La Canzone della Baronessa di Carini La CANZONE DELLA BARONESSA DI CARINI di Salvatore Conte (2024)
1. Piange Palermo, piange Siracusa, a Carini c’è il lutto in ogni casa. Chi portò questa nuova dolorosa, mai pace possa avere alla sua casa. Sento la mente mia così confusa... il cuore gonfia e il sangue stravasa. Vorrei con una canzon lamentosa pianger chi fu colonna a la mia casa: il più bell’astro che rideva in cielo, anima senza manto e senza velo, il più bell’astro del cielo zaffireo, povera Baronessa di Carini!
2. Povera Baronessa di Carini! Se si affacciava parea la luna che luccicava nelle acque marine: l’una dal cielo e l’altra dai balconi. Ricorrevano a lei tutti i meschini, dava riparo a ogni mala fortuna, e le sue genti, lontane e vicine, adoravano tutte la padrona. Ora spaccato è quel felice cuore e dal gran pianger Sicilia ne muore. Sangue la torre e son sangue gli altari, e non ci resta più che il lacrimare. 3. Fiumi, montagne, alberi, piangete, e sole e luna più non vi affacciate; la bella Baronessa che perdete vi apprestava i suoi raggi innamorati. Uccellini dell’aria, che volete? Il vostro amore invano voi cercate. Lente barchette che al lido volgete, le vele tinte a lutto ora spiegate, e tinte a lutto con gramaglie scure, ché perduta è la signora dell’amore. 4. Amore, amore, piangi la sciagura! Quel gran cuore non più ti rasserena, quegli occhi, quella bocca benedetta, oh Dio! Che neppur l’ombra ne rimane. Ma c’è il suo sangue che grida vendetta rosso sul muro, e vendetta ne aspetta; e c’è Chi viene con piedi di piombo, Colui che solo governa sul mondo; e c’è Chi viene con lento cammino, e ti raggiunge, anima di Caino! 5. La tua salma nessun poté infiorare, la tua immagine nessun ha più mirato, né per l’anima tua poté pregare sulla lapide inginocchiato. Povero ingegno mio, mettiti l’ale per dipingere sì nero dolore! Tante lacrime a scrivere e notare, vorrei la mente di Re Salomone. Quella di Salomone vorria, che in fondo mi portò la sorte mia. La mia barchetta fuor del porto resta, senza timone, in mezzo alla tempesta. La mia barchetta resta fuor del porto, la vela rotta e il pilota morto. 2° Canto 1. Attorno del castello di Carini, passa e ripassa un vago cavaliere: il Vernagallo di sangue gentile, che della nobiltà il vanto tiene. Dal far dell’alba fino all’imbrunire, giunge, volta, ritorna, va e viene, s’aggira come l’ape nell’aprile attorno ai fiori per sorbirne il miele. E ora per la piana vi compare montando un baio che vola senz’ale, ora dentro la chiesa lo trovate sfavillando cogli occhi innamorati, ora di notte con un mandolino lo sentite cantare dal giardino. 2. Il giglio fine, che il profumo spande, con grazia avvolto alle sue stesse fronde, vuole sottrarsi agli amorosi affanni e a tante premure non risponde. Egli dice: «Mi hai messo in queste fiamme e a soccorrermi adesso ti confondi? Per quanto ho camminato, le mie gambe sono stanche e il lastrico ne affonda». E sempre più il suo senno s’arrovella, ché ha dinanzi una figura bella. E sempre più il suo senno cede all’aura, ch’ei dice: «Tanto risplendi, donna Laura?». Sempre più il senno perde di valore, ché tutti così domina l’amore. 3. Quel dolce fior nato con gli altri fiori, disbocciava di marzo a poco a poco; aprile e maggio ne godé l’odore e col sole di giugno prese fuoco. Questo gran fuoco a tutte l’ore alluma, alluma a tutte l’ore e non consuma... Questo gran fuoco a due cuori dà vita e a sé li attrae come calamita. 4. Oh! Vita dolce, che null’altra vince! Goderla tutta, al colmo del suo giro! Il sole per il cielo passa e sosta, ai due amanti le stelle fanno ruota. Gradevole catena i cuori stringe, battono tutti e due sopra una nota, è la felicità che lor dipinge ogni cosa d’intorno d’oro e rosa. Ma l’oro fa l’invidia di cento, la rosa è bella e fresca un sol momento. L’oro nel mondo è una schiuma di mare, secca la rosa e disfogliata cade. 3° Canto 1. Il barone da caccia era tornato, «Mi sento stanco, voglio riposare», quando alla porta sua si è presentato un fraticello e gli vuole parlare. Tutta la notte insieme sono stati... lunga conversazione hanno da fare... Gesù e Maria! Che aria annuvolata! Questo della tempesta è il segnale. Il fraticello uscendo sogghignava, e il barone, di sopra, infuriava. Di nuvole la luna s’ammantò, l’assiolo chiurlando svolazzò. Ecco, afferra il barone spada ed elmo: «Vola, cavallo, fuori di Palermo! E voi miei fidi, benché notte sia, venite a le mie spalle in compagnia». 2. Incarnata calava la chiaria sopra la schiena d’Ustica pel mare. La rondinella vola e zinzulia e s’alza per il sole salutare. Ma lo sparviero le rompe la via, che gli artigli si vuole piluccare. Timida in un cantuccio essa si annida, che a mala pena vi si può salvare, e d’affacciarsi non azzarda tanto e più non pensa al suo felice canto. 3. Simil paura e simile terrore ebbe la Baronessa di Carini. Avea seguito, stando sul balcone, l’innamorato, per vederlo ire, e ripensava alle felici ore che avean goduto gli svaghi e i piaceri, con gli occhi al cielo e la mente all’amore, termine estremo d’ogni suo desio... «Vedo venire una cavalleria... Questo è mio padre che viene per me... Vedo arrivare una cavallerizza, questo è mio padre, che viene e m’ammazza. Signore padre, che venite a fare?». «Signora figlia, vi vengo a ammazzare!». 4. «Signore padre, accordatemi un poco il tempo di chiamarmi il confessore».
