Un Poe d'orrore UN POE D'ORRORE di Edgar Allan Poe, Valentino Sergi e Salvatore Conte (1835-2024)
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Procedi con lentezza nell’oscurità, aspettandoti un pericolo a ogni passo, fino a quando non urti contro un tavolo massiccio. Senti qualcosa rotolare verso il bordo e lo afferri prima che cada: è un lungo cilindro dal diametro stretto e di materiale ceroso, ne percorri con le dita l’intera lunghezza fino alla cima, dove accarezzi la corda ruvida di uno stoppino e comprendi di avere in mano una candela.
Ispezioni con cura il resto del tavolo, tastandone la liscia superficie, fino
a quando non rinvieni anche un acciarino arrugginito sotto altre candele.
Alzi lo sguardo verso l’alto, la luce della candela non è sufficiente a discernere i particolari, ma grazie alla tua deduzione riesci a distinguere uno strano meccanismo al centro del soffitto: è agganciato esattamente sopra al tavolo e sembra un’enorme asta. Non hai idea di cosa stia per riservarti la perfida ingegnosità dei tuoi carcerieri, ma non ti coglieranno di sorpresa.
Il tempo a tua disposizione però sta per scadere, senti un rumore di passi
oltre una delle pareti…
8 Da almeno un’ora le immediate vicinanze del tavolo formicolano di ratti.
Sono furiosi, aggressivi, voraci… un nugolo di occhi rossi ti fissa in
attesa del momento in cui la tua immobilità darà inizio al banchetto.
Fissi la danza della fiammella fino a quando alcuni frammenti cominciano a riaffiorare: il suono di una campana a morto, i polsi stretti nelle catene… ogni ricordo emerge a fatica, come se qualcuno avesse giocato con il mosaico della tua memoria scombinandone senso e ordine. Impieghi delle ore a ricostruire il tuo processo: l’aula, i giudici dell’Inquisizione, i tendaggi cupi, le accuse, la sentenza e infine l’oblio di ciò che seguì fino alla prigionia, ma tutto ti appare come riflesso attraverso uno specchio, persino la tua condanna.
Ti sforzi per rimettere le cose a posto: «Per l'accusa di aver barattato
l'anima con un'immortalità da marionetta cedendo così il tuo arbitrio a un
blasfemo burattinaio, patirai il supplizio del pendolo; nel caso il corpo
dovesse perire e tornare a nuova vita, verrà gettato senza esitazione alcuna tra
le fiamme del rogo eterno. L'unica alternativa concessa è il pozzo».
Avanzi con la sola guida delle gocce d’acqua che cadono dal soffitto, ma un lembo strappato della tonaca si attorciglia alle gambe facendoti inciampare e cadere. L’urto della pietra con il torace ti svuota i polmoni, ma la tua testa ciondola più in basso, nel vuoto. Allo stesso tempo, senti la fronte bagnata da un vapore viscido proveniente dal profondo e ti sale alle narici un caratteristico odore di funghi marci. Allunghi il braccio e sospiri di sollievo quando realizzi di ritrovarti sul ciglio di un pozzo circolare. Tastando la muratura, ne stacchi un frammento che lasci cadere nell’abisso. Per lunghi istanti ascolti attentamente le risonanze degli urti sulle pareti del baratro durante la discesa e alla fine avverti il cupo tonfo nell’acqua. Vai al 20.
Sfreghi più volte e con forza l’acciarino, direzionando le scintille verso lo stoppino; è un procedimento lungo e laborioso, complicato dall’umidità della prigione, ma alla fine riesci ad accendere la candela.
La debole luce è sufficiente a illuminare lo spazio attorno a te…
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Quando rinvieni, scopri di avere gli arti legati al tavolo con una lunga
striscia che ti passa più volte intorno al corpo, lasciando libero solo il
braccio sinistro per permetterti di prendere del cibo da un piatto di terracotta
posto al tuo fianco. Una luce sulfurea illumina la cella, proviene da una
fessura larga poco più di un centimetro alla base dell’intero perimetro delle
mura, che appaiono così completamente sollevate dal pavimento.
Ti muovi cautamente in avanti, con le braccia tese e gli occhi spalancati nella speranza di catturare il più fioco raggio di luce. Procedi per molti passi nel buio, fino a quando le tue mani protese incontrano un ostacolo solido: un muro di ferro liscio, viscido e freddo.
Decidi di seguirne il perimetro, almeno per dare una dimensione alla tua
prigione.
Nello stesso istante in cui la eco svanisce, avverti quella che sembra la rapida apertura di una porta sopra di te, mentre un pallido bagliore lampeggia improvviso nelle tenebre, ma subito svanisce, lasciandoti percepire per un attimo le proporzioni della stanza dalle pareti metalliche che ti appare di forma quadrata e intervallata da nicchie decorate.
Noti anche l’ombra di un tavolo in prossimità del lato più corto e la
presenza di un pozzo. Fai un calcolo approssimativo dei passi necessari per
raggiungere il tavolo, evitando di cadere nell’abisso.
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La mancanza di riferimenti nel buio assoluto e il terreno sconnesso ti fanno inciampare e perdere l’equilibrio, ma riesci a mantenerti in piedi accelerando il passo e bilanciandolo con le braccia. Ti accorgi del pozzo quando ci sei già dentro, senza possibilità di appiglio.
Precipiti nell’abisso abbastanza a lungo da accorgerti del fetore emanato
dalle carni in decomposizione dei precedenti prigionieri. Hai capito bene, devi morire ancora e ancora e ancora e ancora…
E questo fino a quando la buia voragine, ricolma di cadaveri, non sarà più un
pericolo per la tua esplorazione. Nel caso decidessi per questa opzione, ricorda
che non è reversibile, anche se dovessi ricominciare il pozzo rimarrà pieno e lo
resterà a ogni tuo passaggio. Quando il pozzo è abbastanza colmo da lasciarti sopravvivere alla caduta, accatasti i corpi fino ad aggrapparti al bordo per uscire dall’abisso e riprendere l’esplorazione al 6.
Sforzi i tuoi pensieri nel tentativo di recuperare qualche traccia dalla pozza di pece nel quale la tua anima è caduta. Scavi nelle pieghe della memoria con inquietudine crescente, senza ricavare niente sulla tua identità. In alcuni brevi momenti hai la parvenza di riuscirci: le voci degli inquisitori si riaffacciano alla tua mente in un mormorio indistinto, come in sogno. Proietti il ricordo della loro espressione impietosa, mentre emettono la sentenza, ma non riesci a capire cosa dicano.
Sai solo di trovarti nelle
terribili prigioni della fortezza del Principe Poeta, ma ignori chi sia e la
ragione del tuo incarceramento.
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Prendi coraggio e inizi a camminare, tentando di procedere il più possibile
in linea retta. Il terreno è umido e scivoloso. Avanzi barcollando per qualche
passo, finché non senti una serie crescente di gocce d’acqua cadere davanti a
te, guidandoti nel percorso.
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Desideri fortemente riaprire gli occhi, ma non ne hai il coraggio e rimani in posizione distesa con i sensi all’erta. I roditori sembrano svaniti nel nulla e solo il pulsare della ferita rimane l’unica testimonianza della loro presenza.
Non hai paura di vedere qualcosa di orribile, ma che non ci sia nulla da
vedere.
Pareti e soffitto della prigione sono fatti di metallo e appaiono rozzamente imbrattati da simboli religiosi e figure allegoriche: teschi incoronati, gatti neri, fantasmi inquietanti e grotteschi, incomprensibili mappe fitte di numeri… i colori sembrano però sbiaditi e macchiati, probabilmente per l’effetto dell’atmosfera umida.
Due figure in particolare attirano la tua attenzione.
Spalanchi rapidamente le palpebre e il tuo petto annega nella disperazione: ti avvolge il buio più nero della notte eterna. La cupa intensità è opprimente e devi sforzarti per respirare.
Rimani ancora qualche istante sul pavimento prima di stringere i denti e
sollevarti sulle gambe indolenzite. Alzandoti noti di avere i piedi nudi e di
indossare soltanto una specie di tonaca ruvida, ma soprattutto avverti l’eco dei
tuoi lamenti e realizzi di trovarti in uno spazio ampio, delimitato da pareti.
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Accenni una parola, ma gli occhi del tuo interlocutore iniziano a lacrimare sangue.
Capisci che dev’essere affetto dalla Morte Rossa e decidi di non
interromperlo per il momento: «È impossibile dire come
l’idea mi si piantò nella mente, ma una volta germogliata, mi perseguitò giorno
e notte. Non c’era scopo, né odio, volevo bene al vecchio! Non mi aveva mai
fatto un torto. Alla fine non desideravo nemmeno il suo oro,
l’avrei comunque ereditato alla sua morte e non mancava poi molto», l’uomo si
arresta un istante per un accesso di tosse, solo ora noti che indossa stracci
simili ai tuoi, le vesti di un carcerato. «Era il suo occhio, sì! Aveva l’occhio
di un avvoltoio, un occhio azzurro chiaro. Quando mi guardava, mi si gelava il
sangue; fu così che mi ficcai in testa di ammazzarlo e di liberarmi di quello
sguardo per sempre». «Ti voglio spremere fino all'ultima goccia...», sussurri alla vecchia sorca. Lei annuisce.
