna, sono personaggi già conosciuti alle polizie di tutto il mondo per essere attivisti di Al Qaeda... si tratta di Moahmed Bahari...

Una gran brutta faccia araba con tanto di barba mediorientale, e tiro una boccata di cancro ai polmoni.

...pedina fondamentale nello scacchiere del terrorismo islamico... e dell'avvenente libanese Layla Al Hussein, esponente di spicco della stessa Al Qaeda; a quanto si apprende, la donna sarebbe affetta da un devastante tumore all'intestino, giunto alla fase terminale.

Cazzo...

Su entrambi pendono mandati di cattura internazionali e taglie milionarie.

Cazzo... ecco cos'era quel quid esotico... ed ecco perché si tocca e ritocca la pancia... altro che cattiva digestione...

Spengo la televisione e schiaccio la sigaretta nel portacenere, nello stesso momento, con un solo nevrotico gesto.

E scatto in piedi. La terrorista ricercata dalle polizie di tutto il mondo è la stronza che sta spostando la jeep qui fuori.

Sono passata da due lesbiche a due terroriste, la situazione sta alquanto peggiorando.

«Si dice che l'ignoranza uccida.

Ma qualche volta uccide di più la conoscenza», mi volto di scatto e mi ritrovo la bionda di fronte. Con una pistola in pugno.

«Cosa succede?», la stronza terrorista è rientrata nell'abitazione. «Claire, mi spieghi per quale cazzo di motivo le stai puntando la pistola contro?», sembra dispiaciuta della spiacevole situazione, evidentemente stava già pregustando il letto matrimoniale a tre e la pistola indirizzata verso di me le sta rovinando il programma.

«L'amichetta si è messa a guardare il notiziario della notte.

E indovina di chi parlavano alla Bbc?».

«Non sei per niente fotogenica, sei molto più bella di persona, Layla...», un po' di humour britannico l'avrà di sicuro imparato.

«Ci hanno identificato... era messo nel conto», la libanese non si scompone.

«E comunque per te cambia poco, Petra», mi guarda con gli occhi immobili, come le betulle senza vento, e freddi come l'aria di questa notte maledetta.

«Hai visto la jeep, la targa e le nostre facce.

Ti avrei ucciso domattina, dopo esserci divertite un po’».

Non si può volere tutto, Layla.

«Ammazzala», la voce è senza tono, priva di ogni umano sentimento.

«Aspetta, Claire... magari possiamo divertirci lo stesso», Layla sembra avere un'idea. «Leghiamola al letto e spassiamocela... sotto quella camicetta c'è tanta classe...».

Pessima idea. Ma almeno posticipa il dito piegato sul grilletto.

Layla rimane in silenzio, a riflettere sulla possibilità di allungarmi la vita in cambio di un orgasmo, il suo.

«Prima vado io... e poi la lascio tutta per te...», Claire è proprio una cagna in calore.

«Portala in camera, ti raggiungo», Layla mi sorride a labbra chiuse, il sorriso di una Gioconda lesbica.

«Hai sentito, puttanone...? Muovi il culo...», Claire mi indica la strada con la canna della pistola, si vede che è impaziente di dare il via ai giochi...

«Aspettate! Sono ricca, ho molti soldi», so benissimo che non gliene frega niente. «Non uccidetemi, vi darò tutto quello che ho».

«Non c'importa nulla dei tuoi soldi, puttanone».

«Aspetta... ho un bel mucchio di sterline anche qui», e metto la mano nella borsetta che non ho mai mollato neanche per un attimo, sempre attaccata in spalla.

«All'inferno te e i tuoi soldi! Se non ti muovi, ti faccio fuori!».

L'ho innervosita, è quanto speravo...

BANG

BANG

«Ahhh!», la biondina stramazza al tappeto con due pallottole in pancia.

Claire non si è neanche accorta che è toccato morire prima a lei.

BANG

BANG

BANG

«Bastarda!», Layla scappa nel corridoio, cercando un disperato riparo dalle mie pallottole.

«Ahh!», ma lo trova parzialmente, dei tre colpi che sparo, due centrano a mezza altezza il legno della porta, uno va a bersaglio.

Con il cuore che mi batte all'impazzata avanzo anch'io verso il corridoio, con la pistola stretta in mano e la postura abbassata di chi non vuole avere spiacevoli sorprese.

C'è sangue appiccicato alle pareti, e sotto forma di gocce ce n'è dell'altro sul pavimento.

Seguo le tracce ascoltando solamente l'affanno del mio respiro, con l'accortezza e l'attenzione di chi sta bonificando un campo minato.

Il corridoio e il sangue mi portano all'ingresso, la porta è spalancata su di un pozzo di buio senza fondo: Layla è uscita dalla casa.

Ma sul pianerottolo finiscono le sue tracce, comprese quelle di sangue.

Ha trovato riparo dietro un'altra porta, quella della notte, e se l'è richiusa alle spalle, lasciando davanti a me una parete di oscurità.

«La torcia...», mi piego sulle ginocchia, ed è sempre lì dove l'avevo lasciata, appoggiata al primo dei tre scalini di legno.

La riprendo e l'accendo, illuminando la notte un po’ ovunque, ma lei sembra già lontana, o comunque abbastanza per non finire nel mio cono di luce.

Con il braccio teso mi soffermo sulla jeep e vedo che non è più parcheggiata a lato dell'abitazione, adesso è messa di traverso sulla stradina inzuppata di fango.

La parte anteriore e quella posteriore dell'auto toccano i rami della foresta che sporgono da entrambi i lati, la lunghezza del mezzo occupa infatti precisamente tutta la larghezza del sentiero. E ne impedisce il passaggio.

Ecco perché Layla è uscita a spostare la jeep, ha voluto intralciare una mia possibile fuga verso la strada principale.

Illumino il cruscotto sperando finalmente in un colpo di culo, ma non ce l'ho.

Non ci sono chiavi lasciate nel quadro.

«Posso provare a scavalcarla...», ma ci ripenso subito, in fondo andare al di là della jeep potrebbe essere la mia condanna a morte.

Se ritorno sulla strada sarei un bersaglio troppo visibile e una preda che si muove troppo disinvoltamente ha poche possibilità di sopravvivenza.

Perché la stronza non può essere morta così.

Spengo subito la torcia, la terrorista non è andata a crepare dietro qualche betulla, ne sono certa.

Scelgo la foresta come via di fuga e nascondiglio, pronta a sparare al primo rumore sospetto.

Procedo a torcia spenta, a tentoni, appoggiandomi di volta in volta ai tronchi degli alberi, cercando uno spazio fra le frasche e i rami che mi sfregano la pelle, senza sapere la direzione.

«Ah!», un fottuto ramo, più grosso e più appuntito degli altri, mi entra nella scollatura facendomi male; sono costretta a fermarmi.

«Maledetta foresta!», mi passo la mano sul petto, ma è solo un doloroso graffio.

Riprendo a camminare, andare alla svelta il più lontano possibile da Layla è la mia unica priorità adesso.

Cammino accendendo la torcia per brevi tratti, e solamente quando è necessario, magari per evitare di cadere in qualche buca o per aggirare un passaggio impossibile, provando a non fare rumore neanche nel calpestare le foglie.

Cammino e mi ferisco, mi ferisco e cammino, e per un tempo che non so quantificare; non ho un orologio, mentre il cellulare l'ho lasciato sul sedile della mia fottuta auto; potrebbe anche essere passata un'ora da quando mi sono inoltrata nella foresta.

Nel frattempo ho ricaricato il revolver, ma solo con due pallottole, quelle che - a tatto - ho trovato sparse nella borsetta.

Due più una avanzata... non posso certo permettermi di sparare a ogni ombra sospetta. O ad ogni lamento del vento che soffi fra gli alberi.

Cammino e riesce a tenermi in piedi solo un disperato istinto di sopravvivenza, una tenace volontà di uscire viva da questo labirinto.

Forza, Petra.

Oltrepassata con grande fatica l'ennesima strettoia di fronde, finalmente sembra che la vegetazione mi conceda una tregua, un armistizio, e si allarghi consentendomi di respirare di nuovo, perché fino a qui ho proseguito quasi in apnea.

Mi ritrovo in uno spazio libero da piante, largo pressappoco un paio di metri.

Forza, Petra.

Accendo per un attimo la torcia e davanti a me illumino quello che sembra un sentiero sgombro e pulito.

Ritorno al buio e lo prendo.

Uno, due, tre, quattro... inizio a contare i passi per ingannare la mia mente, costringendola a pensare a qualcos'altro, perché il percorso adesso me lo consente, essendo diritto e senza grossi ostacoli, a parte i pezzetti di pietra e i rami spezzati che continuo dolorosamente a calpestare.

886, 887, 888.

Mi fermo, devo riaccendere la torcia.

«Laggiù...», penso addirittura di mettermi a correre, ma le poche forze che mi rimangono non me lo consentono, a volte il pensiero non basta.

«Sì!», mi piego in avanti con le braccia che mi penzolano lungo il corpo e le mani oltre le ginocchia, in una postura da centometrista dopo che ha tagliato il traguardo.

Rialzo capo e torcia illuminando quella che adesso può essere la mia salvezza.

Altri trenta passi contati e i miei piedi non sprofondano più nel terriccio, ora sotto c'è l'asfalto.

Sono ritornata sulla strada principale.

Ce l'ho fatta... sì, a uscire da qui, ma a che altezza mi trovo?

Spero di aver percorso abbastanza foresta per essermi allontanata il più possibile dal  punto dove il sentiero bloccato dalla jeep riportava su questa stessa strada.

Ricomincio a camminare prendendo verso destra e questa volta mi mantengo sull'asfalto, seppur spostata lateralmente, per stanotte i miei bei piedi ne hanno avuto abbastanza di tagliarsi.

Adesso devo rischiare nell'espormi, non ho scelta, se non quella di tornare a perdermi nella foresta.

Cammino oramai barcollante e da lì riesco a percorrere solamente poche centinaia di metri, quando all'improvviso le betulle alla mia sinistra si mischiano con quelle alla mia destra, in un mulinello visivo senza più nessun senso, dove le forme perdono ogni logica strutturale.

Senza più forze, cado pesantemente sulle ginocchia, stremata.

Mi metto le mani in faccia per non vedere più quella ridda di immagini rimescolate fra loro, mi fanno venire la nausea.

Ho voglia di vomitare.

Mi lascio cadere di fianco e mi sdraio completamente sull'asfalto, riuscendo a  girarmi a pancia in su.

Non ho più paura della foresta, o di Layla, adesso provo solo l'intenso godimento di essere distesa, l'infinito sollievo di non essere più costretta a camminare, la gioiosa consapevolezza che le mie fatiche sono finite.

In fondo volevo solamente un letto. Adesso ce l'ho.

Chiudo gli occhi e nemmeno la scomodità dell'asfalto mi impedirebbe di addormentarmi, se non fosse che la strada sembra avere un subitaneo sussulto, un fremito imprevisto.

L'asfalto pare palpiti all'improvviso com'avesse un cuore.

Inclino leggermente la testa alla mia destra e appoggio l'orecchio in terra.

Con la mano mi tappo l'altro orecchio dai rumori della foresta e sì, l'asfalto sta palpitando sempre più forte, quasi da compensare i battiti del mio cuore.

Mi puntello con entrambi i gomiti sull'asfalto per provare ad alzare il busto, e con uno sforzo inenarrabile ottengo di rimettermi su quel tanto che basta per riuscire a guardare davanti a me.

E nella lontananza non quantificabile un bagliore inizia a distinguersi nel buio.

Il chiarore si ingrandisce sempre di più e i battiti dell'asfalto ora posso ascoltarli anche restando ferma in questa mia nuova e scomoda posizione.

Non importa più che metta l'orecchio in terra, la luce e il rumore sono indubbiamente reali. E sempre più vicini.

Sta arrivando una macchina. Ecco quello che voleva dirmi l'asfalto palpitando.

Mi sdraio nuovamente sulla schiena e contemporaneamente apro le braccia e allargo il compasso delle gambe per occupare più spazio e farmi vedere meglio.

Una donna vitruviana nel mezzo di una strada nel mezzo di una foresta.

Adesso devo solo aspettare di conoscere a chi appartengano quei palpiti.

L'auto mi arriva davanti, fermandosi a un paio di metri dai miei piedi, il motore acceso, così come i fari che mi puntano addosso.

Si apre una portiera e scende un'ombra, una delle tante di questa nottata.

«Pensavi fosse davvero finita così?», l'ombra si frappone fra me e la parte anteriore della macchina, oscurando la luce dei fari con il suo corpo.

«Stupido puttanone...».

Layla...

Da subito mi ero fatta poche illusioni che quei palpiti potessero non appartenere a lei.

Sposto di poco il capo e sia pure in controluce, posso riconoscere anche la carrozzeria della jeep.

Lei ha già in mano una pistola, mentre con l'altra si tiene una spalla.

Ecco dove l'avevo colpita. In una trascurabile spalla...

«Vai all'inferno!», si vede che ha imparato la lezione e questa volta non mi dà il tempo per offrirle nulla.

BANG

BANG

BANG

Ho appena il tempo di vedere tre bagliori.

Fiammate che mi entrano dentro come incendi.

Tre incendi che mi divampano subito nella carne.

A faccia in su continuo a guardare le stelle, grazie alla fessura che la foresta concede al cielo, sicuramente un gran bel panorama per chi ha appena incontrato la morte.

Mi tengo lo stomaco con entrambe le mani e anche se non lo vedo, sento che il sangue mi sta uscendo abbondante dalle ferite, il suo calore mi scalda le mani e mi inzuppa la camicetta.

Layla torreggia su di me, in tutta la sua prestanza.

«Mi dispiace, Petra...».

Si piega su di me e mi infila la mano nella camicetta, sulle zinne.

Io ho una dannata paura di morire, e lei ci prova gusto...