«Sono sei mesi che la pigli a gioco e ora vai cercando un confessore?
E dette appena sì amare parole: «Tira la spada per spaccare il cuore.
Il primo colpo la donna gemette, all’altro colpo la donna perdette. 5. «Il cuor dissi di tirar!», se ne lamentò il signor padre. «Ella si mosse sui piedi, signor mio…». «La tua mano malferma non volle sfinirla…». «Morte lunga è tormento maggiore, mio signore». 6. Che sconforto per l’anima infelice quando da niuno si vide aiutare! Terrorizzata cercava gli amici, di sala in sala si volea salvare.
Gridava forte: «Aiuto Carinesi!
E disperata: «Cani Carinesi!», l’ultima voce fu che
poté dare. 7. Correte tutti, gente di Carini, or che spenta è la vostra signora. È caduto il giglio che fiorì a Carini, e ne ha colpa un cane traditore. Correte tutti, frati e sacerdoti, portatevela insieme in sepoltura. Correte tutti, paesanelli buoni, portatevela in gran processione: accorrete con una tovaglietta per terger la sua faccia così bella, accorrete con una tovagliola per terger la sua bocca di viola. 4° Canto 1. A due, a tre, fanno crocchio le genti commiserando con petto tremante. Un gran ronzio per la città si sente, mescolato con gemiti e con pianti. «Che mala morte, che morte dolente! Lontana dalla madre e dall’amante!». «È morta come un cane, in men d’un niente, senza poter raccomandarsi ai santi». «C’è chi dice che l’ultimo fiato e l’ultimo dolor sian dentro il petto ancor!». 2. Quando al palazzo giunse la novella, la nonna cadde a terra e trangosciò. Le sorelle strapparonsi i capelli, la sua mammina dagli occhi accecò. Povera madre! Chi gliel’avrà detto? Questo pugnale in cuor chi le piantò? Dentro una notte sua figlia sparì, essa dentro una notte incanutì. Seccarono i garofani alle graste, rimasero deserte le finestre. Il gallo che cantava è ammutolito, sbattendo le alucce è via fuggito. 3. Tutta Sicilia s’è messa a rumore, la novella ha passato pure il mare. Ma nessuno lo dice a don Asturi che la sua amata non può più trovare. Egli, perseguitato dal barone, a Lattarini s’è andato a salvare. E quando lo raggiunge il tormentone, comincia a vaneggiare. «Sepoltura che agghiacci, oh sepoltura, come agghiacciasti tu la sua persona? No, non è morta la persona bella! Vado e la cerco per tutta la terra!». 4. Per istrada incontrò la morte scura: senz’occhi e bocca parlava e vedea, e gli disse: «Ove vai bella figura?». «Cerco chi tanto bene mi volea, Morte, se il bene mio mi fai trovare, ti do uno scrigno pieno di denaro, ti do vestiti di seta e d’argento, se me la fai vedere un sol momento. Morte, e se non vuoi farlo per favore, pigliati pure me con il mio amore, purché una volta ancor l’abbia baciata!». «Non la cercare più, ché per te è sotterrata». 5. «E come s’è deformata nel tempo di un’ora! La faccia fine com’è deformata! Il topo rosicchiò la gola pura, che un giorno di collane era ingemmata. Nido di topi la capigliatura di fiori, un tempo, e di perle adornata; rosicchiate le teneri mani, gli occhi neri che non aveano eguali». «Oh mala sorte, quanto mi sei dura! Nemmen vedere la mia amante amata!». 5° Canto 1. Come la fronda dai venti portata, andava errando per rampe e per rampe. «Caro padrone, mutate contrada, perché i levrieri qui ci stanno ai fianchi». «Fra pietraie e dirupi la mia strada, e già le gambe son lacere e stanche». «Caro padrone, la scena è cambiata, annericaron le nuvole bianche». «Così pure il mio cuore è annericato, e il valor suo l’ha abbandonato. Il mio destin che lontan mi caccia, alla casa di lei chiude la traccia. Chiude il verde della mia speranza, e amor ancora mi brucia e mi strazia». 2. «Diavolo, ti prego in cortesia, fammi la sola grazia che domando: fammi parlare con l’amante mia, pure se nell’inferno io mi condanno». Il Serpe, che passava e lo sentia: «Cavalcami che sono al tuo comando». Con lui scomparve in un’oscura via, e non so dire né il dove né il quando. E non so dire se fu vero o sogno che uomo e demonio lasciarono il mondo; ché il forsennato si sentì portare in un profondo sotto terra e mare. 3. Giunge all’inferno, e mai ci fosse andato! Colmo era, e a stento entrarvi si poteva. C’era il suo Giuda, il monaco dannato, che le perfide carni si cuoceva, messo dentro un paiolo arroventato, come una corda vi si contorceva. Vedendo il vivo, col collo allungato gli disse: «Sei venuto qua con me!». Egli rispose: «Il tempo mai non falla, ché non senza elemosina si campa. Da’ tempo al tempo, poiché ruota è il mondo, s’asciuga il mare e sorge quel ch’è in fondo». 4. «Tu, piuttosto, nel tempo di un’ora sei qui convolato?». «Il Barone venne, vide la moglie senza colore, lo vinse il dolore, e dal petto mi trasse il core!». «Monaco scellerato, che tu per sempre sia dannato!». Dette le tristi parole, il forsennato s’aggira fra la calca infelice, ma all’amata nessun ombra s’addice. 5. Come la fronda dai venti portata, errando va per tutte le rampe. La calca se ne è andata, pochi sui lieti campi pestan le gambe. Giunge d’un tratto l’ombra magna di Re Salomone, e così a lui parla: «Non ti giova metà dell’amata, lascia ai pescator pietosi l’intera tonnata». Così a lui parla, e il Serpe da sotto terra e mare l’orma va a strappare. 6° Canto 1. O castello che il tuo nome hai perduto, lontan ti vedo e fuggo spaventato. Sei messo in lista da capo bandito e da trecento spiriti abitato! Quanto in te avevi di bello è finito, dove stava il tuo sole ora è murato. Alle tue mura il lutto ora è venuto, e nel cuore di quel padre dannato. Padre dannato che non dorme un’ora, e il cielo bestemmia e la natura. «Apriti, cielo, e inghiottimi, terra: fulmine che mi avvampi e mi sotterri! Strappate questo cuore dal mio petto, coltellatemi la notte dentro il letto». 2. Col sospetto negli occhi spalancati, girovagando per le vie deserte, sente la notte dalle ali gelate che gli dice: «La tua pace è sommersa». Lo inseguono gli spiriti dannati con ghigni e con sberleffi. E va e torna, e riposo non trova, perché il suo letto è di spini e di chiodi. E va e torna, e lo caccia un lamento che va dicendo: «Tormento! Tormento!». 