Adesso però comprendi perché Re Peste l'ha scartata dal
tavolo.
«L’immobilità mi costa uno sforzo immane, ma non cedo all’istinto omicida,
certo di aver perso la mia occasione. Eppure il vecchio non emette un sussurro,
il suo cuore inizia invece a rallentare con un rumore disordinato e soffocato,
fino a spegnersi. Gli metto una mano sul petto e ve la tengo per molti minuti.
Non sento più alcuna pulsazione. È morto stecchito, il suo occhio non mi turberà
mai più.
Quando aprite la porta con l’effige del Corvo, la luce del corridoio inonda un’ampia stanza buia. Un corvo sbuca da un’alta e strettissima finestra gotica e svolazza per la sala, posandosi sul bordo di uno specchio per poi fissarti con gli occhi di un demonio, mentre la luce delle fiaccole all’esterno, raggiando sulle piume lucenti, allunga la sua ombra sul pavimento, fino a lambire i tuoi piedi con tentacoli di tenebra che ti avvinghiano le gambe trascinandoti all’interno della stanza. «Non fuggirai mai più da me!», gracchia la bestia infernale, tirandoti verso il buio. Ti volti verso la gran sorca, ma lei è scomparsa! «LAYLA! NON TI LASCERÒ MAI!», gridi a squarciagola, rischiando di essere udito da tutti i baldorianti. Immediatamente rivedi la sorcona attraverso lo specchio, l'ombra tentacolare del corvo si ritira, lo stesso volatile se ne torna da dove era venuto. Abbracci contento la tua donna. Ritornate al 99.
Quando aprite la porta con l’effige del Cuore, entrate in uno studio ricco di mobili carichi di libri antichi, monili esotici e piccoli soprammobili in argento.
Una finestra di vetro lavorato dai colori vivaci riflette la luce di un
brillante sole estivo, illuminando il tesoro dell’Arciduca Pestifero.
Quando aprite la porta con l’effige della Tomba, entrate in un laboratorio
abbandonato alle cui pareti sono stati fissati numerosi armadietti ricolmi di
provette e alambicchi di ogni genere. C’è odore di marcio e di stantio, e ti
porti d’istinto il braccio al viso per non farti sopraffare dalla nausea. Accanto, su un tavolo massiccio, giacciono sparsi diversi strumenti chirurgici e rottami elettrici, dai quali intuisci che qui operava la donna che ha installato la batteria galvanica nel petto del Duce Tempeste, prima di lasciare la fortezza. Osservi con orrore i dispositivi insanguinati e ti domandi se sono gli stessi con cui hanno creato il tuo avatar; magari ricomporre i circuiti potrebbe aiutarti a capire meglio cosa sia accaduto...
Riattivi il circuito, che inizia a ronzare e… perdi il controllo. Ritornate al 99.
Quando aprite la porta con l’effige della Poesia, una calda luce primaverile vi accoglie ed entrate in una stanza con una vetrata intarsiata che dà su un verde bosco. Tra i mobili di legno bianco dalle linee essenziali ed eleganti che riempiono gli ampi spazi dell’ambiente, spiccano due librerie cariche di raccolte di sonetti e poemi. Ne scorri il dorso con le dita e avverti un subbuglio emotivo nel profondo, come se il tuo corpo avesse memoria di giorni felici trascorsi tra queste mura.
Ritornate al 99.
«L’ora del vecchio è giunta! Apro la lanterna e mi lancio con un balzo verso
il suo giaciglio. Il bastardo è sveglio e grida una volta, una volta sola,
puntandomi contro il suo maledetto occhio ceruleo. In un attimo lo trascino a
terra e gli rovescio sopra il pesante letto. Sorrido mentre sta per esalare
l’ultimo respiro, l’impresa sta per compiersi, ma le guardie sfondano la porta
dell’abitazione e mi sono addosso.
54 Hai trovato la Chiave del Corvo, annotala insieme al numero di questo paragrafo (54).
Apri la mappa e scegli un’altra destinazione.
Rinvieni accanto al corpo martoriato del tuo avatar, ma distogli rapidamente lo sguardo da quei resti. «Mi dispiace, Richard: non ne sapevo molto su quell'aggeggio». «L'importante è che stai bene...», sussurri con sollievo. Riabbracciata Layla in tutta la sua stazza, noti una figura massiccia a pochi passi da voi: sta segando il coperchio di una bara, seduta sulla rispettiva cassa, da cui sono stati ricavati dei fori all’altezza delle braccia.
Guardando con attenzione realizzi di ritrovarti nel cimitero e riconosci i
tratti del disgraziato a cui la chirurga di corte aveva strappato dal petto la
batteria galvanica; eppure la sua pelle non mostra più i segni della malattia.
Ad un tratto, come se si fosse appena reso conto del tuo risveglio,
l’individuo affaccendato ti apostrofa cordiale: «Devi aver sofferto molto, ma il
dolore fisico è solo una parte del supplizio, e nemmeno la peggiore». L’uomo si
sfiora il petto con aria complice: «Ciò che fa più male è riprendere coscienza
dopo la totale perdita di controllo e scoprire che hai commesso qualcosa
d’irreparabile». Senti un lungo, tumultuante rumore simile al frastuono di mille cascate, poi il profondo stagno nero ai tuoi piedi si apre, cupo e silenzioso, rivelando un fondale melmoso cosparso di bare scoperchiate. Ciascuna di esse emana il fievole, fosforico chiarore della decomposizione, e ne puoi vedere sin dentro i più riposti recessi, contemplando i cadaveri decomposti avviluppati in sudari fradici, nel loro malinconico e solenne ultimo sonno. Alcuni di loro però non riposano affatto, noti il loro fioco dibattersi, una comune cupa irrequietezza, e dalle profondità delle innumerevoli buche si leva dalle vesti dei sepolti un triste fruscio. Dopo pochi minuti pure coloro che sembravano tranquillamente riposare hanno mutato la rigida posizione nella quale erano stati deposti in origine. All’improvviso, una voce profonda, d’oltretomba, risuona nelle tue orecchie: «È tempo di raggiungere gli altri». «No, tu non mi lascerai, Richard!», grida Layla, decisa a tutto. «Voglio essere potente!». Nonostante l'età, la grossa sorca è ancora ambiziosa e freme per tenerti con sé. Puoi garantirle un futuro, lei cercherà di conservarsi. Ha pure indovinato il tuo nome! Ti mostra un piccolo ritratto di quando era giovane, nel pieno del suo splendore: nessun dubbio che sia fedele. «Tu sei mia, Layla! Io rimango con te!», le rispondi a tono, a cazzo duro.
Vuoi tenertela a tutti i costi, anche se avrà 50 anni più di te. Non la
consideri finita.
Al tuo rifiuto, il padrone di casa sveste i modi affabili, mostrando di reprimere a stento la collera. Lo sguardo gli si oscura e per alcuni lunghissimi secondi ti scruta in modo inquietante, senza dire una parola. Provi l’impulso di allontanarti da quella finzione, che percepisci permeare l’edificio fin dentro le pareti. «D’accordo, non perdiamo altro tempo. So chi sei, Re Peste mi ha parlato di te e della tua… peculiarità, se così possiamo definirla», l’uomo continua a osservarti mentre parla, come se cercasse di soppesare la tua forza. «Dalla mia morte sono imprigionato tra queste mura, senza possibilità di andare oltre la porta d’ingresso.
Hai visto in che stato è il giardino!».
In cambio ti cederò
la chiave che cerchi».
Entrate con cautela nel suo raggio visivo, mostrando le mani nude per non
spaventarla. Mentre vi avvicinate noti che la semplice e pratica veste che
indossa è di un tessuto raffinato e un paio di occhiali pince-nez le stringono
la sommità del naso lentigginoso, incorniciando due occhi verdi sotto una
cascata di riccioli rossi. La sua pelle non è segnata dalle rughe del tempo, ma
ha lo sguardo di un’anima saggia e abituata alle brutture del mondo. Non appena
muovi un passo all’interno delle rovine, la donna balza fuori dalla cavità e
solleva la vanga con chiaro gesto minaccioso, esclamando: «Vattene!».