«Addio, bella puttana...», e ritorna verso l'auto.

Non puoi cavartela così, fottuta terrorista... provo uno scatto di giustizia, quasi di patriottismo, per le vittime del Meadowhall, ma soprattutto per le tre pallottole che mi stanno facendo crepare.

No, che non puoi cavartela così... e con uno sforzo disumano riesco a infilare ancora una volta la mano in quella borsetta che nemmeno la foresta è riuscita a strapparmi dalla spalla.

Le ruote della jeep cominciano a muoversi e l'auto fa una mezza inversione per tornare indietro, questione di attimi e mi passerà accanto, dandomi la fiancata destra, quella del guidatore.

BANG

BANG

BANG

Sparo le mie ultime cartucce e pareggio i conti.

Tre pari, Layla.

La jeep accelera improvvisamente, per poi rallentare subito dopo, lo fa un paio di volte e mi fa pensare a quei conigli che prima di tirare le cuoia scalciano disperatamente, con le zampe mosse solamente dai nervi in agonia.

E l'immagine mi farebbe anche sorridere, se solo riuscissi a muovere le labbra.

Poi, con un'ultima sgasata, termina il suo andamento singhiozzante contro uno dei tanti alberi, a una ventina di metri da me.

Io invece ho freddo, tanto freddo.

L'unica parte che sento calda è lo stomaco, tutto il resto è congelato, a partire dai miei piedi che non riesco più a muovere.

Continuo a guardare il cielo, non l'ho mai visto così bello come stanotte, e questo mi fa rimpiangere ancora di più il fatto che sto morendo.

Abbasso gli occhi sulle zinne, provando a scuotermi, ma non ci riesco.

E adesso?

«Stia calma signora...», qualcuno mi sta parlando?

Non sono più sicura di niente.

Ormai non sento più niente.

Mi sento completamente anestetizzata, una sensazione di sollievo che nella vita credo si provi una volta sola. Quando si muore.

«Layla Al Hussein... una delle dieci terroriste più ricercate al mondo.

Lo sapevi, John?».

«Certo... quelli dell'antiterrorismo ci aggiornano le schede quotidianamente, e questa Layla la ricordo molto bene».

«Perché è un bel puttanone, è per questo che te la ricordi, vero?», due poliziotti dialogano osservando la scena del crimine, con alle spalle lo sfondo della foresta illuminata dai lampeggianti.

«L'hanno portata all'ospedale mezza morta», il più alto e magro guarda la fiancata della jeep, quella bucherellata dalle pallottole.

«Sembra più resistente della carrozzeria.

Scommetto cento sterline che da domani dovremo piantonare la sua stanza, una così non crepa tanto facilmente».

«Però le rimane il tumore addosso...».

«Troverà un sistema pure per quello, credi a me...».

Mezza morta? Più resistente della carrozzeria? Ma io l'ho ammazzata quella stronza!

«Sai quanti dollari hanno messo gli americani sulla sua testa?

Un milione tondo tondo».

Un milione? Ho sparato io a quella stronza! Il milione allora spetta a me, cazzo!

«E questa?», quello più basso e tarchiato sembra indicare me.

«Al momento non si sa niente di lei, a parte che si chiama Petra Frazer.

Stanno cercando di stabilizzarla, prima di farla partire. È messa peggio dell'altra».

«Magari si scopre che è una terrorista anche lei, forse una discussione finita con qualche parola di troppo. Sai... queste libanesi sono eccitabili...».

«Ed eccitanti...».

I tubi che ho attaccati dappertutto vi impediscono di vedermi le tette, altrimenti non parlereste così...

Altri trenta passi contati e i miei piedi non sprofondano più nel terriccio, ora sotto c'è l'asfalto.

Sono ritornata sulla strada principale.

Ma non ho nemmeno il tempo di pensare alla prossima mossa che un bagliore attira subito la mia attenzione, una luce lontana che si esalta nell'oscurità fatta di pece.

Sembra un fascio solitario, unico, ma avvicinandosi si sdoppia in due, rivelandosi per quello che è.

I fari di un’auto.

Sono salva! Ma la mia euforia dura un attimo più che fuggente.

E se alla guida ci fosse quella stronza?

L'ipotesi è maledettamente probabile.

Ho un'idea.

Prendo la torcia, la posiziono verticalmente nel bel mezzo della strada e l'accendo, lasciandola illuminare verso l'alto.

Io invece torno a nascondermi nell'oscurità, dietro il largo fusto di un albero.

Il rumore mi porta velocemente la macchina, la strada ora è perfettamente  illuminata dai fari, che si fermano davanti alla torcia.

Riconosco immediatamente la carrozzeria.

È la jeep.

Avevo ragione.

La portiera si apre, facendo scendere una sagoma che si porta subito davanti al muso dell'auto, per accucciarsi e raccogliere la mia torcia.

È lei.

Aggressiva, imponente, col trench allentato come fosse una puttana, sembra non risentire il freddo della notte.

Indirizza il fascio di luce verso il lato opposto a quello dove sono io e inizia a scorrere gli alberi uno a uno, una betulla dopo l'altra, in un'alternanza di luci e ombre, di fusti e rami lucenti solo per l'attimo del primo piano.

Per poi ridurli nuovamente al buio, a comparse della notte.

Poi illumina la strada, la linea di mezzadria, e la segue finché riesce a vedere l'asfalto. Niente. Le resta solamente il mio lato.

Sfilo la pistola dalla borsetta senza nemmeno respirare, anche un solo sospiro potrebbe svelarmi, Layla sta annusando l'aria come un animale.

Forse ha già sentito il mio odore.

Passa di nuovo in rassegna le betulle.

La prima, molto lentamente.

Poi la seconda.

E la terza.

Mi rimane il tempo di altri due alberi, poi tocca alla mia betulla.

Devo agire adesso. Prima che mi stani dal buio.

«Butta la pistola a terra!», lascio allo scoperto solo il mio braccio armato, tutto il resto è al sicuro dietro l'ampiezza protettiva del tronco.

«Sapevo che eri tu», dirige la torcia sul mio albero e la luce è ferma, sa mantenere la calma anche in un momento come questo.

«Fai un solo gesto e sei morta», io invece devo tenermi il gomito con l'altra mano per non far ballare troppo il mio bersaglio.

«Certo... il solito vecchio gioco...

Chi si muove per primo è morto», guarda verso di me, ma il buio impedisce ai suoi occhi di arrivare a destinazione.

«Ma stavolta cambiamo la regola...», e fa per alzare la pistola contro di me.

BANG

BANG

BANG

Tre colpi, tutti quelli che mi sono rimasti.

«Ohhh...!», Layla va giù sulle ginocchia come un pesante fantoccio, uno spaventapasseri che all'improvviso non fa più paura a nessuno.

La torcia le casca davanti e la lampada, che resta rivolta verso di lei, la illumina sadicamente in un’inquadratura stretta.

Il primo piano della morte.

«M'hai... fottuto... brava... tanto... ne avevo... per poco...», mi fissa con un sorriso già morto, sputando più sangue che parole; sicuramente si riferisce al tumore che l'ha invasa. «Però... sono... ancora... viva... puttana...», Layla è sommersa dalla morte, ma cerca ancora di fare la voce grossa.

La testa reclinata in avanti con il mento a toccare il petto, sembra stia pregando inginocchiata, le manca solo un rosario da tenere stretto fra le mani rimaste attaccate sui fori delle mie pallottole; il grosso seno quasi scoppiato fuori dal trench allentato, Layla sembra ansiosa di darsi e mostrarsi.

Vuole farsi notare, commuovere l'inferno.

Prega, Layla, in fondo non è mai troppo tardi per espiare i propri peccati...

La lascio lì - tremante, pulsante, agonizzante - e salgo sulla jeep, il motore è sempre acceso.

Scansandola, procedo dritto, senza capire se stia andando a sud oppure a nord: non me ne frega niente, voglio solo andare via da qui.

Schiaccio fino in fondo l'acceleratore, con le piante sanguinanti dei piedi, e allontanandomi il buio mi porta via dallo specchietto retrovisore l'immagine della libanese, lasciandomi però l'ultima fotografia di Layla: una sagoma illuminata raccolta in perdurante implorazione, quasi pietrificata, con il grasso offerto in sacrificio per guadagnare qualche minuto, un'ara votiva che spilla sangue da sé stessa, una statua di carne da idolatrare, eretta al centro della strada.

Forse ad uso di futuri pellegrini, che verranno a vedere dov'è morta la libanese Layla, uccisa da una principiante; prima sorpresa da un male incurabile, poi da tre colpi d'arma da fuoco che l'hanno raggiunta allo stomaco, incurabili anche loro.

Però per quella puttana mi dispiace sul serio, sarei quasi tentata di ingranare la retromarcia, se non fosse troppo tardi.

Già... se non fosse troppo tardi... è questo che avrei fatto.

Adesso sarei sicuramente in una centrale di polizia con una coperta calda addosso e con i giornalisti di mezzo mondo che si prendono a pugni pur di avere una mia dichiarazione. E con un milione in più sul mio conto corrente.

Petra Frazer, l'Eroina di Sheffield... questa sarebbe stata la prima pagina a caratteri cubitali di tutti i quotidiani.

E invece me ne sto qui a crepare su un'ambulanza, con le orecchie che saranno le prime a cedere...

APPUNTAMENTO ALL'OBITORIO

di Salvatore Conte (2024)

Prima di una missione pericolosa, Layla Zikhoque andava sempre a controllare dove sarebbe finita la sua lurida vita: poi si faceva un drink e una bella mangiata alla sua salute e si augurava di avere altri anni da cessa davanti a sé... alla faccia di chi sperava di rivederla presto sotto un lenzuolo bianco, fredda e ammutolita...

Layla era ormai è una vecchia troia, niente a che vedere con il bel fiorellino di alcuni anni prima.

I segni della decadenza erano chiari, ma la libanese non si lasciava abbattere: infatti si considerava ancora una gran fica e voleva giocarsi le sue carte.

Layla aveva il rimpianto di aver dato troppo alla figlia: adesso lei era giovane e bella, come se le avesse drenato tutto: energia, bellezza, fascino, in ossequio a una certa legge della compensazione.

La figlia da piccola era bruttina, poi aveva cominciato a capire e a rubare ciò che le interessava, e adesso si era perfino messa contro la madre, vecchia e sfondata, accoppiandosi con uno stronzo della banda rivale.

Se facevano fuori la madre, a lei non importava niente.

Sarebbe andata a trovarla all'obitorio.

«Mi trovi troppo grassa?», mi ripeté per l'ennesima volta quella sera.

«Cristo, no, non lo vedi?», attirai la sua attenzione sul mio cazzo a bestia.

«Quello non vuol dire niente, Johnny...

La troia di mia figlia mi considera finita».

«Si sbaglia, sei ancora tu la migliore, Layla».

«Lo sai che sogno faccio, Johnny?».

«Penso di saperlo...».

«Mi becco del piombo in pancia, ma l'ambulanza anziché all'ospedale mi scarica all'obitorio, dove mi stendono su un lettino da autopsia.

Il medico legale prende un coltellaccio da cucina e me lo pianta nello stomaco, poi chiama gli infermieri del reparto e a turno mi sbattono...».

«Un cazzo di sogno... sei proprio fissata con questo cazzo di obitorio...».

«E tu con il cazzo in generale...», rispose la gran puttana.

«Faresti meglio a preoccuparti di Smith: se scopre che l'abbiamo fregato, quello ci fa fuori!

Forse questo sogno è la parte finale della storia...!».

«Stai tranquillo Johnny, non scoprirà mai niente, non può sospettare di noi».

Una faccia da stronza assassina su una camicetta bianca da vecchia troia, sbottonata fino allo stomaco.

Due tette da cessa sulla pancia da scrofa.

Sfasciata e zozza, ma sempre competitiva.

Era la mia compagna, Layla Zikhoque.

Me l'ero goduta, ma era finita.

Le diedi la notizia.

«Siamo fregati, Smith ha capito tutto...

Adesso ci farà a pezzi…!».

«Non può essere!

Se è così, siamo finiti sul serio...».

«Sta già organizzando una squadra della morte tutta per noi, me l'ha detto Bill e lui non racconta cazzate.

Dovremmo trovare il coraggio di farlo da soli... capisci cosa intendo…?».

«Siamo a questo punto?».

«Siamo in un vicolo cieco, Layla».

«Pensi che io abbia paura di farlo?».

«Dico soltanto che non è facile farlo.

Tu hai una paura fottuta di finire all'obitorio...».

«Ci andrò da morta, idiota...

Uno sparo e via…», mormorò con occhi trasognati. «Chi comincia?», stava accettando l’idea.

«Insieme: tu spari a me, io sparo a te, nello stesso momento.

Ce ne andiamo insieme».

Ormai si era convinta: era l’unica cosa da fare.

Smith non poteva perdonarci, lo sgarro era stato pesante: tutto per la sua smania di essere sempre la più furba.

Se non ci decidevamo a farla finita tra noi, rischiavamo di dover rimpiangere una fine rapida e relativamente indolore.

L’ultimo bacio suggellò il funesto accordo.

Montammo in fretta le prolunghe. A quel punto era inutile starci a pensare.

Non ci furono altre parole.

STUMPF

STUMPF

Un dolore lancinante, la sensazione di cadere nel vuoto, benché tenessi il culo sopra la poltrona.

Assorbito il colpo, rimase a guardare la tv, quasi indifferente, stravaccata sul divano, con le cosce larghe e il solito sguardo da mignottona.

«Dobbiamo deciderci, Layla… se uno non basta… ce ne vuole un altro…», cercai di scuoterla.

Ma lei mantenne gli occhi sul televisore, la bocca era aperta in un'espressione di sorpresa, magari si vedeva già fottuta da Satana in persona.

L’impasse fu rotta dal suo cellulare, che cominciò a cantare sul tavolino.