3. L’abbattimento alfine lo raggiunge, perfino il sogno l’abbraccia e l’avvince, ma la sua fantasia tormenta e punge, con l’ombre e le fantasme che pinge, come la nebbia che a nebbia si aggiunge e corre e vola e ovunque si sospinge... Vengono e vanno in sogno i lieti giorni, la cara gioventù che più non torna. Vengono e vanno le smanie ardenti, di amori, onori, dominio potente. E poi viene di figli una corona... e gira, gira, è ruota di fortuna. 4. E in quel sogno che non l’abbandona, cerca la figlia sua dov’è fuggita, la figlia che fa invidia alla luna, che pure il sole ha fatto impallidire. E le camere fruga ad una ad una, e solamente l’eco si fa udire. L’eco risponde dagli angoli, or qui, or lì, e par mormori: «Se n’è ita! Se n’è ita!». L’eco triste risponde solamente, e dice: «Che più cerchi? Non c’è niente». «Ah, che un artiglio mi soffoca il cuore! Dov’è, dov’è la figlia del mio cuore? Ah, che un artiglio nel cuore mi scava! Dov’è la figlia mia che già qui stava?». 5. Buio e aria muta, cammina e cammina, di sala in sala gli cresce la pena: quando una vecchia gli appare vicina, che lo sogguarda con torbida cera. «Vecchia, fammi trovare Laura, che delle belle porta la bandiera e l’aura». La strega gialla, che non pare viva, stende la mano che tutta le trema: «Corri», gli dice, «guarda nel suo letto: sta con un fiore rosso in mezzo al petto. Vola, Barone, la figlia è trovata: sotto la bianca coltre è coricata. Vola, Barone, guarda la tua figlia: pare che dorma sotto la coltriglia». 6. Solleva un lembo e chiama: «Laura!». E lo stesso silenzio gli risponde. Spinge la mano sotto e la ritira insanguinata e tutto si confonde. Sangue fumante che vendetta grida, brucia e dentro il suo cuore si sprofonda. Chi sparse sangue, altro sangue s’attira, a lavarlo non possono le onde. Il sangue sparso non si può scordare, e lavarlo non può nemmeno il mare… E qui è finito il sogno di terrore, il funereo sogno del Barone. 7. L’ira fa schiava la nostra ragione, e a perdita ci porta anche l’amore. Il sacrilegio suo l’empio Barone lo sconta, ché già suona la sua ora. Ma maledetti più degli assassini vadano i traditori e i delatori. E voi piangete, gente di Carini, or ch’è ita la vostra signora. Pensate a Dio e per essa pregate. Pensate alla vostra signora e per essa sperate. di Salvatore Conte (2024)
Verona, 11 giugno 572.
Il
Prefetto tiene a liberarsi di Alboino… certo di poter trattare la pace con me, facendo così bella figura con
l’Imperatore».
Gli astanti furono invitati a uscire; il cortigiano che aveva mostrato il
pugnale lanciò un cenno d’intesa al Prefetto; gli altri rabbrividirono. di Matthew Gwinn e Salvatore Conte (1603-2024)
NERO How hesitantly my mind freezes! Hope on the one hand, dread on the other: hope is a dreamer’s vision fear a Gehenna When my mind goes back and forth in this dubious way I neither live nor die, but I am unhappy. Unhappy the man for whom hope and fear thus vacillate! If false hope cheats me, I am cheated to my unhappiness. How unhappily I dread, lest some true cause of dread oppress me! How unhappily I die, if my mother does not perish first! A great business is afoot, I confess. Let it be done featly, I pray. Hurry, Anicetus, finish it. Show yourself a man Serve me, and destroy her Destroy her, or you are dead. We are both dead: you will have lost your loyalty, I my kingdom, and ruin will overhang the both of us. Come, hurry, slay, beat, rend, stab, do in my mother so that you may show me a true Caesar. Keep your name of Unconquerable as an unconquered omen. But she, rich in influence rich in coin on her guard out of fear saved by her servant’s loyalty will sniff this out and anticipate it in her turn, overturning the scheme, turning it against me. And she will overturn everything along with me. The ancient vixen does not quickly fall into the net Rather this is a lioness who lays her snares to avoid mine She will surpass my arts with her art, my violence with her violence, my evil with her own. Will Pentheus drive Agave from Bacchus’ sacrifices? Agave will drive down Pentheus, a sacrifice to Bacchus Thus there is only one choice: strike or perish. Strike, Anicetus, and strike deep Unless she is stricken, unless she perishes, my cruel quarry will strike us, and our only choice will be to perish. And thus hope on the one hand, dread on the other, toy with and shatter me. As a wave first raises up a ship, then casts it down, so my proud heart leaps up to the heights, now sinks under the weight of its heavy burden. In either condition it fares poorly, more out of hope and fear than reality. Here instinct says one thing has been done, hope another, fear a third, but they do not say what. Anicetus, preserve my hope, do the thing, banish my fear. But alas, hope flees, fear prevails. I believe what I hope, but what I fear I believe the more. Evils are the more to be feared, as they come the quicker. Thus hope on the one hand, fear on the other, become entangled, travel in new spirals, when great things are awaited. I have hope from Anicetus, but fear from Agrippina. Only Anicetus can place me in security. (Enter Anicetus). And see, he has returned. Tell me, am I an unhappy dead man Or have I killed her ANIC. Must it be the one or the other NERO It must. ANIC. Then there’s no doubt you must hope for one of the two NERO No. But since I remain in doubt I seem to be dying. ANIC. There’s no delaying
NERO No delaying. You speak of death when you speak
of delay. NERO What? Her dead? Can I believe this? Or do you wish
ANIC. Believe that Anicetus is speaking the truth,
no less than you believe you are alive. It is a thing beyond belief, that you have been able to kill her This is a deed
that cannot satisfy me in the hearing. It will not satisfy me unless the eye
happily sees what the ear has heard. In the seeing the eye guarantees the mind’s
security. I want to go and look, if I may do so safely. May I? NERO But if she is still breathing and gains her health
ANIC. Have no fear. You are either benefiting me or betraying me or making me wholly blessed AA·AA·AA AA·AA·AA 9 giugno 68 d.C.