Il folle si dissolve in una polvere rossastra di fronte ai vostri occhi, con un quieto sorriso. Nel mucchietto di cenere purpurea brilla un oggetto metallico. Hai trovato la Chiave del Cuore, annotatela insieme al numero di questo paragrafo (64). «Di' un po', Layla: non è che anche tu... hai mente di farmi uno scherzetto del genere?». «Tu sei pazzo, Richard... Tu non sai quanto io abbia lottato, quando ho avuto il morbo: allungavo la mia agonia, giorno per giorno, ora per ora, con la forza della disperazione. Anche alla mia età volevo vivere, mi sentivo ancora una sorca e ora so che avevo ragione... Voglio essere io la Duchessa di questa città!», esclama la grossa vacca, con un improvviso accesso di rivalsa e rabbia. «Nessuno deve provare a fermarmi! Se la fine di questo mondo dovesse costarmi la vita, tu andresti avanti lo stesso, Richard?». «Sei pazza? Governeremo insieme: io sarò il Duca!».
Tiri fuori il cazzo e ti fai fare un bocchino.
«Mi freno ancora una volta, resto immobile, respirando appena e tenendo la
lanterna chiusa. Nel silenzio assoluto riesco a sentire nitidamente il
tamburellare infernale del cuore del vecchio. Diventa ogni istante più rapido,
sempre più rapido e più forte, sempre più forte. Il suo terrore dev’essere
estremo! Diventa più forte, ti dico, più forte ogni momento! Vuoi prestarmi bene
attenzione? Ti ho detto che sono nervoso, è vero, e adesso in quest’ora cruciale
della notte, nella spaventosa quiete di questa vecchia casa, a un passo dal mio
obiettivo, ogni istante che passa potrebbe fargli percepire la mia presenza e
chiamare aiuto. Non posso esitare oltre!».
Ti risvegli come da un lungo torpore, con la ferma intenzione di andartene;
Layla ti è accanto; l’uomo ti rivolge uno sguardo contrariato, ma comprese le
tue intenzioni, si scansa per liberare il passaggio davanti all’ingresso.
«Qualche volta capitava; del resto non avevo la fortuna che ho oggi...», le rispondi. «Però non montarti troppo la testa: tu stessa sei una vecchia baldracca di 80 anni. Per quanto pensi di andare avanti? Hai la coda molto lunga, Layla...», nel mentre le strizzi le zinne, ancora grasse. «Non sono finita... ti verrà il cazzo duro per altri 20 anni...», dice, sicura di sé. Ma è un problema che dovrai affrontare: ha quasi il triplo dei tuoi anni. Per il momento preferisci non pensarci. Non intendi farne a meno. La spingi sul letto e glielo butti dentro. È una vecchia baldracca, però ci tieni. A cose fatte, vi mettete sotto le coperte, ma il sonno tarda ad arrivare e le ore si susseguono, mentre i tendaggi pesanti e sgualciti ondeggiano sospinti dagli spifferi alle finestre portati da un temporale ancora lontano. «Che hai, non dormi?», ti chiede la sorca. «Ti faccio stancare un altro po'?». «No... c'è qualcosa...». I tuoi sforzi di dormire si rivelano inutili, ma d’improvviso inizi a tremare in modo irrefrenabile, a poco a poco avverti il cuore correre come in preda a un incubo, attanagliato da un terrore senza causa. Tenti di liberarti della terribile sensazione con respiri profondi, aggrappandoti al solido corpo di Layla; ti sollevi sui cuscini e con le orecchie tese percepisci bassi suoni indefiniti che giungono a lunghi intervalli, nelle pause dell’uragano che ormai imperversa chissà dove. «Si può sapere cos'hai?», chiede ancora la vecchia zoccola. «Ti facevi scopare dal Principe, vero?». «Sì, certo, mi trattava bene...». «A 80 anni una donna dovrebbe pensare alla vecchiaia, Layla...». «Io non sono decrepita, sono ancora una sorca...». La provochi senza un reale motivo, in preda a un orrore profondo, inspiegabile e insopportabile; cerchi con tutte le forze di sottrarti a quello stato pietoso, ma dopo alcuni minuti ti pare di cogliere il rumore di un passo leggero lungo il corridoio, per poi sentir bussare leggermente alla porta. Con il tuo permesso, il padrone di casa entra nella stanza portando con sé una lampada ad olio, il suo colorito è persino più cadaverico e sfinito di prima.
Vi rivela che la sorella è morta e chiede il vostro aiuto.
F I N E Sei andato oltre quella fine e Re Peste appare deluso: «Peccato! Non vuoi fermarti! Per quanto noi tutti non desideriamo altro che la caduta del Principe Poeta e della sua fortezza, la possibilità che la nostra festicciola si concluda insieme al creato è invero spiacevole. E lo sarebbe anche per te, se perdessi la tua grossa sorca. Purtroppo non siamo altro che marionette in questa farsa e dobbiamo obbedire alla volontà della Morte Rossa.
Tra poco ti consegnerò una mappa con vari luoghi contrassegnati
da un numero. Alcune di queste vie ti condurranno in aree desolate, ambienti già
visitati o nelle braccia dei tuoi inseguitori. Solo cinque destinazioni ti
permetteranno di svelare l’intimo orrore di altrettanti membri della mia corte
attraverso i fantasmi del loro passato; la grande zoccola di Layla è uno di
questi, ma con la voglia di vivere che le è
rimasta cucita addosso; se riuscirai a dar loro la pace, ma lei di sicuro a crepare non ci
sta, otterrai una chiave che apre una delle sette stanze regali della Fortezza;
forse sarai costretto a ucciderla per ottenerla, non lo so», Layla ti si
struscia subito addosso: «Io non voglio morire!», esclama preoccupata al tuo
indirizzo.
«La settima chiave, invece, è in mano agli inquisitori ed è probabile che ci rimetterai ancora una volta la pellaccia per trovarne il nascondiglio. Dietro una delle sette porte troverai la Nostra Signora, ma non chiedermi quale, perché anche se ne avessi un’idea, non ti darei altro aiuto nemmeno sotto tortura. Tieni presente che sta a te trovare un modo di entrare nella Fortezza, così come dedurre l’identità del proprietario di ogni chiave. Ah, se non sarai in grado di risolvere un enigma, prosegui anche se dovesse condurti a bivi già percorsi, sei pur sempre in trappola come noi in questo mondo in rovina.
Ora ti restituisco alla guida del narratore e torno ai
festeggiamenti, potrebbero essere gli ultimi. Ricorda che quando entrerai in possesso delle cinque chiavi
(Corvo, Cuore, Gatto, Poesia, Tomba) somma la seconda cifra dei cinque paragrafi in cui le hai trovate
e aggiungi il risultato al numero di questo paragrafo
(98). invece è semplicemente nascosta! LA CORTE DI RE PESTE
LA REGINA PESTE è una donna
imponente, un tempo bellissima, ma ora gravemente malata di idropisia, dal
viso rotondo sfregiato da una terrificante fenditura che si allarga da un
orecchio all'altro. Il
suo corpo è fasciato da un rigido lenzuolo funebre calcificato che ne limita i
movimenti.
IL DUCA PESTILENZIALE è il gentiluomo ben
vestito che ti fissa con un paio di grossi occhi strabuzzati e iniettati di
sangue, come se fosse stato avvelenato. Il suo corpo è scosso dagli spasmi, ha
le mascelle serrate da bende e le braccia legate in modo simile, forse per
impedirgli di parlare, o di servirsi dei liquori.
L’ARCIDUCA PESTIFERO è un vecchietto obeso e
asmatico che ti fissa con occhio maligno. Ha il collo e gli arti fasciati da
vecchie garze incrostate di sangue e l’aria di sentirsi molto orgoglioso di un
oscuro segreto. IL DUCE TEMPESTE è un soggetto di corporatura massiccia che appare paralizzato da un insolito e scomodo abbigliamento: una cassa da morto. La sommità preme sul cranio e si protende in avanti a mo’ di cappuccio, mentre braccia e gambe fuoriescono da rozzi fori tagliati nei fianchi della cassa. «Attento a non incrociare il mio cammino, o potrei non essere più l’unico qui a indossare una bara».
L’ARCIDUCHESSA ANAPESTE è una creaturina
delicata che, nel tremito delle dita scarne, nel colore livido delle labbra e
nel lieve rossore tubercolotico della carnagione altrimenti grigiastra, rivela i
sintomi evidenti di una galoppante consunzione. Veste con grazia un ampio e bel
lenzuolo funebre dal tessuto fine. Adesso apri la mappa e scegli una destinazione. «Ascoltami bene, Layla.. tu prenderai il posto del Principe Prospero: sarai la Duchessa di questo dominio... non rimarrai uccisa... governerai a lungo, sotto gli auspici infernali di Re Peste, con me tuo legittimo sposo e Duca...». «Le zinne...», ti invita a strizzarle. Layla rinsalda il patto con te: non si sente finita, e non lo è.
Poni la domanda e il tuo interlocutore risponde mentre indossa la bara, inserendo con attenzione braccia e gambe nei fori da lui praticati, da dove cadono schegge e trucioli: «La Morte Rossa non consuma solo la carne delle sue vittime, ma ne intrappola lo spirito costringendole a rivivere per sempre la loro fine».