«Chi è…?», rispose con voce incerta. «Io non so niente… arghh…», ebbe una fitta o fece finta di averla.

Il suo interlocutore teneva occupata la linea.

«Sì… urgh... sento… argh…», stava accentuando i lamenti.

Dopo aver ascoltato, chiuse il cellulare e lo abbandonò sul divano.

«Chi era...?».

«Uno stronzo… dall’inferno… cough... dice... che dobbiamo sbrigarci…».

I contorni della bocca tornarono vivi, anche troppo…

Qualcosa era cambiato, aveva deciso di fregarmi.

Tornò ad impugnare la pistola, con gesto minimo.

Poi… lo scatto!

Come una vipera schifosa puntò la canna verso di me...

STUMPF

Benché nuovamente colpito, ero in allerta e riuscii a esplodere a mia volta…

STUMPF

STUMPF

E poi con rabbia, per stroncarla, dritta nello stomaco, prima che potesse riprendersi…

STUMPF

Furente, le avevo scaricato addosso altre tre pallottole!

Ma non volevo ucciderla, io volevo difendermi...

Si inclinò leggermente sul fianco sinistro, con la pistola ancora in pugno.

Immaginavo, a questo punto - non senza trepidazione, la rabbia era già svanita - un suo crollo...

E invece rise... un ghigno frenetico, isterico.

Con quella risata stralunata pensava di irretirmi, ma io la conoscevo, sapevo che non si era arresa, che stava assorbendo il triplice colpo - come aveva fatto con il primo - che aveva ancora birra, che non poteva più fermarsi, ora che mi aveva tradito.

E infatti si voltò di scatto!

Quegli occhi assassini, carichi di follia e speranza, mi colpirono come due pallottole…

STUMPF

STUMPF

Ma i suoi colpi malfermi andarono a vuoto, avevo scartato sul fianco, pronto a rispondere…

STUMPF

STUMPF

Altre due pallottole, sparate quasi con calma, e messe ancora in pancia, per farla finita una volta per tutte.

Non mi ero lasciato irretire. Il mio istinto di sopravvivenza aveva prevalso.

Sussultò due volte, con la disperazione negli occhi, perdendo definitivamente la pistola.

Stava prendendo coscienza della realtà. La bocca era paralizzata dallo spavento: assimilare altre due pallottole, nelle condizioni in cui si trovava, non era per nulla facile.

Quasi vergognandosi di non riuscire più a gestire la situazione, Layla crollò di spalle sulla seduta del divano, con le braccia protese all'indietro, come ad arrendersi, anche se non era da lei.

Benché anch'io ferito, mi portai accanto a lei.

La mia donna era con la pancia all’aria, piena di buchi sanguinolenti.

Era rimasta con le braccia stese sopra le spalle, contratta, in posizione innaturale; i seni pressati contro la camicetta e rivoli di sangue dalla bocca; era sospesa tra la vita e la morte, inesauribile da una parte, fragile dall’altra.

Prese a rantolare, in debito d'ossigeno.

La sua morte era un atto sensuale; come quando viveva; al momento non era cambiato molto: rimaneva una grande sgualdrina.

Layla era allo sbando, lo sguardo confuso e disperato, ma la bocca alitava ancora veleno: mi sembrava di vederlo vagheggiare nell’aria; era consolante.

«Mi hai sfondato…», sussurrò con voce gutturale.

«Mi hai costretto… e adesso...», le mostrai la pistola, «adesso… con un'altra pallottola nella tua bocca da troia… tu vai a prenderlo in culo, Layla...

Su, apri bene...».

«Aspetta…», il tono concitato, gli occhi allarmati. «Sto crepando… cough... cough... aspetta... voglio parlarti…».

«Fa' presto, allora… non hai molto tempo...».

«La nostra... cough... è stata... una bella storia... cough...».

«Questo non posso negarlo...».

«Io... non volevo... che finisse così... cough...».

«È tardi per i rimpianti, Layla...».

«Per me... è stata importante... cough... io... c'ho creduto...», insistette, poco convinta; sofferente, con la morte che le stava seduta sul petto, rendendolo sempre più pesante da sollevare, e con l'incubo di ritrovarsi un pezzo di cervello sulla parete di casa, se non avessi allontanato la canna dalla sua bocca.

Non aveva accettato l'idea di morire nemmeno adesso che era in fin di vita.

Però avevamo parlato più quella sera che in tutto l'anno.

La guardai boccheggiare.

E capii che mi aveva fregato un'altra volta.

Dopo aver lasciato la pistola, la mia mano si appoggiò quasi d'istinto contro il suo stomaco; stavo cercando di aiutarla; completai il gesto usando il fazzoletto.

«Questo è amore...», si riscopriva romantica in punto di morte. «Tu... non avresti... cough... il coraggio... di uccidermi... a sangue freddo... e io... non voglio crepare... cough... sono viva... viva...», ripeté disperata, smentendo i fatti.

Era dura a morire la mia Layla. Era massiccia, forte, una bella montagna di carne. Ma la sua ora era arrivata, non volevo che il dubbio potesse indebolirmi.

Io non avevo il suo fisico, stavo male; avevo due palle in corpo e la testa mi girava.

«Sei fatta, Layla... mi dispiace... ma avevamo deciso così...

Ci vediamo all'obitorio... cara...».

«Prima... era Smith… cough... mi ha promesso... la salvezza… cough... se ti uccidevo…».

«E tu c'hai creduto…?».

«Io... dovevo crederci… cough... era... era... la mia ultima... possibilità… cough... cough...».

«E a me…? Non hai pensato... un po'... anche a me?».

«Ma tu… tu... cough... avevi deciso... di morire…».

«Insieme a te, però… non da solo…».

«Ora… sono io... cough... che muoio... sola…».

Insomma era un gran pasticcio, le tragedie di un tempo al confronto erano roba semplice; tra la testa che mi girava e i discorsi di Layla, non riuscivo più a seguire il filo degli eventi: impossibile capirci qualcosa.

La realtà mi rimandava alla corposa figura della mia bella troia, rimasta con le braccia distese sopra la schiena per tutto il tempo, seni pressati forte contro la camicetta e rivoli estenuati di sangue dalla bocca.

«Johnny… tu... non dovevi... uccidermi… cough...», eccola che attaccava di nuovo.

«Vuoi che chiami Smith… cough... e ti consegni a lui…? E che poi mi spari in testa? È questo che vuoi...?».

«Io… io…», anche lei era confusa.

Aveva sei pallottole in corpo: c’era da capirla.

Io ne avevo soltanto due e mi sentivo a pezzi. Ma non avevo il suo fisico.

Voleva salvarsi, era fin troppo chiaro. Aveva ceduto alle lusinghe di Smith e avrebbe fatto qualunque cosa per trovare una via di scampo: anche spararmi per l’ennesima volta; la conoscevo bene, era la mia fottuta compagna.

«Io... io... non ce la faccio più… Johnny…», si lamentava così, tra vaghi sospiri, per farsi compatire.

Le riportai le braccia lungo i fianchi e le accompagnai le mani sui buchi.

«Ora devi scegliere, Layla... Smith… l’ambulanza… o una pallottola in bocca…».

Sapevo già chi... avrebbe scelto.

«Dammi un bacio... e poi... chiama... Smith... cough... cough...», aveva la bocca piena di sangue.

Lo sapevo.

Avrei potuto vendicarmi, metterle in corpo il resto del caricatore, ma la verità l'aveva detta lei prima.

Fu così che mandai due messaggi, uno per lei, uno per me, ma prima il mio.

Non mi andava più di crepare, non prima di lei, almeno.

Layla ha provato a fottermi, ma è rimasta fottuta lei.

La troverai a casa sua, pronta per l'obitorio.

I lampeggianti dell’ambulanza filtrarono improvvisi dalle finestre: stavo per partire.

E stavo per lasciare la mia donna. Quasi di sicuro per sempre.

«Addio, Layla... riguardati...».

«Anche tu... Johnny...».

Era sicura del fatto suo, anche con sei palle in corpo.

Con le sue zinne da mignotta avrebbe incastrato Smith e forse ottenuto la grazia, anche senza l'ausilio del mio scalpo. In fondo c'aveva provato.

E poi, chissà... se si fosse ricordata della sua vecchia fiamma, avrebbe potuto ammorbidire il boss, facendo commutare la mia pena capitale in un risarcimento rateale, più qualche lavoretto gratis.

«Dobbiamo prelevare anche la donna, signore?», mi domandò uno dei paramedici.

«No… a lei ci penserà qualcun altro…».

Obbedivano docili, perché il meccanismo era ben oliato.

Per il momento, spendendo i miei ultimi soldi, ero abbastanza al sicuro.

Le ambulanze di certe cliniche non venivano toccate, erano una sorta di zona franca.

Mentre andavo via, ne arrivò un'altra...

Mi sembrava di vederla mentre si faceva caricare, intubare e scarrozzare a folle velocità... soddisfatta di aver stregato anche il principale…

Ora stava correndo disperata… insieme a me... mi inseguiva... forse per sorpassarmi... e arrivare davanti...

Era carica di rabbia… aveva una dannata fretta… sperava ancora di salvarsi… ma forse era diretta all'obitorio, come nel suo sogno...

Impossibile capirci qualcosa.

L'unica certezza era lei.

ZOMBI-TOWN

di Salvatore Conte (2024)

        

Dopo un lungo traffico a San Francisco, Ah-Toy si era riciclata sulle sponde del Rio Grande, riprendendosi il nome materno, ignoto a tutti, e passando al comando di una feroce banda di desperados.

Ora, in pratica, aveva messo il marchio di fabbrica al suo grosso seno, molto insolito per una cinese, che da sempre le aveva fornito un grosso aiuto nell'aprirsi la strada.

Armata, oltre alla colt, di una femminilità vischiosa e insinuante, mesmerizzante nei suoi occhi a mandorla, Minkoh Mulligan teneva in pugno i suoi uomini con calcolata spavalderia, legandoli a sé senza risparmio di lussuria e crudeltà.

Quel giorno aveva un appuntamento nella Ghost-Town con la banda di Douglas Jackson.

La cinese da 30.000 dollari affrontava le sfide decisive con addosso la sua caratteristica casacchina beige da puttana, sbottonata sul gigantesco seno: si malignava che fosse troppo grosso per un'asiatica e che l'avesse ottenuto non dalla madre ma sottoponendosi a un delicato esperimento; un certo dottor Frankenstein le avrebbe impiantato un seno di gomma per soddisfare le sue smanie di grandezza; l'unico modo per conoscere la verità sarebbe stato quello di bucarglielo con una pallottola...

Le due bande galoppavano verso il loro appuntamento, convinte di fare un sol boccone dell’altra.

Il pretesto di ricettare della refurtiva rimase un pretesto. Né argento, né dinero nella Ghost-Town. L’unica merce scambiata fu il piombo.

Un’autentica pioggia di pallottole si abbatté sulla putrescente ammucchiata di baracche.

Gli uomini cadevano da entrambe le parti.

Le donne da una sola.

BANG

Con sua somma meraviglia, Minkoh Mulligan aveva scoperto di non essere invulnerabile. Fu costretta a rifugiarsi nel saloon. Si era beccata una palla nel fianco e non intendeva lasciarci la pelle. La sparatoria non l’aveva risparmiata, il suo grosso scudo stavolta non aveva funzionato.

Cercò di svignarsela dal retro, ma le cose andarono sempre più storte.

Qualcuno la stava aspettando e volò per l’aria altro piombo.

BANG

Un secondo proiettile la raggiunse al petto...

Il simbolo stesso del suo potere era stato colpito!

A quel punto fu lesta a battere in ritirata, rientrando immediatamente nel saloon, pensando prima di tutto a salvare il salvabile.

«Maledetti...!», imprecando, si guardò i buchi e capì che era messa male. Non doveva più esporsi, per nessun motivo.

La cinese barcollò fino a un tavolo e prese paradossalmente posto, finendo seduta come aspettasse di bere un goccio prima di scendere all’inferno, mentre i suoi uomini, i pochi rimasti in piedi, si barricavano all’interno della fatiscente struttura.

La Mulligan si ritrovò a fissare una bottiglia lasciata lì da chissà quanto tempo…

Quello era il saloon di una città morta, il posto adatto per fantasmi, cadaveri e pistoleri imbottiti di piombo. Anche lei, adesso, aveva le carte in regola per rimanere seduta a quel tavolo per sempre…

Si piegò in avanti e appoggiò i giganteschi seni sulla superficie impolverata.

Per sua somma sventura, il seno colpito dal proiettile si era sgonfiato rispetto all'altro.

I maligni avevano ragione.

E intanto la resa dei conti incombeva.

«Vengo a prenderti, Minkoh!», era la voce di Jackson. «Scommetto che hai bisogno di altro piombo per schizzare all’inferno…!».

Con il padrone della banda c’era la sua cagna preferita: Elmira Gomez, detta la Cuerva, sia per i capelli che per le pallottole implacabili; insomma una tipa poco raccomandabile, dal fascino ambiguo e sferzante, una montagna lardellosa di carne e tette.

Volto a palla, occhi sornioni, quasi bovini; scollatura generosa e invitante su due pezzi da novanta: la messicana utilizzava le sue forme procaci per ottenere favori e scalare posizioni; e adesso era rimasto soltanto l’ultimo gradino.

Detto-fatto, l’inferno si strinse intorno al saloon.

La Gomez attaccava dal retro, il suo padrone dall’ingresso principale.

E Minkoh aspettava seduta, con la tetta sgonfia sul tavolo.

La messicana fece irruzione all'interno e aprì il fuoco a volontà…

Stese un paio di uomini e subito individuò la Mulligan.

«Questo è per te, troia cinese!».

«Non mi avrai!»

BANG

BANG

Minkoh agì appena in tempo, rovesciando a terra il tavolo e usandolo da scudo, visto che il suo aveva fallito.