AA·AA·AA di Giorgio Scerbanenco e Salvatore Conte (1970-2024)
Il cavalletto era sistemato all’interno della stanza, quasi in mezzo, era molto simile a un robusto treppiedi da fotografo, ma non sosteneva una macchina fotografica, sosteneva un Winchester M2 semiautomatico, una delle più potenti carabine moderne. E sulla canna era montato il cannocchiale, e la carabina era puntata verso la finestra e prendeva d’infilata Corso di Porta Nuova, a quell’ora di mezzogiorno così piena di sole.
Faceva molto caldo. Paolo si mise al calcio del Winchester e guardò attraverso
il cannocchiale, spostando lentamente l’arma. Si vedeva nitidamente a oltre
duecento metri, lesse senza fatica un manifesto che invitava a uno sciopero,
manovrando col calcio del fucile si ravvicinò a cinquanta metri, quasi
all’altezza del bar, e inquadrò una bella donna che si rifaceva il trucco.
Veniva dai Bastioni con la sua Giulietta spider rossa e si fermava lungo il marciapiede, in sosta vietata, ma Tullio Marone non era persona che usasse spendere il suo tempo nel leggere la segnaletica stradale, e restava al volante, e qualche minuto dopo dal bar dall’altra parte della strada usciva Anna, a passo svelto, con le zinne che le ballavano nel camicione sbottonato come fosse una mignotta dei Navigli e non una cassiera del centro; quindi lo raggiungeva, sedeva vicino a lui, gli si buttava addosso con tutta la sua carne: li aveva visti tante volte a occhio nudo, e questa volta li avrebbe visti meglio con quel cannocchiale.
Non che Tullio Marone
venisse tutti i
giorni, poteva passare anche una settimana senza che si vedesse e allora
Anna usciva dal bar
e se ne andava in via dei Giardini a prendere il filobus.
Paolo non era un esperto ma, per quello che doveva
fare, il sergente O’Hirt gli aveva insegnato abbastanza. Mise un paio di maglie sulla sacca, poi
tirò la chiusura
lampo, mise la sacca nell’armadio, chiuse a chiave l’armadio, mise la chiave nel
gancio del
portachiave che teneva nella tasca sinistra dei calzoni, e uscì dalla stanza.
Erano le dodici e otto
minuti.
Però era un Donati Sorel: Paolo Donati Sorel.
Vi erano
degli idioti, li aveva sentiti, lì, al caffè, che dicevano che era brutta;
forse, secondo Botticelli,
avevano ragione, ma bisognava essere degli incapaci per non sussultare appena
muoveva per
caso il braccio indietro così che il seno d’improvviso si sollevava ancor più di
quanto già era
sollevato.
“Sì, sono un maniaco sessuale, non è che
una volgarissima sciacquapiatti, però oltre che a me è piaciuta a Tullio Marone. Ma quello te le
ha sempre portate
via per dispetto, appena vede una con te, chiunque sia, te la porta via”.
Sperò che sorridesse, ecco, almeno un sorriso, ma lei non sapeva,
in quel
momento, che sarebbe stato meglio sorridere a quel piccolo, per non morire: come
avrebbe
potuto saperlo? Anzi restò col volto rigido, indispettito da quel suo sguardo.
Paolo Donati Sorel non poteva rovinarsi per una sciacquapiatti, che andasse pure con tutti i
Tulli Maroni che
voleva. Era assurdo scoppiare solo per quegli 80 chili di carne di sesso
femminile. Con un colpo secco, il sergente O’Hirt aveva insistito: «Un Winchester non è una signorina da accarezzare sulle chiome, va trattato a colpi secchi, certe volte mi arrivano delle reclute tubercolose che danno dei colpettini da ridere, tossicchiando, il Winchester non si monta e non si smonta coi colpettini: ci vuole un taglio secco, così», e lui dette il taglio secco, nel punto esatto e il Winchester, con un sonoro scatto metallico, si ricompose in tutta la sua lunghezza.
Poi allungò il
treppiedi, ne regolò
l’altezza sul misuratore e fermò la livella al numero 27 che era l’altezza
esatta, dopo prove di
molti giorni, e quindi fece scattare il gancio sulla testa del treppiedi e nel
gancio ad H infilò il
Winchester e subito controllò al cannocchiale se la posizione era giusta.