L’uomo fa una pausa, mentre applica la metà inferiore del coperchio con
chiodi e martello; una volta in piedi la sua figura è al contempo ridicola e
minacciosa, con le braccia muscolose che fuoriescono dalla struttura in legno e
il volto triste incorniciato al suo interno: «Quando Re Peste mi reclutò tra le
sue fila, ordinò che vestissi la stessa cassa in cui sono stato seppellito per
burlarsi della mia condanna; da allora divido questa parodia di esistenza tra il
macabro festino della Corte e la replica della mia sepoltura. Di solito svengo
ubriaco nella bara che indosso per poi risvegliarmi direttamente al suo interno
mentre vengo interrato vivo, come se il tempo si fosse attorcigliato su se
stesso».
Nel dire queste parole ti porge una chiave: «Spero di non incrociare ancora
il tuo cammino, perché non posso sottrarmi all’ingrato compito di braccarti per
seppellirti qui. È il volere di Re Peste». «So come entrare nella fortezza (99), Richard... ma prima hai bisogno della chiave di Re Peste... (98)», la vecchia sorca è sempre preziosa.
Ti ritrovi di nuovo alla fortezza, nel punto dove hai compiuto la tua fuga.
Lo squarcio è ancora lì, ma non noti tracce di ciò che l’ha causato.
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Pensa a goderti la tua sorca, o ci penseremo noi…».
Hai contratto il morbo della Morte Rossa e perdi il controllo. Ma è solo un'allucinazione!
I vecchi contagiati non hanno più la possibilità di diffondere il morbo,
altrimenti la stessa Layla ti avrebbe già ucciso.
Apri la mappa e scegli un’altra destinazione.
Chiudi gli occhi e segui la voce, ignorando l’illusione che ti circonda. Quando entri nella stanza, il tuo sguardo viene accolto dalla luce di una lampada accesa, mentre la poetessa riposa distesa dandoti le spalle, con i riccioli che le ricadono sulla fronte madida di sudore e le braccia deformate da rami di vene che pulsano con violenza.
Muovi un passo, senza emettere un rumore, ma la malata avverte la tua
presenza e si volta, rivolgendoti un debole sorriso insanguinato: «Grazie di
essere qui, ho sofferto davvero tanto la tua mancanza», un accesso di tosse la
costringe a piegarsi e a coprirsi la bocca con un fazzoletto macchiato di rosso;
poi la donna replica al tuo sguardo interrogativo: «So che non ricordi la nostra
amicizia, ma mi hai raggiunta attraverso l’oscurità e questo basta. Non
m’importa se adesso sei un avatar e qualcuno comanda le tue scelte, esisti
ancora qui e adesso».
Osservi con più attenzione l’aspetto dell’abitazione, le pareti esterne sono scolorite dal tempo e su metà facciata si estende un fittissimo tessuto d’edera, ma a parte il tetto in rovina, non noti tracce di crollo, con il risultato di una strana incoerenza fra la tenuta dell’insieme e la condizione di fatiscenza delle singole pietre.
Se escludi lo stato di grave degrado, la struttura dell’edificio non dà
un’idea di instabilità e provi un senso di sollievo, fino a quando non noti
un’esilissima incrinatura
che, partendo dal tetto, scende trasversalmente lungo la facciata fino al
terreno.
L’interlocutore vi rivela di aver perso le forze, di sentirsi consumato, e ammette, seppure con un po’ di riluttanza, che la debolezza e il malessere che lo piegano potrebbero avere un collegamento con i vapori malsani del lago, ma rifiuta in modo categorico la stessa esistenza della Morte Rossa, e si rifiuta di ascoltare quanto hai da dire sulla realtà e la desolazione che vi circondano.
Tuttavia, il furore si sgonfia presto in un sospiro malinconico: «So che non manca
molto alla mia fine, per questo mi sento fortunato ad avervi qui in questo
momento così doloroso». La osservi con l’animo diviso tra stupore e spavento, perché seguendone i passi mentre si allontana, noti una fila di gocce di sangue sul pavimento.
Quando la porta si chiude dietro di lei, ti volti istintivamente verso il
fratello che si è nascosto la faccia tra le mani.
La poetessa malata fa cenno con una mano di non avvicinarti, prima di riprendere il discorso: «Non serve che tu muoia ancora, resta distante, la malattia su di me ha un decorso lento ed estenuante, perché ne rimasi vittima quando il flagello si nascondeva subdolo nella lentezza dei sintomi, rendendoci tutti carnefici inconsapevoli», una lacrima le scorre sul viso e la sua voce si spezza dal rammarico, «rivivere le mie disgrazie non è la cosa peggiore, né lo è rivedere ancora le persone che ho condannato con un abbraccio, e nemmeno spegnermi di nuovo in questo letto. Persino aver dimenticato il mio vero nome, come se la mia storia non mi appartenesse più, per vederlo sostituito con un titolo da arciduchessa dal quel folle di Re Peste, è accettabile quasi quanto essere costretta a partecipare ai suoi odiosi festini».
La donna trattiene un singhiozzo: «Il vero incubo è veder crescere ogni volta
l’esasperazione di mio fratello, fino al punto di credermi – o volermi credere –
morta prima del tempo, chiedendo poi aiuto alla persona a me più cara per
seppellirmi!».
Seguendo prontamente il consiglio della poetessa, raggiungi
Layla, apri la mappa e scegli
un’altra direzione.
Quando infili la chiave con l’effige della Corona nella
serratura della porta, senti il metallo spezzarsi sotto le dita;
ma una voce grottesca risuona nella tua testa, spiegandoti
cosa devi fare.
Restate a fissare la scena, restando celati agli occhi dell’energica ragazza dai capelli rossi, che, una volta scavata la fossa, riversa il cadavere al suo interno e inizia a seppellirlo con metodo, ricoprendolo in pochi minuti. D’un tratto avverti un tremore dal sottosuolo, un rombo sordo a cui segue un crepitio elettrico, simile a un innesco. Una mano pallida e massiccia emerge dal terreno, afferrando con decisione la caviglia della donna che lancia un grido agghiacciante.
Un urlo che i tuoi inseguitori potrebbero aver udito se fossero nei paraggi.
Vi dirigete sotto la volta gotica dell’ingresso, sospingendo la vecchia e
solida porta lasciata aperta, per poi introdurvi in un tenebroso corridoio. Quando finalmente raggiungete la stanza principale, le pareti sembrano essere state verniciate di fresco e i vetri alle finestre risplendono alla luce del giorno, nonostante le scure ombre delle assi inchiodate all’esterno continuino a proiettare un’ombra lugubre sull’ambiente.
Il tuo sguardo si perde a scrutare i dettagli: l’arredo è trasandato, libri e
strumenti musicali giacciono sparsi ovunque, e il disordine generale ti
trasmette un’aria carica di pena. Ha occhi grandi e umidi, labbra pallide e serrate, la linea del naso lievemente ingobbita e il mento privo di ogni prominenza. Questi tratti, uniti ai capelli bianchi più sottili di una ragnatela, gli conferiscono una fisionomia indimenticabile e inquietante, accentuata da un pallore mortale della pelle e da uno sguardo allucinato.
V’invita ad accomodarvi con lui su una coppia di divanetti ingombrati di
carte, che getta a terra senza alcuna creanza: «Finalmente sei qui, sapevo di
poter contare sul tuo aiuto!».
Non appena socchiudi l’uscio della stanza con l’effige del gatto, un felino nero si lancia nel corridoio passandoti tra le gambe. Una fitta alla caviglia ti rivela la presenza di tre profondi graffi paralleli, una rapida ferita lasciata dall’animale nella sua fuga. Prima di fiondarsi nei corridoi della fortezza, la bestia emette un miagolio lento e rabbioso nella vostra direzione. Una profonda cicatrice gli segna l’occhio destro, mentre l’altro ti fissa con odio bruciante per un istante fugace.
Poi, con un balzo, la bestia sparisce dietro l’angolo.
State percorrendo uno dei lugubri vicoli della città, quando vi ritrovate davanti a un’abitazione diroccata dal tetto sfondato, le finestre in frantumi e una croce rossa tracciata con mano tremante sulla porta d’ingresso; è la casa in cui hai incontrato Layla... «Non siamo qui a caso, ho qualcosa da darti», la vecchia sorca ti fa cenno di entrare.
Se vuoi entrare, vai al 54.