I colpi della Gomez non ebbero effetto.

BANG

La risposta della cinese non si fece attendere.

«Uhh… bastarda…!», anche la messicana fu costretta ad assaggiare piombo, e per evitare guai peggiori e non rimetterci le penne, si affrettò a ripiegare.

«Idioti...! Inseguitela... cough... fatela a pezzi...!», ordinò Minkoh, livida di rabbia per aver rischiato di finire zampe all'aria.

Il braccio destro di Jackson accusava una pallottola nel fegato, tuttavia era riuscita ad allontanarsi senza problemi sulle sue gambe.

La sentiva, certo, ma non ne faceva un dramma. La stazza massiccia le permetteva di assorbire il colpo e di rimanere in piedi.

Dall’altro lato del saloon, Jackson non aveva sfondato e l’incursione di Elmira, pur pagata a caro prezzo, si era rivelata inutile.

La cinese era ancora viva.

Minkoh Mulligan, però, non riusciva a rialzarsi da terra.

Dovettero intervenire i suoi uomini, che la portarono al piano di sopra, adagiandola su uno sgangherato letto.

«Tornate giù... non deve... cough... salire... nessuno...».

Minkoh aveva paura.

Era una pistolera esperta, forse le due pallottole erano entrambe mortali.

Poteva resistere per un po', ma il piombo avrebbe avuto l'ultima parola.

Però voleva provarci lo stesso.

E per provarci, doveva per prima cosa evitare altro piombo.

«Pedro... tu... rimani...

La cagna di Jackson... è ferita... cough... è lei... la più pericolosa... senza di lei... cough... lui... è niente...

Perciò... fuggirà presto... cough... poi... mi porterai... da un dottore...

Avvicinati...

Questa... può essere l'occasione... cough... di liberarci... degli altri...

Rimarremo... solo... io e te... Pedro... cough... il bottino... sarà tutto nostro...».

Un cenno di assenso.

«Il mio bottino sei tu, Minkoh».

Un altro cenno di assenso.

Ma le cose non andarono secondo gli auspici della cinese.

Non aveva fatto i conti con un pericoloso terzo incomodo, il Ranger Carson, che usciva allo scoperto adesso che le due bande si erano indebolite a vicenda.

BANG

Il primo a cadere fu proprio Pedro, appostato maldestramente alla finestra.

BANG

BANG

BANG

Quindi il Ranger puntò sul saloon e gli ultimi uomini di Minkoh caddero uno dopo l’altro.

Ora, di tutta la sua banda, rimaneva soltanto lei, non poteva più contare su nessuno.

Sentì un paio di stivali percorrere lentamente il corridoio che portava alla sua camera.

Impugnò la colt e la occultò sotto una piega del lercio lenzuolo su cui giaceva.

Un calcio alla porta e Kit Carson fece il suo ingresso nella stanza con la pistola spianata.

Le fissò i buchi sanguinolenti come a girarle il coltello nella piaga.

«E così hai barato, Minkoh Mulligan...

Quelle tette non vengono dal tuo mazzo...

Il bottino, però... quello è tuo per davvero...

Se vuoti subito il sacco, ti porto da un dottore e scampi la corda.

Parola di Ranger Carson».

BANG

L'uomo si irrigidì.

Era ancora precisa: un buco in mezzo alla fronte.

THUD

La testa di Pedro si abbatté sul pavimento come un vaso caduto a terra.

Non era ancora morto, anche se gli mancava poco, e stava per sparare a Carson.

A Minkoh non serviva più.

«Dovresti stare… più attento… Ranger… cough… cough…».

«E va bene... ti sei guadagnata la grazia...

Ma adesso si fa sul serio.

Portami dal bottino e dividiamo alla pari.

Malgrado la giornataccia, te ne rimarrà metà.

Su, avanti... sei brava a sbottonarti...».

Il dialogo fu interrotto da un improvviso strepito di cavalli.

«Quel bastardo!», Carson fece capolino dalla finestra.

«Chi... Jackson…?».

«Sì, lui», confermò il Ranger. «È stato furbo. Ha fatto finta di fuggire».

«Hai nessuno... con te...?».

«Stavolta no...

Il mio famoso pard, il Ranger Willer, è impegnato su un'altra pista...».

«Allora… ricarica… cough... la mia pistola…».

«Sei ridotta male, stanne fuori».

«Non ho scelta… capisci... cough... devo… aiutarti… cough... o quello... farà fuori... anche me...».

Douglas Jackson era tornato, dunque.

In un primo momento, si era prudentemente ritirato sulle colline intorno alla città fantasma, ma poi, dopo avere udito diversi spari, aveva pensato di trarne vantaggio: forse si erano ammazzati tra loro.

E aveva quasi indovinato.

«È ancora viva la troia?», urlò Jackson, rivolto alle finestre superiori del saloon.

«Sta crepando!

Sono il Ranger Kit Carson, Jackson!

Arrenditi!».

«Tu non mi servi a niente, Carson! So che ti sei perso Willer per strada.

Da solo non vali niente! Sei un patetico vecchio dai capelli grigi!

Dovresti fare coppia con la vecchia Annette... la conosci? Ah-ah-ah...

Esci dal retro e vattene!».

«Certo che la conosco: dovrei farci un pensierino, è vero!

Adesso te lo ripeto per l'ultima volta: arrenditi, Jackson!».

«Tu sei pazzo, Ranger del cazzo!

Ti do cinque minuti per andartene! Poi vengo a prenderti!».

«Non mi fai paura, Jackson! Puoi venire subito, se vuoi!».

«Vecchio bavoso…», sussurrò il pistolero, quasi tra sé.

Quindi rivolse dei gesti ai suoi uomini, che presero a circondare lo stabile.

Con un altro cenno ordinò alla sua cagna di attaccare la preda.

Anche se rimasta gravemente ferita nell’assalto precedente, intendeva spremerla fino in fondo.

L’irruzione fu rapida.

Carson si attestò nella stanza occupata dalla Mulligan.

Una pistola in più era indispensabile in quel momento.

Gli uomini di Jackson non incontrarono resistenza.

Entrarono in tre nella stanza della cinese. La Cuerva era rimasta a controllare il corridoio.

«E così la vecchia stella di latta se l'è filata... peccato... mi sarebbe tanto piaciuto...».

BANG

BANG

BANG

Carson spalancò l’armadio e aprì il fuoco…

Una sarabanda di colpi .45 si scatenò nella camera.

C'erano anche quelli di Minkoh Mulligan.

BANG

«Puttana…».

Uno dei tagliagole di Jackson aveva reagito, sparando contro la cinese.

BANG

Fu zittito dal Ranger.

La mano era chiusa.

Rimanevano soltanto Douglas Jackson e la sua cagna, rimasta prudentemente sul corridoio.

La Mulligan digrignava i denti, disperata, amaramente consapevole di aver incassato altro piombo, cosa che avrebbe dovuto evitare a tutti i costi.

«Mi dispiace, Minkoh».

«Sta'… attento… alla...».

Le parole della cinese furono coperte da un improvviso strepito di cavalli.

«Ci mancava solo Annette…

La conosci?

Stava sotto Jessica Morton, la rossa da 20.000 dollari di taglia; però la ragazza s'è trovata un posto al cimitero e la vecchia si è subito allargata», Carson era tornato alla finestra e non staccava gli occhi dalla camicia della vecchia pistolera, allentata fino all'ombelico, come quella di una mignotta. «È sempre ingrugnita... vorrei tanto ammorbidirla un po'...

Sì... e poi la chiamano Ghost-Town...».

«La vecchia... bagascia… cough... vuole… saldare… i conti… in sospeso… cough...».

«E ha scelto il momento giusto, a quanto pare…».

«Sei finito, Jackson…!», la vecchia Annette aveva sputato la sua sentenza.

Accanto al suo grugno da carogna, brillava il ghigno crudele della sua giovane vice, Helen Kirk, detta Faccia d'Angelo.

«Aspetta, Annette… rifletti... di sopra c'è Minkoh Mulligan, la cinese.

Sta morendo, ma ha il Ranger dalla sua parte: io ed Elmira possiamo aiutarti a...».

BANG

BANG

«Posso fare da sola, Jackson.

Tu non mi servi a niente».

THUD

Il pistolero stramazzò sul pavimento di legno, ai piedi della Gomez.

«Maledetta…!».

«Cagna…!».

BANG

BANG

BANG

La Cuerva, vistasi perduta, scelse di reagire e tentare il tutto per tutto, benché rimasta da sola contro una mezza dozzina di colt.

La vecchia replicò immediatamente e i suoi uomini con lei.

La messicana, benché raggiunta da un paio di proiettili, riuscì a salire le scale e si infilò dentro una camera, senza nemmeno pensarci.

La sua reazione disperata li aveva sorpresi.

«Cagna! Non andrai lontano!», le urlò dietro Annette. «E tu, Minkoh, sei ancora viva? Allora vengo a prenderti…!

Carson! Tu mi conosci! Stanne fuori!», la voce della vecchia megera rimbombò tra le marcescenti pareti di legno.

«Niente scherzi, Elmira...», la Gomez era finita nella stanza della cinese.

«Fammela ammazzare... e poi mi arrendo... Ranger...».

La vistosa casacchina scollata, gonfiata dal pesante seno, grondava sangue dalle budella; la Cuerva sapeva amministrarsi, ma stavolta i conti rischiavano di saltare: oltre alla palla nel fegato, aveva incamerato altri due confetti nella pancia, sebbene rimanesse bellamente in piedi.

D’altra parte, Elmira Gomez era quel che si diceva una bestia: una donna giovane, ma già temprata, indurita dalla violenza e dal sangue, e sostenuta da un fisico massiccio, grazie al quale si era sempre tirata fuori dai guai.

Sull’altro fronte, la possente Annette - camicia sbottonata fino allo stomaco e vecchie tette ancora in mostra - stava passando l’incarico alla sua luogotenente. Non era ancora stanca di vivere, nonostante l'età avanzata.

E non si fidava di Carson: l'aveva corteggiata, ma non avrebbe esitato a spararle addosso.

«Ti conosco eccome, Annette! Mi dispiacerebbe bucarti la carcassa!».

«Helen… pensaci tu…».

«È cosa fatta, Annette».

Già… Helen…

Un’altra bestia feroce, ma dall’aspetto gentile.

Scelse un paio di uomini e andò a fare il suo lavoro.

Era sicura di sé, non aveva mai fallito. Gli uomini si scioglievano quando se la trovavano di fronte.

Il Ranger Carson, però, preferiva le vecchie.

Passando nella camera a fianco, aveva preso alle spalle il terzetto…

Elmira era rimasta con Minkoh.

BANG

BANG
BANG

Non diede a nessuno il tempo di sparare.

Un colpo per ciascuno, compresa Helen… che con un guizzo si era voltata e stava per reagire.

La Kirk fu l’unica a rimanere in piedi. Troppo puttana per crepare subito.

Approfittando del fatto che il Ranger vecchio stampo non avrebbe infierito contro di lei, si aggrappò al passamano della balaustra, barcollando verso le scale, nel tentativo di tornare al pianterreno.

Ci provava. Piano-piano... quasi senza farsi notare, imbarazzata dalla maldestra ritirata.

E con il panico che le soffocava la gola. Non si aspettava di rimanere uccisa.

Il Ranger non aveva infierito, infatti, ma le aveva pur sempre bucato lo stomaco: era abbastanza…

BANG

Non perdonò invece uno dei banditi a terra, non ancora abbastanza morto, tanto da avere nostalgia della colt.

«Annie… Annie…!», invocò ansante la Kirk, giunta in fondo alle scale sulle sue gambe, ma costretta a piegarsi in due, con le mani pressate sullo stomaco.

Annette la fissò delusa.

«Dannata stupida! Ti sei fatta ammazzare…!

Io non sarei mai tornata indietro, senza prima aver finito il lavoro, Helen…».

Helen ricambiò lo sguardo, sprizzando odio. Qualcosa scattò nella sua mente.

Si appoggiò contro la parete, scivolando lentamente verso un compagno.

Annette si rivolse a Carson: «Lo sai, brutta stronzo, che hai fatto fuori il mio migliore uomo?! Sei pericoloso, bastardo di un Ranger!

Ma non ti conviene tirare troppo la corda! Mi hai sentito?».

«Ti ho sentito, vecchia troia!

Ma non ho voglia di bucarti la pancia, Annette!

Alla tua età potrebbe farti male!
Nella fossa preferisci la camicia chiusa... o aperta... come adesso?».

«Io ti piaccio, Carson! E voglio essere più gentile con te!

Perché non troviamo un accordo?».

«Certo, come no! E magari ci sposiamo pure...!».

«Perché no, Carson? Non sono tanto vecchia per uno come te!

Dovevi vedermi qualche anno fa!

Ho fatto anche la Sceriffa, lo sai?».

Un lampo d’odio saettò di nuovo negli occhi di Faccia d'Angelo.

Mentre lei crepava, la vecchia faceva la vanitosa con il Ranger, trattando un accordo.

«Fanculo… Annie…».

Veloce come una vipera, si staccò dalla parete aggrappandosi al compagno con il braccio sinistro, mentre con la mano destra gli sfilava la colt…

BANG

BANG

BANG

Uno scambio furioso di colpi.

Due nel petto del malcapitato compagno.

E uno dritto nello stomaco di Annette!

THUD

TUMP

«Maledetta…», mormorò la vecchia, crollando sulle ginocchia.

«Sono io… la Regina… cough... adesso…», Helen chiuse la mano, puntando la colt contro l'ultimo compagno rimasto, per non lasciare dubbi su chi comandasse da quel momento in poi e prevenire sul nascere eventuali obiezioni.

THUD

Annette strabuzzò gli occhi, prima di franare a terra su un fianco e rovesciarsi supina.

«Mettila… su un cavallo… cough... con una pistola… e un colpo… cough...».