Abbassò ancora un
poco la canna dell’arma. Guardò l’orologio, erano le dodici e quarantanove. Si
accese una
sigaretta e, mentre l’accendeva, suonò il telefono. Era Michelina.
Bene: adesso il nanetto sparava.
Adesso
bisognava fare presto, prima che la macchina ripartisse, e Tullio era un alfista
e aveva le
partenze rapide. «Nanetto. Perché pioveva e devo prendere due tram per andare a casa, ecco perché sono salita in auto con te. Nanetto». Il viso gonfio di lei era inquadrato in fondo al cannocchiale, la crocetta di collimazione centrava proprio la bocca spalancata da mignotta. Il sergente O’Hirt gli aveva detto di far piano: «Ecco, in questo, sì, il Winchester assomiglia a una bella donna sensibile: appena la sfiora, salta su. Più tocca forte, più il Winchester spara colpi, se vuole sparare solo un colpo o due deve appena sfiorare il grilletto».
Intanto Anna, come avesse presagito che ora sarebbe toccato a lei, era scesa dall'auto, voltandosi di schiena e predisponendosi a una fuga disperata. Ma non c'è fuga possibile da un Winchester M2, più veloce di uno schizzo di follia: la cinghialotta era stata inquadrata. E lui lo sfiorò appena, per avere il tempo di comporre una tragica rosa di sangue sulla schiena ben tornita di Anna... La donna inarcò le spalle e allargò le braccia, come in croce, colpita a morte, se non proprio fulminata; si avvitò su sé stessa, mostrando occhi impazziti di paura e stregati da una tragica consapevolezza... ricolmi di sincero cordoglio per sé stessa... inutile bucarla anche in testa...
Quindi si staccò di colpo dalla carabina, andò alla finestra e lentamente abbassò tutta
la tapparella.
Tremando, dette il colpo secco, col taglio della destra, al punto
giusto, e la carabina
gli si divise in due tra le braccia, la mise nell’apposito astuccio e solo
allora si ricordò di
spegnere la radio che aveva lasciato accesa piuttosto alta per coprire il secco tec-tec del
Winchester.
Tirò la chiusura lampo, mise la sacca nell’armadio, chiuse a
chiave l’armadio, si
mise la chiave in tasca, aprì la porta, uscì nel corridoio, le mani che gli
tremavano, e anche il
passo era come tremante, ma si controllò; dalla finestra, sia pure con le
tapparelle abbassate,
veniva un vocio confuso e nervoso: era normale, ma chiuse la porta dello studio-salotto, e non lo
udì più. E quando il tremito infine passò, guardò il quadro di suo padre.
Era a grandezza naturale, e stava in fondo alla troppo vasta sala da pranzo, vicino al finestrone più grande da
cui il dipinto, già paurosamente somigliante e veridico, riceveva una luce che
gli dava un
rilievo, e a volte sembrava perfino un movimento, come se suo padre intendesse
scavalcare la
cornice e venire a sedersi a tavola, con la sua inflessibile aria di inquisitore, lo
sguardo inflessibile
di un Donati Sorel.
“Sì, papà, sono un anormale, un
delinquente e un
bastardo”, pensò. “Ora ne hai la prova”.
«Per cortesia, Michelina, portami il telefono».
Il volto della vecchia, grassoccia e flaccida donna, sembrava un
poco alterato.
Paolo Donati Sorel cominciò a recitare, da allora in avanti avrebbe dovuto
recitare molto. «Un'ambulanza?».
«Sì, un'ambulanza, dottore. Forse uno dei due non è rimasto ucciso, per
fortuna». C’era la possibilità che da un momento all’altro la polizia salisse in casa sua e lo arrestasse: era molto remota, e comunque non poteva farci niente. Strano che fosse giunta sul posto un'ambulanza... per fare che, poi?
Di sicuro la vecchia si era sbagliata, confusa dalle sirene
della polizia.
Per prima cosa chiamò
Vicenza, la caserma
della NATO.
Poi chiamò il fiorista. «Sono
Donati Sorel, per
favore, signor Carlo, mi faccia avere nel pomeriggio trentasei rose rosa».
Poi
telefonò al garage, riconobbe subito la voce della ragazza dal grosso seno che
faceva la
dirigente amministrativa della grande autorimessa.
Nel
pomeriggio
arriveranno delle rose da mettere davanti al ritratto di papà».
La Ferrari era già lì, pronta, buttò la sacca con la carabina nei
sedili di dietro e,
pazientemente risalì in casa. Scese, salì sulla Ferrari, erano le due e mezzo, in Corso Buenos Aires si fermò davanti a una banca, non era molto regolare, ma il direttore conosceva troppo bene i Donati Sorel per inimicarseli e gli dette mille e cinquecento dollari in biglietti da venti dollari.
Alle due e cinquantadue entrava
nell’autostrada Milano-Venezia e dopo qualche centinaio di metri cominciò a premere l’acceleratore,
sempre di più,
fuori c'era un caldo orribile, ma lui aveva aperto l’aria condizionata e stava
bene.
Non lo
guardava neppure.
Grazie,
signore, sono
molto contento». Abbassò netto una mano come volesse tagliarlo in due.
«Va’
via e ricordati quello che ti ho detto». Andò in sala da pranzo per prepararsi da bere: le rose rosa erano arrivate, troneggiavano nel gigantesco vaso Baviera di cristallo, quattro centimetri più alto di lui, davanti al ritratto di suo padre.
Cominciò
a bere Cointreau, guardando le rose e suo padre, e aspettando di vedere che cosa
sarebbe accaduto; a un tratto gli sembrò che in mezzo alle trentasei rosa ne
spiccasse una rossa, più alta delle altre, alta un metro e settanta da terra.
La polizia, siccome l’arma era militare, seguiva una traccia di spionaggio,
tutte le caserme della NATO, in Italia e in Europa, stavano per essere
setacciate; comunque seguivano una strada sbagliata. E l’aveva previsto.