Il pazzo ti fissa con i suoi occhi insanguinati e ti indica una stanza dalla porta socchiusa, al lato opposto della sala d’ingresso: «Ogni notte giravo il chiavistello della sua porta e la aprivo a sufficienza per introdurre la testa abbastanza da poterlo vedere giacere sul letto. Oh, avresti riso vedendo l’abilità che ci mettevo, mi muovevo molto lentamente per non disturbare il suo sonno. Ripetei il rituale per sette lunghe notti e ogni mattina, quando il giorno spuntava, tornavo nella sua camera per domandargli in tono cordiale come avesse riposato. Avrebbe dovuto essere davvero molto acuto per sospettare di me», man mano che il racconto procede l’uomo piomba sempre più in uno stato febbrile, all’inizio appariva compiaciuto del suo genio criminale, ma adesso si frega con insistenza le mani e si guarda alle spalle di continuo, con scatti repentini del capo. «L’ottava notte fui più cauto del solito nell’aprire la porta: la lancetta dei minuti dell’orologio si muoveva più veloce della mia mano. Potevo a fatica frenare il mio senso di trionfo, ero là che aprivo l’uscio a poco a poco e il vecchio nemmeno immaginava i miei oscuri propositi. Ridacchiai a quell’idea e forse mi udì, perché si mosse sul letto improvvisamente, come se sobbalzasse. Ora puoi pensare che indietreggiai, ma non fu così: la sua stanza era nera come pece nell’oscurità fitta, le imposte erano chiuse per paura dei ladri, pertanto sapevo che non mi aveva visto entrare. Continuai a spingere la porta, sempre di più, avevo la testa dentro ed ero sul punto di aprire la lanterna, ma quando il mio pollice scivolò sul chiavistello di latta, lui si levò sul letto chiedendo chi fossi».
Perdi il controllo e rinvieni all’ingresso della stanza del vecchio, provando
un feroce istinto omicida che spinge le tue azioni. Il buio attorno a te è
totale, ma ti rendi conto di conoscere ogni centimetro di quella casa.
Ritornate alla bottega di pompe funebri e ripercorrete il corridoio di bare accatastate fino al salone principale. Re Peste siede a capotavola, sorseggiando del liquore alla luce di una fiaccola morente. I suoi commensali fissano mestamente nel vuoto, in silenzio.
Al vostro ingresso, il sovrano posa il bicchiere, nei suoi occhi vacui brilla
una luce di pazza euforia: «Li ho scelti perché sono delle vittime e nel mio
palazzo trovano momentaneo sollievo dalle grinfie dei loro assassini, in cambio
di servigi e lieta compagnia. Tu hai rivelato che le loro vite avrebbero potuto
avere un destino diverso, ma questa liberazione nasconde un inganno: senza la
tua presenza e le tue scelte, loro continueranno a soffrire, proprio come l’avatar,
che ha imparato a diffidare della tua guida e adesso è pronto per incontrare la
Nostra Signora!». La sua altezza ti sovrasta e il volto scheletrico, alla luce della fiammella, è trasfigurato da un ghigno malefico: «Attendiamo il tuo ritorno, o quello di chiunque altro voglia indossare questo povero corpo. E complimenti per la vecchia cessa che ti sei legato al fianco. Se non fossi arcicontento della mia... te la porterei via... Mi dicono voglia farsi Duchessa e togliere il posto al Principe, la putrescente vanitosa... Ma comunque vada, nessuno può dubitare che vi sarà... UN-SOLO-RE-PESTE!
Ah, non lasciare pieghe sulle mie pagine, le detesto».
Vi dirigete ancora una volta verso la fortezza e ti prepari ad affrontare qualunque pericolo pur di portare a termine quest’incubo. Davanti all’ingresso, il massiccio portone si apre come sospinto da una forza invisibile, diffondendo nell’aria il suono lontano di un’orchestra. Mentre l’ingresso si chiude alle vostre spalle, percorrete il lungo corridoio d’entrata illuminato da pesanti fiaccole che rilucono sotto gli stendardi. Il palazzo appare deserto, non noti guardie o inquisitori nel vostro cammino e procedete seguendo la musica senza incontrare ostacoli, fino a quando non raggiungete un’ampia sala da pranzo dove si sta tenendo una festa. Vi accostate a un drappo penzolante per osservare l’interno senza farvi notare e conti più di cento persone che danzano davanti a una tavolata imbandita di ogni bene. Le pareti sono coperte da arazzi finemente ricamati e armi da giostra, ma appoggiato contro il muro opposto al tuo sguardo spicca un gigantesco orologio d’ebano, il cui pendolo emette un suono cupo e monotono. Quando posi gli occhi su di esso scocca l’ora, lasciando fuoriuscire dai suoi polmoni di bronzo un suono chiaro, forte e profondo, con una tale forza che i musicisti dell’orchestra sono costretti a fermare l’esecuzione. Anche le coppie interrompono le danze e su tutta l’allegra compagnia piomba un velo d’inquietudine, ma non appena il riverbero dei rintocchi svanisce, tutti riprendono a ridere e a danzare, quasi imbarazzati del proprio nervosismo, mentre altri rimangono un po’ più a lungo in uno stato di smarrimento. La frenesia dei balli, la voracità dei presenti e l’eccentricità delle vesti ti trasmettono un senso di opprimente fatalismo, come se stessi assistendo all’ultima festa prima di un evento nefasto. Avresti voglia di ballare con la tua sorca, ma decidi di proseguire oltre per non correre il rischio di farti notare dagli inquisitori lì presenti e ti lasci guidare da un orientamento istintivo verso un’ampia sala con sette porte.
Ogni ingresso ha il simbolo di una chiave: inverti le cifre del paragrafo dove le hai rinvenute per aprirne le rispettive serrature:
Se non le possiedi ancora tutte, apri la mappa e scegli un’altra
destinazione.
«Se n’è andato?
Togliti pure quell’espressione smarrita, soddisferò molto volentieri ogni tua
ragionevole curiosità, ma prima lascia che mi presenti: sono il monarca di questo
palazzo e qui regno con autorità assoluta e il titolo di Re Peste».
«M’introduco nella camera del vecchio senza emettere un fiato; il buio è
assoluto, ma ne conosco la disposizione di ogni singolo mobile e mi muovo nel
silenzio come un gatto. Mentre mi avvicino, lo sento sospirare. L’anziano emette
un debole lamento, il gemito di un terrore mortale, non di sofferenza o dolore,
no: è il suono sommesso e soffocato che si leva dal fondo dell’anima quando è
sovraccarica di paura. Lo conosco bene, in più di una notte è scaturito dal mio
stesso petto, aumentando con la sua eco spaventosa i terrori che mi sconvolgono
la mente. So cosa prova e ho quasi pietà per lui, ma non riesco a trattenere un
sorriso. È rimasto sveglio fin dal primo sommesso rumore, quando si è rivoltato
nel letto. I suoi timori sono cresciuti da allora. Forse ha provato a crederli
irragionevoli, a individuarne la causa nella corsa di un topo o nel trillo di un
grillo, ma non c’è riuscito. Non ha trovato alcun conforto nelle sue
supposizioni. Sono solo inutili bugie, perché la morte gli si sta avvicinando a
lunghi passi, con la sua ombra nera».
Non resta molto tempo e non hai vie d’uscita, perderai presto il controllo e contare in un aiuto esterno è una pia illusione; anche Layla ci metterà del tempo ad arrivare; e poi dovrebbe mettersi a scavare... Decidi di applicarti al petto la batteria galvanica, sperando di attingere alla sua energia per poterti liberare, ma devi prima comprenderne il funzionamento.
Una voce femminile, vecchia e rabbiosa, si fa strada nella tua mente, dandoti
le indicazioni di cui hai bisogno (147). F I N E
Ti riprendi a fatica, avvertendo un senso di torpida inquietudine e un sordo ronzio nelle orecchie. Avverti la sensibilità del corpo risvegliarsi e lo percepisci sdraiato su un piano rigido. Apri gli occhi ed è buio totale, i polmoni inalano a fatica, oppressi dalla mancanza di ossigeno; alzi le braccia e colpisci una struttura solida, lignea, a un’altezza dal viso non superiore ai venti centimetri.
L’improvvisa consapevolezza ti provoca una scossa di terrore indefinito: sei
in trappola all’interno di una cassa, tutto intorno a te è vuoto, tenebre e
silenzio.
«Mi trattengo ancora per qualche minuto, cercando di restare fermo, ma il
battito diventa più forte, ancora più forte! Il cuore del vecchio sembra stia
per scoppiare… il rumore è assordante, qualcuno da fuori potrebbe sentirlo! Devo
ucciderlo adesso!».
Sprofondi nella morbida seduta, allungando i piedi verso il fuoco. Soffermi lo sguardo sulle tue calzature luride, fatte dello stesso tessuto della veste stracciata che indossi, ma il tepore scaccia il pensiero della prigionia. La sensazione di calore è piacevole, rilassante. Ti concedi persino il lusso di chiudere gli occhi per un istante, senza pensare a nulla. Quasi non ti accorgi del colpo di martello che vola intorno alla tua scatola cranica, deviato dall'obiettivo grazie alla prontezza della tua vecchia. Ti scuoti e l'aiuti a immobilizzare l'infido ospite. Nella collutazione, sbatte la testa e ci rimane secco.
Ha avuto il suo.