Si usava così da quelle parti.

Quando il moribondo si stancava di lottare, prima di farsi prendere dagli avvoltoi, si sparava un colpo in bocca.

«Che cazzo sta succedendo?!».

Helen non ebbe nemmeno il tempo di rispondere.

BANG

BANG

BANG

Carson era furioso.

Si precipitò per le scale, sparando a ripetizione.

La vista di Annette a terra l'aveva fatto impazzire.

«Ranger... !», Elmira lo chiamò. «La cinese...».

I nodi stavano arrivando al pettine.

«Tamponami il buco... per favore... cough...».

Carson era riverso su Annette.

Bill, l'ultimo ragazzo rimasto, aveva mollato il ferro.

Le allentò il fazzoletto rosso che portava al collo e lo usò per tamponare la ferita.

«Quella stronza... cough...».

«Non parlare... ti tiro su le gambe».

Era una manovra per mandare più sangue al cuore del moribondo.

Carson afferrò una sedia e infilò gli stivali della vecchia tra le feritoie dello schienale.

«Si è portata all'inferno... un mucchio di dollari...», l'amaro epitaffio di Elmira.

«Chi?».

«La cinese...».

Carson annuì, contento della risposta.

La messicana sembrava semplicemente affaticata.

Un po' di sudore freddo dalla fronte, ma niente di più.

«A settantotto anni... cough... mi sbottono... come una mignotta...

Ma so che a te... piace... cough...».

«Dimostri la mia età, Annette».

«Io ho paura... tu hai paura... cough... questo vuol dire... cough... che la tua proposta... è sempre valida... cough...».

«Tira i freni, Annette... e risparmia il fiato».

«Dammi da bere... caro...».

«Ti alzo un po' la testa...».

Sono diventata un'ubriacona... cough... sono vecchia e grassa... cough... mi sbottono la camicia... cough... come una mignotta... e ho un buco... nello stomaco... cough...».

«Mi vai bene uguale, Annette.

Basta che non fai la stupida...».

«No... stupida... no... cough... voglio vivere...».

Sporse la lingua e gli spostò la mano un po' più sopra: dallo stomaco alle zinne.

Neanche il tempo di pensarlo, che un cigolio di ruote annunciò l'ennesima sorpresa.

C'era traffico nella città morta.

Un curioso personaggio montava a cassetta di un conestoga privo di telone.

Era tutto vestito di nero, sulla testa portava un cappello a cilindro e sul carro trasportava un gran numero di bare, affastellate una sull’altra.

Smontò e si diresse verso il saloon, portandosi dietro una bara di piccolo formato.

«Vedi... il whisky non muore mai...», Elmira sghignazzava tranquilla, seduta a un tavolo, attaccata alla bottiglia, il liquore che le colava fra le tette grasse, e il giovane davanti a lei con la mandibola abbassata. «Se fai il bravo... passi con me... ho bisogno... di ragazzi con le palle... tu ce l'hai...?», e lo fissò con aria seria. «Vai a vedere chi è...».

«È un beccamorto!».

Annunciato dal giovane bandito, lo sconosciuto fece il suo ingresso nel saloon.

«Fred Waltz, della Waltz & Co., premiata ditta di onoranze funebri, belle signore...».

«Capiti al momento giusto... ma non mettermi fretta... cough... cough...», primi colpi di tosse anche per la messicana.

«Senza fretta, ma prima che puzzino... è il motto della ditta.

E nel frattempo vorrei attirare la vostra attenzione su questo nuovo modello di mia concezione», il becchino si piegò sulla cassa e la scoperchiò. «Vedete... sembra una comune bara... anche piuttosto piccola... ma ha la proprietà di potersi allungare... a seconda delle dimensioni dell’estinto... e poi... ha anche un'altra proprietà...

Quando viene aperta... non rimane vuota a lungo...».

BANG

BANG

BANG

La messicana, insospettita, aveva portato la mano sulla fondina.

Il becchino aveva una colt nascosta in un inserto della bara.

Benché rallentata nei riflessi, sia dal whisky che dal piombo, la messicana riuscì a reagire, alzandosi dal tavolo e scambiando colpi col becchino.

Cessati gli spari, Carson lasciò per un attimo Annette e si avvicinò al beccamorto.

«Signor Ranger... io... sono... cough... un onesto cittadino... cough... un ausiliario… del Giudice...», un cacciatore di taglie, insomma.

Infatti aveva sparato solo a Elmira e a Bill.

«Peccato... hai lasciato un gran piatto.

A me queste carogne non fruttano niente».

«Io... io...».

No, proprio niente.

Quasi tutti i nodi erano venuti al pettine.

La città morta aveva avuto un sussulto di vita.

Le rimanevano da spremere solo le zinne sbottonate della vecchia Annette e la ciccia grassa della Cuerva, prima di rientrare nella tomba.

«Se le visite sono finite, ci facciamo un goccio, ragazze.

La città non vuole morire.

E nemmeno voi, scommetto».

SEMIRAMIS II, L'USURPATRICE

di Salvatore Conte (2024)

«Guardie! A me!», gridò impaurita, sorpresa  mezza nuda nelle sue stanze.

I due sicari, intanto, avanzavano circospetti.

«Voi non oserete… non oserete, vero?!

Io sono Semiramis!», l'Usurpatrice non aveva perso la sua arroganza.

Per tutta risposta, il sicario le vibrò un colpo micidiale, affondandole il gladio nello stomaco!

Aveva osato.

Un grugnito soffocato in gola, gli occhi fuori dalle orbite.

Cercava di trattenere la rabbia e l'impotenza, non voleva lasciare intendere di essere stata colpita a morte.

Rimase in piedi, affrontando la gelida sorpresa.

E tentò di riprendere il controllo della situazione.

«Basta così... cosa volete...», come se pensasse di sopravvivere con una certa facilità al micidiale colpo.

Anche l’altro sicario si mosse, allora.

Prima le mostrò crudelmente la punta del gladio, e poi - eludendo un vano tentativo di bloccare l’arma - gliel'affondò dentro, aprendole la pancia per la seconda volta: «Repetita iuvant».

Aveva osato anche lui.

Un’espressione di sconcertata delusione si dipinse sul volto della Regina.

Semiramis cercò ingobbita il sostegno di una colonna, tentando disperatamente di tamponare il sangue schiumante con le mani pressate sul ventre.

Ma stavolta scelse di stare zitta.

Forse i sicari avevano finito, si sarebbe salvata comunque, due colpi non erano abbastanza per lei.

In effetti gli assassini erano sazi: l’Usurpatrice era stata liquidata.

I colpi di gladio erano micidiali. Semiramis era stata sventrata due volte; e con lei i suoi intrighi, i complotti, l’ambizione di far rivivere Semiramis la Grande.

La morte prematura del marito. I figli di lui che lottano tra loro. Lei che ne approfitta per proclamarsi Reggente, e poi Regina, con il titolo di Semiramis II.

Virile in guerra, molle nella pace. Aveva sconfitto i figliastri, ma si era arresa agli eccessi della depravazione.

Vittima forse del suo stesso titolo, aveva regnato tra sfrenato lusso e folle lussuria.

La città era divisa tra miseria e prosperità, rancore e devozione.

Le strida degli scontri, intanto, la raggiunsero.

Le fazioni erano molteplici.

Alcune erano mobilitate da Roma, che amava partorire clientes.

La longa manus l’aveva raggiunta anche ll’altro capo del mondo.

Semiramis era rimasta sola, ma i suoi nemici erano nemici tra loro. Tutti i cani volevano mordere lo stesso osso.

Il capo della fazione si piegò sull’Usurpatrice, scivolata di schiena lungo la colonna, e le scostò le mani dal ventre.

Sbudellata…

Non occorreva altro.

Lasciò che tutti vedessero e poi l'aiutò a riportare le mani sulla pancia.

Rimase in attesa, lanciando occhiate interrogative ai suoi uomini.

«Finiamola!».

«No… è già morta!».

«Che venga un chirurgo e sia poi giustiziata sulla pubblica piazza!

«Uccidiamola subito!».

«No! Non deve morire come una vacca sventrata per trarre responso!

È un sacrilegio!», ammonì una donna con il velo sul capo.

«Chi sei?», domandò il capo.

«Il mio nome è Zondra».

«Sei una delle sue ancelle?».

«No».

«Va bene… ora non ha importanza chi sei, Zondra.

Occupati di lei. Non ci macchieremo del suo sangue. I miei uomini ti aiuteranno».

Gli eventi, però, precipitavano su sé stessi.

Altre fazioni cercavano di prendere il sopravvento.

Semiramis fu deposta sul suo letto.

La Regina usurpatrice si tenne rannicchiata su un fianco, quasi in posizione fetale. Cercava di prendere tempo. Anche se sapeva, dentro di sé, che le ferite erano inesorabili.

Non fu semplice per Zondra spostarle le mani e osservarne le viscere.

«Cosa dicono... cosa dicono...?!».

«Niente che gli Dei non vogliano».

Correva intanto per la città la fatale notizia.

Semiramis II era stata giustiziata a colpi di gladio.

In breve tempo, dall’odio a lungo malcelato, la massa passò a un latente senso di rimpianto.

Quando trapelò la nuova che la Regina forse era ancora viva, il rimpianto crebbe e divampò come un incendio sospinto da feroce vento.

Intanto, però, la situazione stava precipitando.

Semiramis spirava tra le braccia pietose di Zondra, incredula di non riuscire più a gestirsi e di vedersi sfuggire la salvezza: la bocca spalancata come quella d’un pesce spiaggiato, la lingua di fuori, gli occhi vitrei che puntavano il soffitto della camera.

Semiramis era una donna potente.

Ma il ferro era fatale, il gladio non perdona; e quando era necessario, repetita iuvant, dicevano i sicari. Avevano infatti osato due volte.

La folla fece irruzione nella stanza. Finalmente l’avevano trovata!

Urla, eccitazione, schiamazzi convulsi.

Zondra temette il peggio.

In realtà, però, non volevano linciarla, come tante volte minacciato di fare.

C’era commiserazione negli sguardi della plebe.

Semiramis aveva praticamente gli intestini in mano.

«Un chirurgo! Chiamiamo un chirurgo, presto!».

«E un mago! Ma subito!».

«State indietro! La Regina ha bisogno di respirare!», intervenne risoluta Zondra. «Sta cercando di parlare… zitti!».

Si fece silenzio.

«Chi… ha… subito… torto… prenda… il… pugnale… e… mi…sgozzi…».

Tutti si guardarono, ma nessuno si fece avanti con l’arma.

Allora, uno degli astanti mosse avanti con la destra aperta.

«Se tu, Regina, hai subito torto dai presenti, ordina che vengano sgozzati e saranno loro stessi a farlo».

«Che… vivano…».

«Allora vivi anche tu, Regina.

Non è vero?», rivolgendosi a tutti gli altri.

««VERO!»», esplose così l’urlo corale della folla.

««Viva Semiramis II! Viva la Regina! Morte agli assassini!»».

L’ira furente della massa dilagò per i corridoi del palazzo travolgendo tutto, come l’acqua che sfondava una diga.

Tanto può la vista del sangue, di una donna potente, e del sangue versato da una donna tanto potente.

La plebe era letteralmente impazzita.

Benché malamente armata, riuscì a disperdere la fazioni organizzate.

I sicari furono individuati. S’erano infatti vantati del delitto, aspettandosene un gran merito.

Le armi fatali, il gladio dell’uno e dell’altro, furono portate al capezzale della Regina e deposte ai suoi piedi.

La plebe si costituì milizia popolare, presidiando il palazzo e le strade.

Un drappello di messi partì alla volta della città più vicina, con l’intento di chiedere un intervento militare a garanzia della sovrana legittima.

Così cambiano le cose per volontà popolare.

Furono fatti venire otto cavalli sulla pubblica piazza.

Possenti e sfrenati.

Ciascun arto dei sicari fu legato a un cavallo.

I cavalli furono frustati.

E vennero cani affamati sui moncherini dei due sventurati e sui loro quarti.

Tanto possono la crudeltà popolare e la rabbia furente della massa.

La Regina, intanto, veniva assistita dai migliori chirurghi e dai maghi più potenti della città.

Ciò che più di tutto forse la persuadeva – se non a vivere, almeno a non morire – erano i voti dei sudditi che accorrevano incessanti a baciarle i piedi.

Zondra annunciò il responso delle viscere: mai nessun gladio – presente o futuro – avrebbe vinto sul sangue di Semiramis.

Né avrebbe mai spento una Regina persiana.

LUST BEYOND DUST

di Salvatore Conte (2024)

Sordidamente invischiata nei più loschi traffici di Tucson, Chiquita Mendez era la locandiera più famosa della città.

Scaltra, imponente e senza scrupoli, sapeva come dominare gli uomini e servirsi di loro.

In quel frangente, la Mendez si era associata ad Abel Wood e Rosie Velez, due squallidi avventurieri intenzionati a ritrovare una vecchia cassa nascosta nel deserto; uno era di passaggio nel suo hotel di periferia, rifugio di battone e depravati, l’altro di servizio.

Era una cassa con tanto oro dentro.

Una cassa che faceva gola anche allo Sceriffo.

Una cassa nascosta nel solito posto, sotto terra, in una fossa senza il morto.

Le fosse, però, sono tante.

Non era facile trovare quella giusta.

Sembrava una trama da appendice omaggio del Tucson Chronicle, ma non per questo meno letale o intrigante.

Le cose si complicarono ulteriormente, fino a precipitare, quando Rosie divenne geloso di Chiquita.

Abel non faceva troppe distinzioni e loro se la giocavano alla pari.

La tomba senza il morto fu trovata, l'oro scavato facile.

A quel punto il gioco si fece scoperto.

E su tutti aleggiava il vecchio proverbio di quelle parti...

Velez non esitò a puntare la colt contro Wood, minacciandolo pesantemente.