Inoltre, al quarto giorno, le rose rosa non erano ancora sfiorite, che già i
giornali non parlavano più della storia. Di cosa imprevista ce n'era soltanto una, al momento. Una come le autopsie eseguite finora.
Michelina non si era sbagliata: un'ambulanza aveva raccolto dall'asfalto la povera Anna, con tutta la sua rosa calibro 30 tatuata a sangue sulla schiena. Era stata coperta con fogli di giornale dai passanti pietosi, ingannati dallo sguardo ghiacciato, ma la polizia si era accorta che respirava ancora. La presuntuosa cassiera si era aggrappata alla vita, si era zavorrata ai suoi 80 chili. Un proiettile le aveva sfiorato il cuore, senza però ucciderla. Era ricoverata senza speranze all'ospedale, non poteva neppure essere operata; era priva di coscienza, però ancora non moriva. Aveva incassato quattro pallottole calibro 30, ma era talmente disperata da tenersi in vita; con la carne provava a mangiarsi il piombo.
Paolo sperava che resistesse un altro po', che riprendesse
conoscenza prima di morire; sarebbe anche andato al suo capezzale.
Andò in sala da pranzo: l’uomo era lì, in piedi, goffo e volgare come aveva
previsto. «Scusa...», era stata la prima e unica parola detta da Anna nei brevi momenti in cui riprendeva una tribolata coscienza. La donna versava in condizioni disperate, ma Paolo Donati Sorel l'aveva fatta trasferire in una prestigiosa clinica privata, dove poteva controllarla molto strettamente, ed era andato personalmente a trovarla, sebbene lui non fosse presente quando l'imponente donna aveva pronunciato quella parola, che però gli era stata puntualmente riferita dall'infermiera. Molto probabilmente sarebbe stata l'ultima battuta della cassiera. Il Comando NATO di Vicenza, con un laconico comunicato, aveva smentito le presunti farneticazioni attribuite al sergente O’Hirt, sotto-ufficiale di irreprensibile condotta, alle dirette dipendenze di un ufficiale superiore negli ultimi giorni di permanenza nella base. Lo sciacquapiatti beciuano era stato licenziato in tronco, denunciato per diffamazione alle autorità USA e bollato come fiancheggiatore di forze ostili. Le pallottole incassate da Anna era ancora tutte e quattro dentro il suo massiccio corpo. La sua autopsia, che avrebbe potuto rivelare l'angolo di incidenza dei proiettili, era sospesa, appesa al filo della flebo. Il Winchester M2 del sergente O'Hirt era stato richiamato dall'azienda Winchester per un lievissimo, impercettibile, rarissimo difetto di fabbricazione, che per mera cautela la prestigiosissima azienda americana voleva esaminare al più presto. In ogni caso non sarebbe stato sequestrabile dalle autorità italiane. Pertanto a carico di Paolo Donati Sorel non c'era praticamente nulla. Soltanto lo sguardo ghiacciato di Anna, la quale vedeva la morte porgerle una rosa nera, mentre lui, l'assassino, le teneva la mano e la rassicurava. di Salvatore Conte (2024)
La Notte di Walpurgis, la Vigilia di Maggio, è sempre un incubo nella città di Arkham, infestata dalle streghe. Succedono cose terribili e, spesso, capita che spariscano anche un paio di persone. Quest'anno sono stati ritrovati morti una studentessa della facoltà di scienze occulte dell'Università Miskatonic, Asenath Waite, e un bambino, Ladislav Wolejko. La Polizia di Arkham, che brancola da sempre nel buio, ha deciso stavolta - per reagire alla pressione dell'opinione pubblica - di richiedere la collaborazione di un'investigatrice privata nota per i suoi metodi sbrigativi e molto popolare in città per la sua matura avvenenza: Janet Lupo. La velocità, nella risoluzione del caso, è essenziale: passata la Notte di Walpurgis, le piste da seguire svaniranno e i colpevoli torneranno nelle tenebre fino al prossimo Sabba, quando riprenderà una nuova catena di morti. Le indagini della scaltra e navigata investigatrice portano dritte al padre della studentessa assassinata, Ephraim Waite, un esperto di scienze occulte, anzi un vero e proprio stregone... Lo va a trovare per metterlo sotto torchio. In questa occasione fa la conoscenza di Lauren Waite, sorella maggiore di Asenath: una ragazzona inquietante, degna del padre.
Tra le due nasce subito uno strano feeling... D'altra parte salta fuori che Asenath Waite è stata adottata... la moglie dello stregone è morta in circostanze oscure... Lauren è figlia unica... Il quadro è pressoché completo. Ce n'è abbastanza per fare rapporto alla Polizia di Arkham, anche se mancano delle prove conclusive. Bisognerà pazientare ancora un po', aspettare che padre e figlia facciano un passo falso. Intanto la Lupo ha perquisito casa Waite e ha sequestrato un libro di cui conosce l'importanza: il Necronomicon!