Se invece Layla non è così pronta, il martello ti apre la scatola cranica e
ti rigeneri al 107. «Ti trovi bene con me, Layla?». «Certo, a parte la fatica nello starti appresso... Ma sono molto vecchia per te», ha già capito dove va a parare il mio discorso. «Prima hai detto che ti consideri ancora potente...». «Mi piace vivere e sentirmi le zinne gonfie... ma so di avere i miei anni: potrei essere tua nonna...». «Non esistono nonne come te, Layla... tu sei ancora una fica...», e le stringi i fianchi pesanti, tirandola a te, a contatto con il tuo pisello, che è sul punto di scoppiarti. «So di piacere ancora... ma a volte la mia età mi fa paura... sono molto vecchia, ho paura di crollare...». «Ti aiuterò io, ti curerò». Possiamo provarci, almeno per un po'... Ma ora liberati... fammi succhiare...». Come una vampira, si trova una sedia e aspetta che glielo ficchi in bocca. Ne ha da mandare giù, la vecchia sorca! Se riesce a gestire gli anni, ti sei sistemato. «Non sono finita, valgo ancora parecchio! Posso durare!», esclama Layla, con occhi allucinati, eccitata dalla sua caparbietà. «Nessun dubbio, cara... tu puoi durare a lungo, tu puoi sotterrarmi...», e la baci in bocca, senza alcun problema; ti piacerebbe anche putrefatta.
Avanzate quindi tra i catafalchi e le corone di fiori marci attraverso un lungo
corridoio, dove rimbombano sempre più forte le risa. Lo strano individuo è alto e magro, con la faccia di colore giallo-zafferano e una fronte così spaventosamente alta da sembrare una corona di carne. La sua bocca è contratta e raggrinzita in un’espressione di affabilità spettrale, i suoi due occhi, come del resto quelli di tutta la compagnia, hanno il vitreo splendore che danno i fumi dell’ubriachezza. È vestito dalla testa ai piedi con un drappo funebre adorno di piume nere; nella mano destra tiene un grosso femore umano che agita con ironica minaccia verso i membri della compagnia.
Di fronte a lui, con la schiena rivolta alla porta, siede una dama di non meno
straordinario aspetto ma non certo pari innaturale magrezza: la bocca,
cominciando dall'orecchio destro, le corre fino al sinistro come una
terrificante fenditura; alla sua destra, quasi
celata alla vista, si sta versando da bere una minuscola giovane donna; al suo
fianco, un vecchietto grasso, asmatico e gottoso; vicino a questi, a destra del
capotavola, uno strano soggetto dal vestito elegante, ma con la bocca serrata da
bende e i polsi legati, che ti fissa con gli occhi arrossati, come se ti avesse
riconosciuto; a chiudere la grottesca parata noti un individuo intrappolato in
un feretro che ti rivolge uno sguardo omicida.
«È solo una puttana...», sussurra invidiosa
Layla.
L’uomo vi ringrazia di cuore e vi guida verso una stanza da letto dove
trascorrere la notte. Il male della sorella, vi rivela, è ormai in fase
terminale: la permanente apatia, il consumarsi graduale della persona e gli
attacchi frequenti di catalessi erano stati solo i primi sintomi di qualcosa che
sta ormai per manifestarsi nella sua espressione più tragica.
Un’altra porticina conduce a una piccola toilette, dove una tinozza d’acqua è
stata messa a scaldare su delle braci.
«A quell'epoca, ti accompagnavi a qualche baldracca?», domanda la sorcona, in
modo greve.
«So che cosa stai cercando, solo un folle sarebbe entrato proprio in questa casa. Ma tu non sei folle, come non lo sono io, e pertanto potrai essermi di grande aiuto. Sono tornato qui, sul luogo del delitto, perché le guardie della fortezza hanno scoperto che ero malato e sono stato scacciato dalla prigione dov’ero rinchiuso per aver assassinato il vecchio. Adesso il bastardo ride della mia rovina alla Corte di Re Peste e io ho consumato i miei ultimi istanti nell’ossessione di scoprire il modo giusto di ucciderlo, così da poter riposare in pace. Aiutami e ti darò la sua chiave, così come la possibilità di uscire da qui, da me.
Lo vedi? È lì davanti, non dobbiamo far altro che entrare e ucciderlo.
Prima che il corpo ceda, un debole riflesso tra le rocce della parete cattura
la tua attenzione. Con un ultimo sforzo allunghi la mano e afferri un oggetto
metallico.
Non puoi
fare altro
che portarti lontano dal pericolo, tenendo ben stretta Layla.
Senti affiorare alla mente una fantasia, un’illusione assurda, ma tenace,
giustificata soltanto dalla potenza delle sensazioni che ti angustiano: è come
se le case e i fantasmi che le abitano fossero gravati da un’atmosfera creata ad
arte da qualcuno, una penna macabra che ha descritto questo mondo cupo,
impestandolo di un’aria mefitica che trasuda dai tronchi morti, dai muri grigi,
dallo stagno silenzioso che hai di fronte, mentre una nebbia densa, misteriosa e
opprimente rende le distanze impercettibili.
«Attendo ancora a lungo, molto pazientemente, senza udirlo distendersi,
quindi decido di aprire una piccola, piccolissima fessura nella lanterna. La
apro furtivamente, finché un solo raggio fioco, sottile come il filo del ragno,
guizza fuori e cade in pieno sul suo occhio di avvoltoio. Questa volta è
completamente spalancato e brilla di azzurro opaco, con un orribile velo
sanguigno che mi raggela il midollo nelle ossa; ma non riesco a vedere altro del
volto o della figura del vecchio, perché ho diretto il raggio, come per istinto,
precisamente su quel dannato punto. Ormai sono stato scoperto, non resta che
agire!».
Stai annegando, i polmoni si riempiono di dolore umido e pulsante, mentre
un’ombra ti spegne i pensieri.
Avanzate verso la villa percorrendo un tratto di strada desolato. Vi accompagna un cielo carico di nuvole basse e pesanti che si apre sopra la vecchia dimora come un presagio. Osservi la fatiscente struttura e ti senti preda di una profonda tristezza: le mura lugubri sono segnate dagli sguardi vuoti delle finestre al cui esterno sono inchiodate vecchie assi marchiate da croci di vernice cremisi.
Il simbolo dell’epidemia è stato tracciato persino sui tronchi bianchi degli
alberi morti nei dintorni della costruzione…
Quando infili la chiave con l’effige dell’Inquisizione, apri la porta e vi ritrovate nella sala dei festeggiamenti! Al vostro ingresso cade il silenzio e si sente soltanto l’orologio, ma l’eco dei rintocchi si estingue lentamente, mentre un’impercettibile risata l’accompagna.
Dalle vetrate sanguigne filtra la luce del tramonto e la cupezza dei
drappeggi scuri satura l’aria di uno strisciante senso di fatalità. La sala è
affollata e puoi sentirne pulsare febbrile il cuore della vita, ma al risuonare
dell’ultimo rintocco una presenza mascherata si materializza scatenando un
mormorio di sorpresa e spavento: la figura alta e ossuta è coperta dalla testa
ai piedi da un sudario fradicio di sangue e indossa una maschera rossa priva di
espressione, ma con due terribili pozzi neri al posto dello sguardo. La spettrale figura si porta poi all’ombra della pendola d’ebano, mentre un gruppo di cortigiani ne afferra il sudario per rivelarne l’identità, ed è allora che scoprono, con un gemito d’orrore, che sotto le vesti funerarie e la maschera non c’è alcuna forma tangibile.
La Morte Rossa adesso è lì, tra loro, e tutti ne riconoscono i sintomi sulla
propria pelle: uno dopo l’altro, i baldorianti cadono nella sala ormai invasa dal
loro stesso sangue, morendo nella disperazione. È l'ora in cui la Morte Rossa può ritirarsi. Solo tu e Layla rimanete, all'interno della fortezza, stretti nel vostro irreversibile abbraccio. Ma fuori c'è ancora qualcosa, e altri verranno, prima o poi.
Lei corona il sogno della potente Duchessa, tu il fortunato Duca, nel Regno della Morte. F I N E
«Ne parliamo un'altra volta...». Rimandi la scopata con Layla e decidi di metterti in cerca della donna malata. «Chiuditi dentro e aspettami qui». La malata potrebbe riconoscerti e, magari, darti informazioni meno confuse ed evasive. Ti richiudi la porta alle spalle, ma dopo pochi passi realizzi con orrore che il pavimento si allunga sotto i tuoi piedi, mentre la fine del corridoio si perde nel buio. Dietro e di fronte a te c’è solo un’irraggiungibile oscurità. All’improvviso nell’aria risuona un canto femminile:
Se riesci a trovare la soluzione all’enigma della poetessa, recati al
paragrafo corrispondente al risultato (80).
L’uomo inizia a parlarvi della natura della sua malattia debilitante; si tratta, secondo lui, di un male ereditario, una condanna familiare e, per questo, ritiene che non ci sia scampo, ma poi ribalta il suo stesso ragionamento, dichiarandola una semplice affezione nervosa che si risolverà rapidamente.