Chiquita cercò di farlo ragionare, avanzando lentamente verso di lui, interponendosi tracotante fra la canna della pistola e l'uomo dietro di lei.

Era sempre molto sicura di sé. Si considerava intoccabile.

Seducente, torbida, imponente, grassa al punto giusto, prestigiosa, sbottonata e scosciata; come in quel momento, nel suo camicione a tunica di rara lavorazione, che le conferiva importanza.

Una colt nel pugno completava l'aggressivo look.

Chiquita sapeva sparare molto bene.

BANG

Rosie Velez, però, fece fuoco senza farsi intimorire!

Chiquita Mendez venne raggiunta in pieno stomaco!

«Ohh...! Oh...!!», un’esclamazione insistita, quasi indignata.

Qualcosa era andato storto.

Non se l’aspettava…

Ora aveva un tunnel nella pancia!

Con un perdurante sbigottimento sul volto, sorpresa dagli eventi, la procace locandiera traballò sulle gambe, perse l’equilibrio e stramazzò nella polvere.

Abel Wood non poté fare nulla per lei, tutto si era svolto nello spazio di un fulminante colpo calibro 45.

Velez aveva ottenuto il suo scopo, ora voleva anche l’oro.

Riprese a minacciare Wood dal punto in cui era stata interrotto.

Manteneva la colt spianata contro di lui.

BANG

Il colpo, stavolta, partì dalla pistola di Chiquita Mendez, che da terra ebbe un sussulto e cercò di vendicarsi.

BANG

BANG

BANG

BANG

BANG

La reazione di Rosie Velez fu spietata: indispettito dalla resistenza della rivale, le scaricò addosso la colt, facendola sobbalzare più volte in rapidissima successione: fremiti convulsi da tarantolata, occhi sbarrati e quasi eccitati!

Più che spaventata la Mendez sembrava indifferente, come se un improvviso delirio di onnipotenza la spingesse a sfidare il destino e a mostrarsi indistruttibile.

Eppure Rosie fece girare l’intero tamburo, sparò fino all'ultima pallottola!

Però Chiquita, in quel momento, sembrava in grado di assorbire qualunque numero di colpi.

Non si era scomposta più di tanto, giacendo a terra come un comune cadavere, sia pure di bell'aspetto.

Abel fu preso dalla lussuria della tomba.

Non vedeva l'ora di scuoterla, viva o morta.

D'altra parte, la pioggia di piombo che la bellona si era attirata addosso gli offriva una ghiotta occasione.

Abel Wood poteva sparare a colpo sicuro, forte del fatto che Rosie Velez avesse scaricato la colt…

SZOCK

«Uuugh…!».

TUMB

Giù di sasso, stecchito.

Neanche quella circostanza fu sufficiente a salvarlo.

Velez aveva finito le pallottole, ma non i coltelli.

Si avvicinò a Wood, sovrastandone il corpo.

«Mi avevi già stancato… idiota…

La pallottola di quella puttana non mi ha fatto neanche il solletico e tu eri più lento di un cadavere».

Rosie Velez si era liberato di due scomodi complici.

Un mediocre pistolero che si credeva uno stallone, buono forse per una squallida storia d'appendice, ma fuori ruolo in una scena da Far West, e una bella vacca che si credeva furba, brava senz'altro come mignotta, ma perfetta nel ruolo della fatalona destinata a rimanere uccisa.

Stava per andarsene, padrone di tutto l’oro, quando notò muoversi le gambe di Chiquita.

Gli spasmi dell’agonia la costringevano a convulsioni involontarie.

Lo sguardo spento della locandiera vagheggiò sulla mastodontica sagoma di Velez, torreggiante al suo capezzale.

Chiquita temeva di essere liquidata senza pietà. Non avrebbe retto altre pallottole. Preferiva agonizzare.

«Mai mettersi davanti a una colt 45, avresti dovuto saperlo».

Chiquita cercò di parlare, ma si rese conto che non era affatto facile.

Velez si piegò su di lei e le asciugò la bocca, impastata di sangue.

{Lasciami… tentare… Rosie… non... mi… fottere…}, con la lingua attaccata al palato, quasi incomprensibile.

Cercava disperatamente di non farsi liquidare.

«Ti ho già fottuto e strafottuto, Chiquita; dovresti saperlo».

{Lo so... ma io… voglio... provarci…}.

«Dicono tutti così.

Fai come ti pare, non cambierà niente».

Il pallore funesto che l'aveva scolorita e le convulsioni innaturali che la scuotevano lasciavano presagire un’agonia balorda.

Si portò gli avambracci sui buchi, con un gesto simile a quello di una donna nuda che nasconda pudicamente i seni.

Velez caricò l'oro sul cavallo, montò in sella e partì adagio, a causa del lussuoso fardello che si aggiungeva al suo enorme culo.

La Mendez, in quel momento, si lusingò di essere ancora viva.

Ostentò a sé stessa la sua prorompente scollatura.

Era un modo per crederci.

Stava crepando per un pistolero che s’era fatto ammazzare da una colt scarica.

Era una fine da stupida, ma l’unica su cui lavorare.

Gli occhi di Chiquita puntavano al cielo, in cerca di qualche auspicio.

Fu dalla terra, però, che provenne un ovattato tremore.

Lo Sceriffo di Tucson, Bill Jones, giunse al galoppo sulla scena della sparatoria, individuando immediatamente i corpi.

Per Abel Wood non c’era più niente da fare. Un coltello gli aveva spaccato il cuore.

Per Chiquita Mendez c’era poco da fare. Era stata imbottita di piombo.

Lo Sceriffo Jones non si aspettava di ritrovarla in quelle condizioni. La famosa locandiera lo faceva impazzire da tempo, insieme a mezza Tucson.

Le asciugò il labbro e la fece bere, lentamente.

Decise di non muoverla, e con l’aiuto dei suoi uomini, le montò intorno un riparo per proteggerla dal sole.

Non le tamponò i buchi, perché il sangue si stava già seccando.

«Ho fatto chiamare tutti i dottori del mondo, Chiquita.

Ce la fai a dirmi com'è andata?».

{Rosie... Velez... mi ha... sparato... addosso... e... ha fottuto... anche... Abel... però... io... l'ho ferito... potrebbe... avere... problemi...}.

«Lo prenderò, stai tranquilla.

E l'oro... c'era...?».

{C'era... tanto...}.

«Basta così, Chiquita.

Il dottore arriverà presto», e la guardò con un certo raccapriccio, mentre lei se ne stava tutta rattrappita - come se qualcuno volesse portarla via  a forza - gli occhi sbarrati, le mascelle strette e le dita che si articolavano sulla pancia scavata dalle pallottole, quasi a studiare cosa stesse succedendo dentro.

Non appena uno dei vice di Jones fece ritorno in città, subito si sparse la notizia che Chiquita Mendez, la famosa locandiera di Tucson, era stata coinvolta in una sparatoria, rimanendo uccisa (!).

Il Tucson Chronicle aveva già l’inchiostro in canna per un titolo shock:

CHIQUITA MENDEZ È RIMASTA UCCISA !

La nota locandiera di Tucson ha perso la vita in una furiosa sparatoria.

Vani i soccorsi. Lo Sceriffo riporterà in città il corpo.

Adeguatamente sbagliato, come tutti i titoli di giornale.

Chiquita Mendez era un personaggio a Tucson e in tutta l'Arizona, e la sua morte avrebbe fatto scalpore.

Ben presto giunsero sul posto il dottore e un fotoreporter; ma non mancavano curiosi e affezionati clienti dell’hotel, desiderosi di rivedere il corpo della procace locandiera.

Doc Red la imbottì di stimolanti per allungarle la vita e aiutarla a soffrire.

Il reporter la ritrasse avidamente, ormai cadavere, ma sempre scollacciata e in carne; poi ritornò di corsa in città per far pubblicare le foto.

Per il Chronicle si profilava un autentico scoop:

FIATO SOSPESO !

La signora Chiquita Mendez, leggendaria locandiera di Tucson,

è rimasta ferita a morte in una furiosa sparatoria.

In esclusiva le foto dei disperati soccorsi e della tragica suspense.

Fin troppo corretto, per un titolo di giornale.

L’ansia montava febbrile intorno alla locandiera morente.

Si attendeva il momento fatale.

{Bill... io e te... faremo... una... bella... coppia...}.

«Che senso ha parlarne adesso, Chiquita?

Non posso nemmeno allontanarmi per una pisciata, o rischio di ritrovarti cadavere...

Smettila con queste dita...», le prese la mano e la strinse nella sua.

«Bill... va' pure... a pisciare... tranquillo...», la voce si era schiarita.

«Sicura?».

«Sicura...».

Spazientito, il Direttore del Chronicle decise il seguente titolo:

LA MENDEZ STRINGE I DENTI !

Il corpo della possente locandiera rientrerà in città a breve.

La famosa signora, nel mezzo di una travagliata agonia,

cerca di raggiungere il proprio letto, tra il delirio febbrile di mezza Tucson.

IL DILETTANTE

di Salvatore Conte (2024)

Dopo una lunga fuga, ero rimasto da solo a fare da tappo.

La pressione, comunque, si era allentata.

Rimanevano in sella soltanto Jesus Raza, il duro, il capo, ferito a una gamba, ma ancora pericoloso, e la sua scaltra compañera, la possente Chiquita Mendez, esperta bandita-guerrigliera, sempre fortunata negli scontri a fuoco.

I miei si erano portati dietro la Signora Grant, il pomo della discordia di questa brutta storia.

A vederla sembrava soltanto una grossa puttana, ma in più doveva essere ambiziosa, se aveva cercato di crearsi un centro di potere in Messico.

Il suo rapimento, o presunto tale, aveva spinto il Signor Grant a rivolgersi a dei professionisti. Ed era scoppiata una vera e propria guerra.

Perché i rapitori erano una banda di guerriglieri messicani, o presunti tali, che tra una rapina e un rapimento si occupavano di Rivoluzione.

Fu così che finimmo in Messico, nel ventre della Sierra Madre.

E a me toccava fare da tappo.

Raza non voleva mollare e perciò dovevo aspettarmi il suo colpo di coda.

Un nugolo di sabbia prese a correre verso di me.

Qualcuno stava sollevando un polverone. E le possibilità erano soltanto due: Raza o Chiquita; o entrambi.

Forse erano tre, ma in quel momento non avevo tempo per i calcoli.

BANG

Risposi a un mucchio di spari mirando secco alla nuvola di polvere.

«Urghh…», un grido soffocato.

THUD

E un tonfo sordo.

Calata la polvere, vidi Chiquita a terra.

Era stata disarcionata. La fortuna le aveva voltato le spalle.

Sembrava proprio che l’avessi colpita.

Fatto stava che Chiquita era finita con la faccia nella sabbia e che da lì non si muoveva più.

«Raza…!».

«Sei ancora vivo, gringo?».

Tanto mi bastò. La voce era lontana.

Corsi verso di lei, uscendo allo scoperto.

La voltai supina e capii che non stava fingendo: aveva un buco da mezzo dollaro sullo stomaco…!

Stavo per attaccarla alla borraccia del whisky, quando mi ritrovai una colt alla gola.

Sembrava tramortita e invece era vitale e pericolosa…

Mi fissò negli occhi.

CLIC

Aveva premuto il grilletto!

Ma la pistola era scarica.

Non avevo tenuto il conto.

Avrei potuto evitarmi un salto al cuore.

«Hai avuto paura...?».

Un attimo dopo gettò lo sguardo sul buco e si impennò.

«Cristo... non voglio morire... gringo... aiutami... troviamo un accordo...».

«Bevi questo, Chiquita...».

Si attaccò al whisky.

«Ti ricordi… ancora… il mio nome…».

«Anche il resto, baby...».

Diedi un sorso anch’io, la sollevai in braccio e mi portai al riparo di un costone.

La appoggiai di schiena contro il masso.

La Mendez si teneva lo stomaco con una mano sull'altra, ben sapendo che quella ferita avrebbe potuto uccidere anche una come lei.

«So quello che mi aspetta… ma la porterò... alle lunghe... Burt...».

«Non sarà piacevole, Chiquita».

«Tu pensa alla tua pelle... io... ho solo bisogno... di tequila...».

«Spero che il whisky ti faccia bene lo stesso».

E le allungai la borraccia.

Riuscì a bere da sola. Era una dura.

«Ehi, gringo! L’hai accoppata la pupa?», era la voce di Raza.

«Ha un buco in corpo, ma è viva e vuole restarci!».

«Perché non te la tieni e mi ridai ciò che è mio?!».

«Perché sono un professionista!».

«Vaffanculo, gringo!».

Questo dialogo era concluso.

«Ti sei buttata all’assalto come una loca, Chiquita…».

«Ero sicura... di fregarti...».

«E ti sei giocata la pelle per un caprone come Raza?

Una bella donna come te...».

Le mie parole la pizzicarono.

Abbassò gli occhi sulla ferita, allargò le mani, e li rialzò arrabbiata come una pantera affamata.

«Lui… ama la yankee…», mormorò la messicana, quasi vergognandosene.

«E la yankee?».

«Ama lui…».

Ora non avevo più dubbi.

Proprio come nella vecchia storia di Elena, dunque: il cornuto che faceva passare per rapimento quella che era una fuga d’amore.

In quel mentre, Chiquita vomitò un fiotto di sangue.

La faccia della messicana si indurì, gli occhi guizzarono allarmati, la donna aveva paura.

«Burt... se continua così… non andrò tanto per le lunghe...».

«È meglio se ti fai un altro goccio, Chiquita».

Stavolta l'aiutai a bere.

Ma non se ne giovò molto.

Mi guardò con aria interrogativa e quasi nello stesso momento prese a scivolare lungo il fianco, finendo a faccia in giù nella sabbia; le mani rimasero sotto il corpo.