La Lupo non può allontanarsi un attimo dall'ufficio che lo ritrova sottosopra... Non ci vuole molto a capire cosa stessero cercando: un libro ben nascosto, che adesso la potente investigatrice depone sulla propria scrivania. La tenda si scuote e appare la brutta faccia di Moses Sargent, il domestico di casa White! Le mette le mani al collo e sta per strangolarla. POW... POW... POW... Tre colpi di revolver rimettono le mani al loro posto. Lo stava aspettando, Janet non è tanto scema. La Lupo si china sul corpo. Il bestione è andato. Proprio come il Necronomicon... Infatti sulla scena c'è anche Lauren, che ne ha approfittato per involarsi con il libro maledetto. «Ferma!». Janet non ha il coraggio di spararle, ma in fondo è meglio così, perché la porterà dal pesce grosso. Fatte le scale di corsa, e uscita sulla strada, Lauren si dirige verso l'angolo dell'isolato, dove sembra attenderla qualcuno, vestito di scuro, a bordo di un sidecar. «Ferma o sparo!». E pensare che quel libro in fondo è suo... Tuttavia Janet Lupo non ha tempo per le sfumature, un bambino e una ragazza sono stati uccisi da una setta misteriosa, e lei deve fare giustizia. POW Il primo colpo è mirato alla spalla. Ma quella non sembra nemmeno averlo sentito. La figlia di Ephraim Waite è una specie di bestia: una ragazza massiccia, con tanta carne addosso. POW È necessario un secondo colpo, diretto nella schiena. Lauren Waite, con il libro sottobraccio, si scompone, caracolla per un paio di metri, ma poi riprende l'andatura, più veloce di prima. POW Un altro colpo nella schiena. La ragazza caracolla di nuovo, la camicia bianca chiazzata vistosamente da tre grosse macchie di sangue illuminate dai lampioni della strada. Stavolta, però, Lauren stenta a riprendere il giusto equilibrio. D'altra parte è arrivata a breve distanza dal sidecar. Piegata in due, sta ormai per schiantarsi a terra, un braccio proteso davanti a sé, l'altro ostinatamente intorno al libro, il baricentro del corpo del tutto fuori controllo. Il sidecar, però, sgassa a tutta, e appena il corpo di Lauren si abbatte sul carrozzino, riparte a razzo! La ragazza è finita con la faccia al posto delle gambe e con il sedere al posto della testa. La Lupo non ha più dubbi: alla guida c'è il padre. Ma le pallottole nel tamburo sono finite. Inutile inseguirli. Sa dove trovarli. Una all'obitorio, l'altro in una pagina del Necronomicon... In meno di mezzora la Lupo è già a casa Waite. La Polizia le lascia condurre il gioco. Ephraim nega tutto: di notte è facile sbagliarsi, lui non ha mai guidato neppure una bicicletta, la figlia è partita nel pomeriggio per Kingsport, e se il suo domestico ha preso delle iniziative sbagliate, lo ha fatto di testa sua. Nel mentre è costretta a sorbirsi queste fandonie, Janet lancia l'occhio sul sarcofago, disposto in verticale, che adorna lo studio dello stregone. Ai suoi piedi cola un liquido denso... Sembra sangue...! «No!». Istintivamente apre il sarcofago e viene abbracciata dal pesante corpo di Lauren! Il padre l'ha sistemata lì dentro! «Maledetta!», esclama Ephraim. «Me l'hai ammazzata...». L'investigatrice si divincola dal pesante abbraccio e depone il corpo sulla poltrona più vicina. «Dannazione! Potevi portarla in ospedale!». «Non sarebbe servito a niente...». «Ma almeno non sarebbe morta soffocata...! Lauren... ti porto all'ospedale e ti salvi...». «Sono... a...n...d...a...t...a...». «Non sei andata, ricordati che sei una bestia, Lauren. Chi ha ucciso la tua figlia adottiva?», la Lupo torna a incalzare il padre. «È stato Moses». «E il bambino, chi l'ha ucciso?». «È stato Moses», la monotona risposta di Ephraim Waite. «Facile accollare tutto a lui... E la tua figlia naturale, che ruolo ha avuto in tutto ciò?». Mentre attende una risposta, la guarda. La testa affondata sul petto, quasi dentro la lunga scollatura della camicia, le gambe scomposte e le braccia larghe, che protendono dai bordi della poltrona: una grossa bambola di pezza buttata via alla rinfusa. «La mia Lauren è sempre stata molto ambiziosa. Doveva prendere il mio posto, alla mia morte». «C'è nessun altro nella banda?». «Nessuno. Almeno tra i vivi...». Mentre continua a interrogarlo, fissandolo negli occhi, Janet si appoggia con le braccia tese sulla scrivania, torreggiando sullo stregone, seduto di fronte. Un attimo dopo si sente stringere il collo. In pochi istanti le manca l'aria, tanto è forte la stretta. Non riesce a vedere chi l'ha attaccata. Sta per morire, solo questo riesce a capire. Ha il revolver nella tasca della giacca, ma le pistole sparano davanti alla canna; l'unico obiettivo raggiungibile è lo stregone, però le mani sono certamente di qualcun altro. Ucciderlo non le sarebbe servito a niente. O sì? In questa folle indagine niente è come sembra. POW Tanto vale provare. Un colpo in mezzo agli occhi mesmerizzanti, l'ultimo atto possibile prima del buio. Una testa che si abbatte sulla scrivania. Delle mani che si allentano. Un corpo pesante che le si affloscia contro la schiena. Si volta. Di nuovo quell'abbraccio! Un lampo ed è tutto chiaro, mentre torna aria nei polmoni. La rimette sulla poltrona. Il padre l'aveva ipnotizzata prima del suo arrivo. Le aveva ordinato di rimanere in vita e di ucciderla, quando glielo avrebbe comandato telepaticamente. Adesso Lauren ha freddo, il grasso da cessa che la riveste non le basta più per tenersi la pelle addosso. La Lupo le fa mandare giù un sorso di whisky e fa una telefonata. «Ho chiamato l'ambulanza, ti salverai. E ti terrò fuori dall'inchiesta. Accolleremo tutto a tuo padre». «Janet... sei carina... con me...», lo sguardo spaventato... allucinato... la mano che la cerca... Occhi mesmerizzanti come quelli del padre. «Sono qui, Lauren, tra poco verranno a prenderti». Sullo sfondo delle sirene, la Lupo - visibilmente preoccupata - le appoggia una mano sul ventre, come se avesse un buco anche lì. «Alla Polizia spiegherò tutto io...». «Il lenzuolo in faccia... digli... di non mettermi... il lenzuolo in faccia...». «Lauren, non sei a questo punto. Tu ti salvi, te l'ho detto. Salirò sull'ambulanza con te». Ma la figlia di Waite punta fisso il soffitto dello studio. Sente arrivare la morte, nonostante la potenza fisica. «No, Lauren! Puoi salvarti, ti dico!». Come se avesse appreso in fretta l'arte del comando ipnotico, esaltata da quella morbida massa di carne, Janet si era sostituita - del tutto inconsciamente - al padre di Lauren. E adesso, come di parola, l'accompagna all'ospedale, mentre il Miskatonic River continua a scorrere buio nella notte di Arkham. Del resto la grossa puttana non vuole crepare e accetta docile gli ordini che le fanno comodo. di Salvatore Conte (2024)
«È rimasta solo una vecchia puttana. Però sta male e le portano il cibo nella sua tana», risponde Mario Giordani, dell'Associazione Pro Tetto. «Che puoi dirmi di lei?». «Viene chiamata "la Sorcona del Naviglio", o anche "la Regina delle Fogne"... perché è vecchia, ma ancora bona. È malata, ma non vuole farsi visitare. Penso abbia un tumore nelle budella; e anche piuttosto grande. Il fatto strano è che i casi di tumore, all'interno della comunità sotterranea, sono aumentati in questi ultimi mesi». «Devo interrogarla». «E va bene, Maggiore. Ma non so davvero cosa possa dirle».