La malattia, così come la descrive, anche se in maniera confusa e
contraddittoria, si presenta in una serie di strane manifestazioni: spossatezza
innaturale, sanguinamenti insoliti e una dolorosa ipersensibilità agli odori e
alla luce, motivo per cui non ha divelto le assi dalle finestre.
V’incamminate lungo un sentiero acciottolato dietro il cimitero, finché non giungete all’altezza di una cappella diroccata, l’ombra dei rami di un immenso albero secco artiglia la via sotto i vostri passi e un vento freddo attraversa gli stracci che indossi, scuotendoti le ossa. Una cupa foschia cala rapida come un sudario limitando il vostro orizzonte e guardi all’interno delle rovine del sepolcro alla ricerca di un riparo per un breve riposo.
Ti accorgi che una giovane donna vestita di nero sta scavando una buca,
interrompendosi spesso per guardarsi attorno con fare ansioso, come se temesse
l’arrivo di qualcuno. È immersa fino alle spalle nella fossa e accanto al
terriccio smosso noti un lenzuolo sporco e incrostato come un vecchio sudario
che copre a malapena un cadavere adagiato in una cassa.
Ti prepari alla fuga, quando accanto al pozzo noti una figura emaciata,
ferita e coperta di sangue rappreso.
«Una volta al suo interno, venimmo tutti relegati per quaranta giorni nei nostri alloggi, qualsiasi contatto con i nostri pari era proibito e solo la servitù, opportunamente bardata, poteva portarci del cibo e svuotarci i pitali.
Durante la clausura, chiunque avesse manifestato i sintomi
del morbo veniva scacciato dalla fortezza, come nel caso mio e dei miei
sfortunati compagni, nonché della tua sorca, abbandonati sulla strada come
bestie rabbiose, mentre i sopravvissuti saldavano le serrature dei cancelli per
impedire ogni possibilità di entrata agli appestati e di uscita ai sani. «Ma ora le cose sono cambiate… anche se nella fortezza la piaga cremisi era stata debellata, per ironia della sorte tra quelle stesse mura si è diffusa la tubercolosi e ha colpito una persona molto vicina a sua maestà.
Nessuno sa cosa sia andato storto durante il
rituale mesmerico intentato, o inventato, dal Principe Poeta per guarirne il
corpo, ma ne ha rese le spoglie immortali e aperte all’incarnazione.
Le braccia del cadavere riemergono dal terreno, aggrappandosi con tenacia alle gambe della donna e strappandone la veste scura. La vittima perde l’equilibrio e la vanga scivola ai tuoi piedi. Una testa macchiata da un reticolo di vene esploso in orribili ematomi sbuca fuori emettendo un ringhio rabbioso, ma hai la prontezza di spirito per raccogliere l’attrezzo e colpire senza esitazione, facendo calare la lama di metallo in mezzo a quel cranio già guasto, che si apre con un rumore secco. Per alcuni istanti resti a fissare i rivoli di materia cerebrale maleodorante impastati con il fango, poi noti che dal petto del cadavere una luce bluastra e pulsante riluce sotto la pelle, rivelando l’ombra di un oggetto al suo interno. La risposta arriva senza che tu debba formulare la domanda: «È una batteria galvanica progettata dal Principe Poeta per rianimare i cadaveri dopo la morte». Mentre riprendi fiato dallo scontro, la donna ha aperto con un coltello l’incisione sul torace del redivivo, rivelando la presenza di un piccolo oggetto metallico ancora sporco di sangue agganciato al cuore: «Pensavo che non avesse funzionato, invece ha impiegato solo più tempo ad attivarsi. Un errore fatale che ho pagato con la vita e di cui continuo a scontare ogni giorno la pena ripetendo questa maledetta sepoltura… tranne oggi, grazie al tuo intervento». Il muscolo cardiaco esposto continua a battere debolmente, stimolato dagli impulsi elettrici emessi dagli aghi infilati nella carne: «A causa della batteria, i corpi sopravvivono privi di coscienza, senza un’anima o un pensiero, come burattini guidati da istinti animali». Il dispositivo ramato, con una leggera pressione sul suo rivestimento metallico, si sgancia e sgocciola sangue dalle punte degli elettro-stimolatori, mentre ne ascolti la storia: «L’ho rubata per evitare che venisse distrutta, come aveva ordinato il Principe, e sono scappata dalla Fortezza per utilizzarla nei miei studi», come per reprimere un dolore, la voce si abbassa e trema, rotta da una rabbiosa commozione. «Gli infetti avevano iniziato a consumarsi in meno di un’ora, avevo bisogno di più tempo per studiare l’evoluzione del morbo, la batteria rallenta i sintomi se applicata poco prima della morte, mantenendo il corpo in stasi. Non immaginavo che ne avrebbe accentuato anche la furia, ma l’ho appreso quando sono stata affogata nel fango per la prima volta, con i polmoni perforati dalle mie stesse costole spezzate. Adesso sono intrappolata nel labirinto del tempo con un mostro rabbioso». La sua voce, nel proseguire, aumenta di gravità, come un monito: «In un’altra ripetizione di questa mia disgraziata esistenza ho provato a ucciderti e a intrappolarti, o forse l’ho solo sperato, e non è mai successo. So solo che non dovrei aiutarti, non sei qui per salvarci, finirà tutto a causa tua, ma sono stanca di morire senza scopo. Ho fallito e nessuno curerà più questo mondo. Prendi quello che vuoi e vattene, ti prego». Hai trovato una Batteria Galvanica.
Apri la mappa e scegli un’altra destinazione. Altrimenti, vai al 177.
Le luci fosforescenti sfumano e le acque del lago si ricompattano,
sommergendo le tombe sottomarine che si richiudono con improvvisa violenza,
mentre da esse fuoriesce un tumulto di implorazioni disperate.
Il misero individuo si passa una mano scheletrica tra i capelli serici e incolti con gesto nervoso, lasciando scorrere le dita nella loro trama sottile e disordinata, prima di rivoltarti addosso un fiume di parole: «Siamo stati amici un tempo, ma adesso non puoi ricordarlo. So cosa ti ha fatto il Principe Poeta, ma non so quanto sia rimasto in te della persona che conoscevo. Non siamo più gli stessi di prima. Ho aspettato fino ad oggi il tuo ritorno dalla fortezza, perché sapevo che in un modo nell’altro non mi… non ci avresti lasciati soli».
Dal resto dei suoi discorsi discontinui e dalle sue ambigue allusioni, ti
rendi conto che la sua mente è incatenata ad alcune superstizioni che riguardano
la casa, cui si sente di appartenere e dalla quale non esce da tempo
immemorabile per una cieca sottomissione a forze oscure e indescrivibili che
l’hanno come intrappolato tra quelle mura.
Attivi la batteria e ne avverti gli aghi elettrici penetrarti nel petto fino a raggiungere il cuore. Ogni battito indotto dalla macchina è un’esplosione di dolore, come se una corona di spine avvolgesse il muscolo sempre più in profondità a ogni nuovo battito. La sofferenza è atroce, la pelle a contatto con la macchina sfrigola a ogni scarica, mentre rivoli di sangue corrono copiosi lungo il torace. Perdi il controllo. Il tuo avatar, sconvolto da una tale tortura, grida nel buio della cassa e inizia a colpirne il coperchio con forza sempre maggiore, fino a spaccarsi le ossa delle mani. Le falangi rotte grattano, macinando carne e tendini, ma la lotta disperata prosegue metodica, seguendo il ritmo cardiaco scandito dalle scariche. Alla fine il legno della bara cede e la terra che premeva sulla cima riempie la cassa. I polmoni, già allo stremo, collassano soffocati dal fango, mentre il cervello si spegne, annientato dal dolore e dalla mancanza di ossigeno, ma il corpo continua la sua fuga verso l’esterno, spingendo con le gambe e scavando con le braccia.
Quando la batteria si spegne, consumata dallo sforzo, l’avatar muore libero,
con la metà inferiore ancora immersa nel terreno e gli occhi spenti rivolti alle
stelle.
Per un attimo hai come la sensazione che accanto a lei ci sia una presenza intangibile, sinistra, beffarda; e
se non fosse per i capelli chiari, sembrerebbe il corvo di prima in forma umana.
Da allora ne soddisfo gli efferati capricci per estenderne il dominio là dove la
sua influenza non è ancora giunta, sotto la guida del suo araldo, che risponde
al nome di Re Peste». «Lo sei, infatti».
«Mi chiamo Layla.
Svoltate in un vicolo di cui conservi un orribile ricordo, che non riesci
però a
focalizzare. V’incamminate tra le case in rovina, ne conti sei, ognuna segnata
da altrettante croci di vernice rossa, quando un rumore alle vostre spalle
rivela la presenza di una coppia di inquisitori. Devi seminarli!