Si stava spremendo a fondo, pur di non cedere del tutto, ma sapeva di aver perso il controllo della situazione.

«Burt... aiutami...».

Già… ma come?

«Non ho mirato, Chiquita. Non avevo intenzione di ucciderti.

Ho sparato a una nuvola di polvere», era l’ultima occasione che avevo per spiegarglielo.

Uno strepito di cavalli giunse a sbloccare la snervante impasse.

I miei erano tornati. Con loro c’era Mister Menelao Grant.

Lo scambio non era ancora avvenuto. Forse le rimostranze di Elena avevano prevalso.

La Signora Grant notò Chiquita a terra e scattò verso di lei.

«Dov’è Raza?».

«È vivo e nei paraggi, tranquillizzatevi».

«Chi è stato?», domandò perentoria, alludendo a Chiquita.

Non c’erano molte alternative.

Sembrava sinceramente preoccupata.

Si piegò sulla messicana e la voltò supina, cercando di individuare l’origine del problema.

Non ci volle molto: allargò la mano di Chiquita e il buco sullo stomaco comparve eloquente.

Ripiegò sulla ferita la mano della guerrigliera, voltandosi verso di me in attesa di spiegazioni.

«Mi è piombata addosso all’improvviso…

Non ho avuto il tempo di mirare…

Voi siete amiche, nonostante tutto?».

«Tutto cosa? Noi siamo compagne di lotta… ci battiamo contro il corrotto Governo del Messico, che è appoggiato da quello nord-americano… cioè il nostro, Mister Lancaster».

«Debbo quindi riconsegnarvi a vostro marito, o preferite il bandito messicano?».

«Jesus Raza non è un bandito, ve l’ho detto, è il capo di una legittima rivolta, è la voce del popolo messicano oppresso.

E comunque io voglio lui».

«Così sia, allora».

«Dite sul serio?».

«Dico sul serio».

«Mio marito non la prenderà bene».

«Lo so.

Questo è affar mio».

«Aspettate… voglio fare qualcosa per lei».

«Cosa?».

Le stava tamponando la ferita, con inutile zelo.

«Non lo so, qualcosa…».

«Allora fatela… io intanto vado a tener buono vostro marito».

Mi lasciai alle spalle la messicana morente, ma dopo tre passi fui interrotto.

«Ahh!», era l’ex Signora Grant.

Vidi lo scorpione azzurro scivolare via.

«State tranquilla, è innocuo.

Vi ha punto?».

«Non me…», diresse lo sguardo verso il collo di Chiquita.

In effetti c’era un segno: era stata pizzicata.

«Non se n’è nemmeno accorta, purtroppo.

Comunque lo scorpione azzurro è innocuo, anzi gli sciamani dicono che sia in grado di curare molte malattie».

«Magra consolazione, Mister Lancaster».

Mister Grant non ebbe il coraggio di sfidarci, dovette accettare la cosa e mandare giù il rospo.

«Mhh… erghh…», un rantolo, una bavetta bianca sbrodolata dal labbro, insieme a un grumo di sangue; il volto mortalmente pallido, ma gli occhi vispi.

Chiquita non aveva ancora mollato, anzi premeva con più forza sul buco e si mordeva il labbro.

Fatto fu che la coricai sul carro di Grant e la riportai indietro con noi.

In fondo era stato uno scambio alla pari.

Un pensiero su Chiquita, a quel punto, mi sorse spontaneo.

Superata la frontiera, la portai da un dottore.

Menzionai l’episodio dello scorpione e gli feci notare il segno della puntura.

Il dottore rise.

Per lui la pallottola non aveva colpito organi vitali.

Per lui la messicana aveva semplicemente avuto fortuna.

Compresi in quel momento che un professionista come me stava parlando a un dilettante.

In ogni caso, era stato proprio un bel colpo di coda, da parte di entrambi.

SBOTTONATA CALIBRO 9

di Giorgio Scerbanenco e Salvatore Conte (1969-2024)

«Sono americani», pensò il conducente dell'autopubblica numero 237, fermo al rosso del semaforo dietro il Duomo, ammesso che sotto quel diluvio di acqua e quello sporcume di aria si potesse distinguere che quello era il Duomo di Milano. «La donna però è italiana», pensò ancora, perché il rosso del semaforo gli permetteva di pensare, e comunque non era una constatazione molto profonda, perché i due uomini che aveva raccattato all'aeroporto parlavano soltanto in inglese, e la donna che era con loro parlava anche lei inglese, ma con accento più di Ferrara che di Oxford, e lui, il conducente dell'autopubblica numero 237, aveva sentito nell'inglese della donna la cantata natia e aveva riconosciuto così gente della sua stirpe, perché lui pure era di Ferrara e avrebbe voluto domandare alla donna se era davvero di Ferrara, ma non si potevano fare domande ai passeggeri.
«E poi sono due pesi massimi», pensò, nello stesso istante che venne il verde e insieme scattò, di fianco al Duomo, e anche questa non era una profonda constatazione: i due ci stavano appena nella seicento, stavano con la loro testa rapata, da marines, un po' curva per non sbatterla contro il tetto della vettura e sorridevano gentili a tutto, con enormi denti da alligatori, sorridevano alla donna, sorridevano al Duomo sotto le raffiche di pioggia, sorridevano ai portici della Rinascente e ai manichini in vetrina, e avevano in tasca, ciascuno, così sorridenti, una Steik calibro 9, con proiettili dirompenti, il che vuol dire che non importa dove il proiettile arrivi, basta che arrivi, anche al polso, e voi saltate in aria come vi avessero acceso una bomba sotto la sedia, e sette ore prima erano a New York e ricevevano in consegna le due Steik, e poi all'aeroporto avevano trovato il donnone ferrarese che li guidava adesso all'Hotel Duomo.

«The best hotel in the city», aveva detto e ripetuto ai due la donna, in un camicione rosa sbottonato fino allo stomaco e portato fuori dai pantaloni, così, forse per farsi notare, e i due sorridevano e assentivano; e sorrisero anche al portiere dell'albergo che arrivò col grande ombrello grigio a ripararli dalla pioggia e che pensò subito: «Sono americani», perché anche un lattante, vedendoli, avrebbe pensato che erano americani, e infatti lo erano, e Leo aveva insistito a New York: «Cari cuccioloni, l'americano che hanno in mente in Italia è un tipo come voi, e per questo vi ho scelto, e vi vestirò proprio da americani, non devono aver dubbi che non siate americani, chiunque, anche i gatti di Milano devono vedere che siete di qui, o meglio texani, fate finta di bere molto, sorridete sempre come foste sempre un po' sbronzi, ma non mettete i piedi sulla tavola, in Italia non lo sopportano, e non masticate gomma, per gli italiani la gomma la masticano gli americani volgari, ma, soprattutto», aveva spiegato Leo, «sparate bene a vista, all'americana, da gangster, e del resto lo siete, appena avrete riconosciuto questo brutto grugno», e aveva svolto la fotografia arrotolata, formato quotidiano, ingrandita al punto da poter contare, volendo, i peli della barba. «Si chiama Giordano, non so altro, ma appena lo trovate e siete sicuri che è lui, sparate, perché è molto svelto anche lui, e non scherza neppure lui, sparate e distruggetelo in qualunque luogo vi troviate, anche in mezzo a una piazza piena di folla, non me ne importa se la polizia italiana vi prenderà, in poco tempo vi tiro fuori io, state tranquilli, e ricordatevi che questa è una Steik calibro 9 con proiettili dirompenti: serve solo per ammazzare, non per ferire».

I due entrarono nell'albergo mentre i valletti prendevano subito le loro bellissime sacche pensando: «È roba americana», e il segretario che li aveva visti entrare, era impossibile non vederli, il più piccolo doveva essere alto uno e novanta, disse al collega che era vicino a lui: «Sono i due americani del volo 32 da New York, le stanze sono la 114 e la 116».
L'anglo-ferrarese, dopo aver chiuso un bottone, arrivò davanti alla segreteria e disse in italo-ferrarese: «Ho prenotato due stanze comunicanti, per i signori Dawer e Skeinerberg».
«Sì, signora, sono la 114 e la 116»; quindi si rivolse, in inglese, ai due: «Prego, i valletti vi accompagneranno.

Spero che le stanze siano di vostro gradimento».
I due sorrisero coi loro grandi denti da alligatori e seguirono i valletti e il culo pesante dell'anglo-ferrarese.

«Fate capire che vi piacciono le donne, quello è un ruffiano che procura le ragazze nei locali notturni. Cercate sempre donne, affamati, e troverete lui. Si chiama Giordano».
Non erano proprio affamati, ma avevano una certa propensione per le donne e non avrebbero faticato molto a manifestarla pubblicamente.

Le due stanze comunicanti avevano entrambe il letto matrimoniale.

I ragazzi erano nella stanza vicina, mentre la donna stava per entrare in bagno; in quel momento la chiamarono.
«Anna!».
«Sì?», rispose la donna.

Li raggiunse nella loro stanza, stavano davanti alla finestra, che avevano aperto, e così si udiva la pioggia scrosciante, turbinosa, che dal mattino allagava Milano.
«Che cos'è quello?», indicò fuori della finestra, lui, Frank Dawer.
«È la statua della Madonna, posta in cima alla guglia più alta del Duomo di Milano. I milanesi la chiamano la Madonnina».
«È sempre illuminata?», domandò lui, David Skeinerberg.
«Sì, tutta la notte», confermò Anna.
«Molto bene, molto, molto bene, chissà come sarebbe piaciuta a mia madre», disse Frank.
Guardarono un poco, tutti e tre, attraverso il niagara di pioggia, la dorata, luminosa statua sacra, poi, lui, David, chiuse la finestra, e intanto disse: «Ecco, ora facciamo una doccia, Anna; poi tu ordini del whisky, hanno il J&B?».
«Qui hanno più marche di whisky che nel miglior bar della tua piccola New York», disse lei, con orgoglio ferrarese e ambrosiano insieme.
I ragazzi risero, piano, non rumorosamente, risero da americani signori, come Leo aveva loro insegnato.
«Molto bene, molto, molto bene», disse Frank, «fai portare il whisky perché
prima di pranzo dobbiamo parlarti un poco.

Come si dice in italiano "honey", a una donna?».
«Si dice in molti modi, ma il più semplice è "tesoro".

Ma perché lo vuoi sapere?», domandò Anna.
«Per dirlo a te, prima di tutto, poi per dirlo alle ragazze per la strada».

«Oh, spiritosi...», e se ne andò.

Allora i due cominciarono a spogliarsi, buttando gli abiti sul vasto letto sontuoso e, arrivati agli slip e alla pancera, si fermarono e andarono insieme in bagno.
«Comincia tu la doccia», disse Frank, era il più alto, intorno ai due metri.
David si tolse gli slip, poi, con soddisfazione, affondò la mano nella tasca della pancera e tirò fuori la Steik calibro 9.

«Cominciava a darmi un po' di fastidio».

La posò delicato sul tavolino di marmo verde, si sfilò la pancera, ed entrò sotto l'ombrellino della doccia.
«Io intanto mi faccio la barba», disse Frank; si tolse anche lui gli slip e anche lui, con soddisfazione, levò la Steik dalla tasca segreta della pancera.
Da sotto la doccia venne la voce spumeggiante di David: «Frank, sai quanto danno in Italia per un omicidio?».
«Niente pena di morte», disse Frank, «sono morbidi, qui. Per il genere di omicidio che abbiamo in mente noi, credo il carcere a vita, ma Leo ci tira fuori, non facciamo neppure un anno».
«Leo è imbattibile», spumeggiò David da sotto la doccia.
Sì, Leo era imbattibile, pensò Frank davanti allo specchio, radendosi, ma bisognava fare esattamente quello che voleva e ricordarsi bene le sue parole: «Senti, Frank, senti, David, guardate bene questa fotografia, questo è l'uomo che ci ha distrutto la base di Milano. Noi avevamo una mezza dozzina di amici, aggregati agli amici di Roma, erano la nostra squadra italiana, ci trovavano le ragazze e ce le inviavano. Questo brutto grugno della foto li ha venduti tutti e sei alla polizia, uno per volta, piano piano; un amico è accorso a Milano dalla Francia per scoprire lo spione, ma ha fatto in tempo a spedirmi solo la fotografia e a dirmi che si chiamava Giordano, poi non ne abbiamo saputo più nulla. Sarà stato denunziato anche lui, o ucciso. Guardate bene questa fotografia: finché quest'uomo gira per Milano o Roma, non potremo più lavorare in Italia. Non deve più girare: fatelo scoppiare con le Steik».
«Chiudete almeno la porta del bagno, bestioni», disse Anna. «Mi sembra di essere una del circo che porta in giro due elefanti».
«Cosa volevi?», educatamente, signorilmente, disse David.
«Volevo dirvi che è arrivato il whisky, e come lo volete».
«Nudo», disse Frank, uscendo dalla doccia. David rise. «Nudo come noi».
Anna aprì di colpo la porta del bagno ed entrò.

«Cosa sono queste cose?», disse, indicando le Steik sul tavolino di marmo verde.
«Non sono cose che ti riguardino», disse Frank. «E non toccarle... tocca questi...».
Frank e David la guardarono uscire dal bagno, con simpatia.

Leo era imbattibile anche in questo: aveva trovato in Italia il contatto giusto, quella donna, Anna... si capiva che aveva le due qualità necessarie, era tanto bona e tanto zoccola.

Usciti dal bagno, sedettero intorno al basso tavolino su cui era la bottiglia di J&B, la coppa di cristallo piena di ghiaccio, e davanti era seduta Anna e bevendo la guardavano.

E per un po' la guardarono senza parlare e bevendo, poi Frank disse: «Ci hanno detto, a New York, che ti chiami Anna Galliani, detta "la Sbottonata".

Si può tradurre con "the Unfastened"?».

«Penso di sì, ma non suona altrettanto bene».