«Siamo arrivati... Signora Frezzante... sono Mario Giordani... c'è una persona che vuole parlarle... Possiamo entrare?». «Che aspetti?».
L'uomo scosta la tenda ed entra nel tugurio. È sudicio come tutto il resto, ma complessivamente è più decente di quanto ci si possa aspettare in un posto come quello. Anche lei è sudicia, ma più che decente. È seduta a cosce larghe su uno sgabello di plastica, malfermo sotto il suo peso, e indossa il tipico camicione sbottonato fino allo stomaco. Considerato il contesto e l'età, è molto ben tenuta. Dimostra almeno 80 anni e mantiene le braccia incrociate sulla pancia, con una lieve espressione di sofferenza sul volto rugoso. «Sono il Maggiore Layla Galliani della Polizia Municipale, e avrei qualche domanda per lei, signora...». La donna indica degli sgabelli. «Ci risulta che siano scomparse diverse persone nelle ultime settimane, specialmente tra i barboni che vivono nel sottosuolo. Lei sa qualcosa di questo mistero?». «Il Maggiore è qui per aiutarci, Anna...», Giordani intercede in favore della poliziotta. «Ormai so tutto, Maggiore... di nome e di fatto...». Un'occhiata d'intesa tra le due sorche. «Tutto... di cosa?». «Quella maledetta roba mi sta uccidendo, Maggiore... Ho vissuto qui molti anni, da quando il mondo cominciò a stancarmi, ma non ho mai avuto problemi di salute. A 80 anni potevo ancora dirmi una bella donna. Sì... non ero finita...», con gli occhi allucinati e la bava alla bocca. «Ma poi... hanno portato giù quella roba... ed è cambiato tutto... Gli americani la chiamano C.H.U.D... Contamination Hazard Urban Disposal...
Chi si è avvicinato troppo, è impazzito, è diventato altro... ma non un'altra persona... è diventato un'altra cosa... È diventato un Chud... Io non mi sono avvicinata, ma il male mi ha raggiunto lo stesso; può uccidermi, e lo farà... però non fino a quel punto... almeno lo spero». «Lei è una donna importante; perché non si fa curare? Posso accompagnarla in ospedale...». «A che servirebbe?». «Non ha paura a vivere qui da sola? Potrebbero far sparire anche lei». «Non hai capito, bella vigilessa... non sono scomparsi... Loro si ricordano di me... ero la loro Regina... oohhh...!», la donna si interrompe e manda un forte gemito di dolore. Giordani si avvicina e le tampona il sudore lungo il collo con un fazzoletto. «Calmati, Anna... ci sono qua io...», le sussurra, in tono quasi confidenziale. La vecchia si abbandona contro lo schienale, stirandosi addosso la camiciona sbottonata, per dare risalto alle zinne mosce, come le riesce bene da molti anni, e come ha sempre fatto. «Non voglio morire... manda giù un dottore...», sussurra in risposta la Sorcona. «La signora ha un cancro all'intestino giunto al terzo stadio, ovvero localmente avanzato con metastasi ravvicinate, cioè fegato e altre parti dell'intestino diverse da quella in cui il tumore si è inizialmente manifestato e dove ha raggiunto la dimensione più grande. Purtroppo il punto di non ritorno è stato abbondantemente superato, il cancro si è diffuso troppo, sembra aggressivo; penso a causa di una grave contaminazione subita dalla signora: il contatto o la vicinanza con sostanze altamente tossiche». «Insomma, quanto le rimane?». «Purtroppo, non credo molto; rimarrà uccisa in poche settimane, nonostante il fisico ancora solido; ma potrei provare a parcellizzare il tumore e a renderlo meno aggressivo con iniezioni di alcol puro: estrarrò ascite e inietterò alcol; in certi casi risulta efficace». «Provi, allora...», gli intima il Maggiore.
«La Frezzante si è fatta dare 50.000 euro da Striscia la Notizia per accompagnare Jimmy Ghione nelle fogne...! Dico... è veramente assurdo! La signora ha un tumore al terzo stadio nelle budella... e nelle condizioni in cui è... si mette a fare la guida turistica nei sotterranei della città, tra topi, scorie radioattive e umanoidi cannibali? Va fermata, Maggiore». «Va bene, ma non in divisa. Fammi una tessera della tua Associazione...».
«Ora basta, la vecchia va eliminata. L'ordine arriva da Houston. Ci siamo divertiti tutti, ma adesso è finita». «In che modo, Capo? Incidente o esecuzione?». «Una via di mezzo andrà bene. Un bullo se la scopa, perde il controllo e le affonda il coltello nella trippa». |
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