Dopo alcune ore di aspro dolore, noti un evidente cambiamento nel disordine mentale del tuo interlocutore. Inizia a vagare di stanza in stanza con passi affrettati, il pallore del suo viso ha assunto sfumature ancora più spettrali, la voce gli si è fatta tremula, come spezzata dal terrore. Lo vedi fissare nel vuoto, in ascolto di un suono immaginario, e quel suo stato inquieta anche te, fino a quando senti distintamente un urlo lontano, forte e aspro, e noti l’uomo pietrificarsi. Ti avvicini appena in tempo per aiutarlo a sedersi e percepisci il suo corpo tremare, mentre un torvo sorriso ne deforma la bocca. Inizia a parlare in modo sommesso e frettoloso: «L’hai sentita? Certo che l’hai sentita… desideravo così tanto che il suo strazio finisse… che miserabile bastardo sono… non ho avuto il coraggio di fermarmi… l’abbiamo sepolta viva! Non ti avevo detto dell’acutezza dei miei sensi? Ascolto da ore i suoi movimenti nella cavità della cripta, eppure non ho osato parlare». L’uomo balza in piedi colto da un genuino terrore: «Non sentite i suoi passi per le scale? Non percepite l’orribile battito del suo cuore affannato? Lei è qui!». Al termine esatto della sua frase, le pesanti ante dell’antica porta che parlando indicava, aprono di schianto le loro fauci nere rivelando, avvolta nel sudario, la figura amata della sorella. I suoi bianchi abiti sono macchiati di sangue e i segni di un’aspra lotta sono visibili su tutto il corpo emaciato. Alle sue spalle, i raggi della luna piena d’improvviso splendono vividi attraverso una crepa nel muro della casa, che attraversa a zig-zag tutta la facciata, dal tetto alla base. «Questa storia non mi piace!», grida Layla, portandoti via di lì, mentre sei quasi in trance.
L'intervento della gran sorca è decisamente tempestivo: appena siete fuori,
lo squarcio nella parete si allarga rapidamente, l’aria turbina impazzita, e le
possenti mura si frantumano.
La donna è sudata e respira con affanno, la buca alle sue spalle è profonda a
sufficienza per seppellire un cadavere. Dev’essere qui da un po’, vi scruta con
attenzione e si avvicina con cautela, mantenendo la pala stretta tra le mani:
«Arrivi dalla fortezza, indossi gli stracci dei carcerati», il tono è
diffidente, circospetto; poi gli occhi le si illuminano increduli: «Sei
l’esperimento del Principe Poeta! L’Inquisizione ti starà dando la caccia, vieni
al riparo, starai al sicuro per un po’», e così dicendo indica un angolo in
ombra alle tue spalle.
L’uomo, dopo avervi bruscamente informato della tragedia, vi chiede di aiutarlo a sotterrare il corpo in una delle cripte nel sotterraneo della casa, giustificando l’insolita decisione con il fatto che il cimitero di famiglia è distante e poco sicuro di questi tempi. Accetti, ma ti è impossibile continuare a guardare la salma senza provare una dolorosa inquietudine: la malattia le ha lasciato addosso la beffa di un rossore appena percettibile sul volto e sul petto. Per questo accogli con sollievo la decisione del padrone di casa di avvolgere la defunta in un telo funebre, poi deponete il corpo in una bara e lo conducete al suo riposo.
La cripta in cui la collocate è piccola, umida e si trova a grande profondità
in un tunnel murario percorso da sottili crepe piene di muffa. Deposto il
funebre carico, l’uomo vi supplica di restare per quella notte a fargli
compagnia nel salone.
La strada vi conduce davanti a una casa dalle solide mura di pietra e il tetto quasi del tutto integro, forse l’unica costruzione non pericolante, se escludiamo la fortezza alle vostre spalle che allunga un’ombra minacciosa sull’intero quartiere. Avanzate verso l’ingresso, percorrendo il vialetto tra due muriccioli che delimitano lo spazio di un giardino, ora invaso da secche sterpaglie. Il portone e le finestre sono state ricavate da un legno solido, resistente alla rovina del tempo e disegnato con gusto. Apri l’uscio con cautela, nel tentativo di anticipare ogni possibile pericolo, ma una voce cordiale ti coglie alla sprovvista: «Entrate pure, non correte pericolo, vi stavo aspettando», l’invito arriva da un uomo alto, dai modi affabili e dai lineamenti gentili, sulla cui fronte cade una disordinata zazzera di capelli corvini; indossa delle vesti da lavoro, sporche di calce e vernice.
«Vi prego di perdonare il mio abbigliamento,
ma ho un lavoro importante da portare a termine».
La giovane risponde alla tua diffidenza con un sorriso triste e disarmante: «Sono… ero... una chirurga di Corte, ho assistito alla tua creazione», la sua fronte imperlata di stanchezza si increspa al ricordo, rabbuiandone ancora di più l’espressione del viso. «Fui allontanata dalla fortezza per aver cercato di studiare il miracolo che rappresenti, prima che ti portassero in cella. Speravo di trovare la cura per il male che ci affligge, ma il Principe Poeta voleva distruggere le mie ricerche, per questo ho preferito l’esilio. Da allora ho continuato a portare avanti i miei studi, contrastando con ogni mezzo la fame, gli assalti di malati e malfattori, e la povertà di mezzi». La donna ti squadra con aria grave e, dopo una breve pausa in cui appare rapita da tristi pensieri, riprende a scavare il terreno: «Sto seppellendo un mio paziente, anche lui era affetto dalla Morte Rossa, ma il suo corpo non si è consumato come gli altri», la giovane scosta il velo sulla figura esanime rivelandone un braccio trasfigurato da una fitta mappa di ematomi e vene esplose, sintomi che confermano la diagnosi. In mezzo al petto noti una profonda incisione slabbrata e ricucita in maniera grossolana: «Un nobile sacrificio per un esperimento fallito.
Aiutami, prima che arrivi l’Inquisizione».
Vi ritrovate davanti a un edificio pericolante con il tetto sfondato.
Varcate l’ingresso che cigola e scricchiola al tuo tocco, poi entrate in un
salone devastato dai saccheggi. In un angolo noti la figura di un uomo in
evidente stato di delirio e inginocchiato su alcune assi strappate dal
pavimento: «Sono sempre stato nervoso, ma perché dire che sono pazzo? La
malattia ha acuito i miei sensi, soprattutto l’udito. Se posso sentire tutto,
persino le voci dall’inferno, come posso essere pazzo?».
«Mentre avanzo nell’oscurità, mi giunge alle orecchie un suono basso, sordo, rapido, simile a un martello avvolto nel cotone: il battito del cuore del vecchio. Forse ha percepito l’influenza funesta della mia presenza, benché non mi abbia visto né udito. Il timore di essere scoperto, nonostante le mie attenzioni, aumenta la mia collera, così come il rullo di un tamburo sprona il coraggio del soldato. Mancano ancora pochi passi, procedo con un leggero movimento alla volta, tenendomi distante da ogni possibile ostacolo. Quando gli sono abbastanza vicino, quasi a poter sentire il suo fiato sul volto, allungo le mani in direzione del collo. Lo sento sobbalzare nell’istante in cui gli appoggio i polpastrelli alla gola, ma prima di poter affondare le dita nella pelle, avverto il filo di una lama penetrarmi con lentezza nel petto.
Mi accascio a terra, contando gli ultimi battiti, ucciso da un misero
coltello da portata».
La città ti appare spopolata mentre ne percorri i vicoli e i passaggi angusti e sozzi.
Molte porte sono sbarrate con delle assi e verniciate con croci rosse,
come durante un’epidemia, nel disperato tentativo di confinare gli infetti nei
focolai generati dal demone della malattia.
Decidi di contribuire alla sepoltura clandestina trascinando nella fossa la cassa dove si trova adagiato l’uomo. Si tratta di un individuo di notevole statura, dal corpo massiccio e dai tratti misteriosamente familiari, sebbene corrosi dalle piaghe.
Quando hai finito di coprire il cadavere con il terriccio, senti di avere più
interrogativi di prima e ti rivolgi alla donna, ma non fai in tempo a
pronunciare parola che la terra trema sotto i vostri piedi.
Se non stessi correndo per la vita, insieme a Layla, ti paralizzeresti dall’orrore della situazione: l’aria è fredda e nebbiosa, le pietre del selciato sono state divelte e sparse in un incredibile disordine fra la maleodorante erba alta che arriva fino alle caviglie, macerie ostruiscono le strade, ovunque regnano le esalazioni più fetide e la luce del mattino filtra spettrale attraverso un’atmosfera satura di vapori pestilenziali. «Che si fa?», chiedi alla tua sorca.
Per risposta, si porta l'indice alla bocca.
«Rimango perfettamente immobile senza dire nulla. Per un’ora intera non muovo
un muscolo, ma nel frattempo non sento il vecchio ricoricarsi. Forse è ancora
seduto sul letto in ascolto, proprio come ho fatto io, notte dopo notte,
ascoltando gli orologi della morte appesi alla parete».
Re Peste scoppia in una malefica risata: «Sul serio non sai dove andare?
Come ti ho già detto, la Morte Rossa ti attende alla fortezza, ma per entrare
forse devi cambiare punto di vista». |
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