«Hai ragione...».
I ragazzi sembrarono gradire la lezione di lingua.
«Molto bene», proseguì Frank, «sei la Sbottonata e hai quarantacinque anni».
«Non quarantacinque», disse Anna. «Sono cinquantadue. È una bugia che ho
detto ai vostri amici di New York. Mi dispiace».
«Non ti preoccupare, Anna», disse Frank. «Non ce ne importa niente degli anni, del resto ne dimostri quaranta soltanto».

«Grazie, sei molto gentile», rispose la donna.

«Ci hanno detto che lavori in un salone di bellezza», disse David.
«Non è esattamente un salone di bellezza», ammise Anna. «Voi capite cosa è, e io sono una delle massaggiatrici, diciamo così. Ma sono sola e non so fare altro».
I ragazzi la guardarono con simpatia.

Frank disse: «Ci hanno detto che prima facevi l'entraîneuse e che conosci bene "Milan by night"».
«Non l'entraîneuse», replicò Anna, che doveva avere la mania della contraddizione, «facevo la ruffiana e la zoccola, come adesso, ma i locali notturni li conosco bene, tutti».
Simpatica, molto simpatica, pensò Frank, gli piaceva la gente che usava le parole giuste.

«Ci hanno detto che hai già avuto cinquecento dollari per aiutarci, e te ne daremo noi altri mille alla fine del lavoro».

«Sì, grazie.

Che lavoro è?».

Frank disse a David: «Vai a prendere la fotografia».

Poi si rivolse ad Anna: «Noi siamo venuti qui a Milano per parlare con una certa persona di cui conosciamo soltanto il volto, attraverso una fotografia, e il nome».
«Milano è grande», rispose Anna. «Sarà un po' difficile trovare questa persona».

«Sappiamo qualche altra piccola cosa», continuò Frank, «che è uno sfruttatore di donne e che vive nell'ambiente dei locali notturni e in tutti i caffè e i bar dove c'è un giro di donne».

«Conosco qualcuno di questi signori», rispose Anna.
«Questa è la fotografia», disse David rientrando dalla stanza, estraendola dal robusto cilindro di cartone e svolgendola davanti a lei, come una tela rara di antico pittore. «Si chiama Giordano».
Anna guardò il grifagno e bastardo volto della fotografia.

«Ce ne sono tanti. Questo non lo conosco, ma non credo che sia difficile trovarlo.
Volete cominciare subito, questa sera stessa?».
«Subito, Anna», si alzarono tutti e due, quasi militarmente.
«Va bene, allora noleggio l'auto».
«Brava, vogliamo la macchina più vistosa e più grande che esista in questo piccolo borgo», disse David.

Lei andò al telefono, parlò con la segretaria e dopo qualche minuto disse: «Hanno un'Impala color argento, vi va bene?».

Loro assentirono. Anna depose il ricevitore, andò verso di loro e per un istante li fissò in silenzio.

«Che cosa avete da dire a questo Giordano, se lo troviamo?».
Frank levò il pacchetto delle sigarette dal tascone della giacca, e se ne accese una.

«Anna, tu sei una brava donna, e dovresti essere così brava da capire che meno domande si fanno e meglio è».
«Siete venuti a parlargli con quelle due rivoltelle, l'ho capito benissimo», disse Anna, e andò a infilarsi l'impermeabile. «Non me ne importa niente di stare con due ammazza-ammazza come voi. Io sono una donna finita».

Aprì seccamente la porta: «Andiamo, bestioni».

L'Impala arrivò quasi subito, sotto la pioggia favolosa sembrava ancora più fantascientifica, così argentea, schiacciata, aveva più del disco volante che dell'auto.

Anna disse: «È una macchina che adoperano solo per gli sposalizi».
«Allora siamo sposi», disse Frank, che si era messo al volante e accanto a lui c'era Anna.
«Vai piano, stai attento a quello che ti dico io, guidare a Milano non è facile come a New York», lo avvisò la donna. «Vai diritto, poi volta a destra».
Sotto quella pioggia, anche Piazza del Duomo era quasi deserta.
«Volta ancora a destra.

Piano, dai la precedenza al tram, ecco, questa è Piazza della Scala, gira a destra e poi subito a sinistra.

Stai sulla destra per girare subito a destra.

Adesso fermati lì, sali sul marciapiedi, con le ruote di destra, come le altre macchine davanti a te, ecco qui, bravo.

Prima di scendere aspetta che ti spiego, questo è il primo posto dove vi porto perché è una specie di concentrato. Qui si entra alla Galleria Manzoni, dove ci sono molte cose: c'è un piccolo bar dove beviamo l'aperitivo, poi c'è
un ristorante molto fine dove andremo a cena, poi c'è il cinema e il teatro Manzoni, e infine c'è il locale notturno, si chiama Maxim, danno una specie di spettacolo, adesso andiamo a vedere le fotografie esposte fuori dall'entrata. L'uomo che cercate può girare da queste parti».
«Come prima esplorazione mi sembra molto bene», disse Frank.
Fecero tutto il giro che lei aveva preparato: qualche whisky al piccolo bar, un altro paio al ristorante prima di pranzare. I due ammazza-ammazza mangiarono esattamente come a New York, due hamburger con l'uovo sopra e patate fritte. E intanto guardavano.
«Sparate appena siete sicuri che è lui, non dovete aver paura di fare scandalo, sparate e fuggite, se vi riesce di andare in Svizzera, meglio, là vi ho già detto da che amici dovete andare, se no, pazienza, vi tiro fuori lo stesso, anche se vi mandassero all'inferno in consegna al diavolo. Ma fate chiasso, tutti devono sapere che siete venuti dall'America a far fuori uno sporco ladrone di spia, i giornali devono parlarne almeno per una settimana, in modo che tutti questi sporchi ladroni sappiano che fine faranno se non staranno sull’attenti. Sparate subito e tutto il caricatore; non voglio un ferito: voglio un massacro».
Naturalmente, al ristorante, l'uomo dal naso aquilino chiamato Giordano non c'era, sarebbe stata troppa fortuna incontrarlo così, subito, e allora andarono da Maxim, scesero la scaletta nella luce ombrata, e si ritrovarono nella sala dove, così vistosamente americani, furono accolti come Mac Arthur al ritorno negli Stati Uniti dopo la vittoria sul Giappone, però l'uomo dal naso aquilino non c'era.

In compenso arrivò una spaventosa corazzata bionda - stagionata, ma bene - armata con due pezzi da 90, che si avvicinò al loro tavolo e disse ad Anna: «Se avessi saputo l'inglese, te ne avrei soffiato almeno uno di questi maschioni...».
«Che cosa ha detto?», domandò Frank ad Anna.
«Le rincresce di non sapere l'inglese, dice che se lo avesse saputo, avrebbe sedotto almeno uno di voi».
L'espressione di Frank s'indurì.

«Domandale se conosce Giordano».
«II mio amico vorrebbe sapere se conosci un certo Giordano, che dovrebbe frequentare questi ambienti».
«Se è quello col naso a becco, cerco di starci alla larga, ma purtroppo lo conosco», rispose la corazzata.
«Che cosa ha detto?», domandò Frank.
«Ha detto che se è quello col naso a becco, lo conosce».
«Molto, molto bene, Anna... sei stata brava.

Adesso domandale dove possiamo trovarlo».
«Vogliono sapere dove possono trovarlo».

La biondona alzò le spalle.

«Di solito non si sa mai dove sono, sporcaccioni come quelli, ma se proprio ti preme sei fortunata: adesso è a Roma, ma domani sera deve venire qui a portare due nuove ballerine che è andato a prelevare laggiù.

Dopo le undici, domani sera, puoi stare sicura che te lo vedi arrivare spingendo qui dentro le due ballerine. Io non ci terrei a vederlo, ma ciascuno ha i suoi gusti».
«Che cosa ha detto?», domandò ancora Frank.
«Ha detto che lei non lo frequenta molto, perché è un mascalzone, ma domani dovrebbe capitare proprio qui».
«Bene, bene... è il posto adatto...

Senti, tesoro... anche se non sai l'inglese, per noi va bene uguale...».

A quel punto Frank non poteva lasciarla andare; anche non volendo, avrebbe potuto mettere in allarme il mascalzone.

Per ringraziarla, l'uomo infilò la mano nel camicione sbottonato di Anna.

«Hai fatto centro al primo colpo...», le sussurrò.

«Non voglio morire...», rispose.

«Non morirai».

C'era da capirla. Anna Galliani aveva tanta paura di morire; nonostante non le rimanesse molto da vivere, non si era ancora abituata all'idea.

A una donna potente come lei non veniva spontaneo rassegnarsi.

Anna aveva scoperto un tumore aggressivo troppo tardi.

Cercava di fare soldi fino alla fine per pagarsi gli ultimi giorni in qualche buona clinica.

Ma adesso, osservando Frank che si era alzato e che sorridendo largamente
coi suoi denti da alligatore teneva per un braccio la donna bionda dai grossi seni, si sentiva ancora padrona della situazione.

«Non gridare e fai tutto quello che ti dico io», le disse Frank. «E non mostrare di avere paura, se vuoi vivere.

Sorridi, zoccola...».

L'uomo preferì mettere le cose in chiaro e concludere la commedia, utilizzando termini da italiano avanzato.

«Adesso verrai con noi in albergo, e parliamo un poco.

Se vuoi morire, sai cosa devi fare».

«Non avere paura, fai come ti dice», le sussurrò Anna.

Non volevano morire; lei, la Sbottonata, benché non avesse molto da vivere, perché si sentiva ancora importante; l'altra, la Corazzata, perché non aveva pensato mai a morire, imponente com'era; le piaceva bere, mangiare e trombare, in qualunque ordine; perciò fece esattamente tutto quello che le dissero i due uomini, non gridò, non tentò di fuggire, e dieci minuti dopo si trovò nelle due stanze comunicanti all'Hotel Duomo.
«Le pastiglie», disse Frank a David, «devi averle, tu soffri d'insonnia».
David sorrise e dalla sacca tirò fuori l'astuccio.
«Ecco», disse Frank, «falle capire che non vogliamo avvelenarla: se proprio occorre, noi preferiamo sparare. Voglio soltanto che faccia un buon sonno.

Ecco, brava...», aveva l'abitudine di cominciare i suoi discorsi con "ecco”, Frank, e parlava pacato, per niente minaccioso. «Ora ti spiego quello che succede. Adesso dormi fino a verso le undici di domani, poi fai una bella colazione, poi ti ridò ancora due pastigliette e dormi fino verso le undici di sera.

Allora fai il bagno, mangi qualche panino qui in camera e verso l’una torniamo da Maxime a cercare quel nostro amico.

Tutto qui».

«E io?», domandò curiosa, e un po' spaventata, Anna.

«Tu rimani sveglia, Sbottonata.

Tutta la notte...».

Esattamente tutto accadde come aveva detto Frank, e lo dissero anche i giornali, e verso l'una della sera dopo, due alti americani, rapati quasi a zero, scesero nei morbidi, penombrati, musicali e canori sotterranei dell'elegante locale notturno Maxim, in Galleria Manzoni, accompagnati da due signore che non avevano un aspetto molto vivace, come avessero dormito troppo, o troppo poco, e appena in fondo alla scala incontrarono un uomo molto sfortunato, si chiamava Giordano e aveva il naso aquilino, il quale voleva salire.

Non ebbero bisogno di cercarlo troppo i due americani: se lo trovarono lì.

Frank Dawer e David Skeinerberg non gli domandarono neppure se era proprio lui, Giordano: era la copia esatta della fotografia, e gli scaricarono addosso due colpi per ciascuno, perché Leo non voleva feriti, voleva un massacro pubblicitario a livello internazionale, e quello col naso aquilino si ruppe come un uovo, bloccando la scala coi suoi resti, cosa che ritardò molto la caccia degli assassini, perché nessuno osava scavalcare lo sfasciume di quello che era stato un uomo, per risalire sulla strada e dare l’allarme, e i due, invece, un attimo dopo erano fuori; tenendo elegantemente per il braccio le due signore, ebbero tutto il tempo per salire sull'Impala e mettere in moto, perché le detonazioni dal sotterraneo del Maxim non si erano udite.
«Dicci la strada per Ponte Chiasso, andiamo in Svizzera», disse Frank, al volante, ad Anna, seduta accanto.
Vicino a Como, David allentò la zip della Corazzata e ci ficcò le mani dentro, girando tutto il mappamondo.

«E io?», quasi protestò Anna, temendo per un attimo di perdere la partita.

«Ecco... tu... sto guidando... come faccio a...

Anna... tu sei bona e sei zoccola, queste parole le ho imparate subito, e subito mi sei piaciuta, e perciò non ti faccio scappare. Sei la Sbottonata, d'altronde. The Unfastened. Come adesso...», Anna si era sbottonata per tenerli caldi e docili. «Sei malata, ma non finita. Sei tosta, possente, devi combattere. Da noi almeno guadagnerai tempo, ci sono cure più efficaci di quelle conosciute in questi villaggi; sarai seguita fino alla fine», concluse macabro Frank.

«Io voglio salvarmi», ancora una volta lo contraddisse.

«Ecco, questo è difficile, lo sai. Ma non impossibile, se sei disposta a combattere».

«Lo sono».

«Ecco, partiremo con una terapia d'assalto, per fermare il tumore a tutti i costi. In America usiamo radiazioni controllate per fare questo.

Però mi hanno detto che tu hai l'acqua all'ultimo bottone, Anna; devi saperlo, no?».

«Lo so, ma voglio salvarmi lo stesso».

«Bene, molto bene, molto molto bene...».

In poco tempo, i due ammazza-ammazza, la Sbottonata e la Corazzata erano già all'aeroporto di Zurigo, riuniti a un compare, e di lì a sei ore sarebbero stati a New York.
Perché i piani di Leo erano imbattibili.