Nella stanza dei bottoncini

La caduta

Zothique: L'impalata

Route 666

La Bella Sbottonata nel Fosso

La pistolera è attesa dal verme

Bagno tombale

007: Viva ma assassinata

NELLA STANZA DEI BOTTONCINI

di Salvatore Conte (2024)

Marc doveva farla fuori.

Il Capo si era stancato di lei. Aveva fatto la cresta sugli incassi per l'ennesima volta. E l'ultima.

Quando Marc Robson chiamò Layla Dakmak e le disse che voleva parlarle, la donna si informò. Aveva degli amici nella stanza dei bottoni, amici che non avevano resistito all'impatto delle sue tette da puttana.

Marc sarebbe venuto per ucciderla.

Era venuto il momento della resa dei conti con il suo Capo, e lei sarebbe stata al gioco.

La stanza dei bottoni doveva trasferirsi da lei e coincidere con la sua stanza da letto: in questo modo sarebbe divenuta la stanza dei bottoncini...

Sorrise a quel concetto...

Si era fatta una scrofa, il lontano ricordo della donna perfetta che era stata, ma piaceva ancora. Inoltre era più esperta e decisa di un tempo.

Non si sarebbe fatta togliere di mezzo...

Marc fu puntuale.

Layla lo fece accomodare - l'incontro era a casa sua - e si stappò una lattina di birra ghiacciata - senza usare bicchieri - passandone un'altra all'ospite.

La Dakmak era quasi irriconoscibile rispetto a pochi anni prima: sformata come una grossa vacca, aveva il collo che le scoppiava e ciccia gonfia dappertutto; la stravagante tinta bianca dei capelli la rendeva ancora più bolsa; le restituiva un po' di prestigio il camicione lungo a tunica, fitto di bottoncini.

Nonostante tutto, piaceva ancora, e parecchio.

Lavorava in un grande dipartimento ed era lì che spacciava la merce, in società con una guardia giurata.

Oltre a spacciare, aveva eliminato diversi rivali, a richiesta del Capo.

La poltrona del soggiorno, sotto la sua imponente figura, sembrava un trono.

«Di che mi devi parlare?».

«Cose importanti, da parte del Capo».

«Inizia pure…».

«Okay, ma dammi il tempo di ammirare il panorama…», dopo uno sguardo fortemente allusivo, Marc si accese una sigaretta e cominciò a camminare verso l’ampia finestra del soggiorno, dando le spalle alla donna.

La Dakmak, intanto, pensò che non fosse necessario ascoltare le stronzate che Marc stava per spararle.

Lui era di spalle e lei poteva saldargli il conto senza inutili sceneggiate.

La sua Beretta calibro 9 era a portata di mano tra i cuscini della poltrona.

Quando Marc tornò a voltarsi verso la donna, vide la prolunga della canna puntata contro di lui.

«Che significa, stronza?!».

«Significa che so tutto, idiota».

«Chi è che ti passa le informazioni? Quel coglione di Johnny?».

«Johnny sarà pure un coglione, ma mi è fedele. Tu, no. Tu sei ancora fedele al Capo. E il Capo è vecchio, ormai. È tempo che le donne si facciano avanti…».

«Senti, senti… donne come te, per esempio?

Che aspetti, allora, fottutissima stronza? Premi quel grilletto…».

«Hai ragione, Marc. Mi hai stancato…».

La Dakmak protese il braccio in direzione dell’uomo e fece fuoco senza esitazioni.

STUMPF

Marc, però, rimase in piedi. Niente sangue, nessuna reazione.

STUMPF

STUMPF

La Dakmak sparò ancora, visibilmente irritata.

Quando la donna cominciò a capire, Marc aveva già estratto la pistola.

E dopo averla fissata negli occhi, le piazzò un colpo nella pancia!

STUMPF

Layla sobbalzò all’indietro, schiacciandosi contro lo schienale della poltrona.

«Aspetta...!».

Per una come lei ci voleva altro.

STUMPF

La seconda pallottola la raggiunse allo stomaco.

L’espressione della Dakmak cambiò radicalmente: gli occhi schizzarono fuori dalle orbite, la bocca si spalancò a cercare aria.

Era fatta. Marc l’aveva fottuta.

Tuttavia, l'imponente donnone - animato da una vena di follia - voleva sfidarlo ancora.

Lo fissò, umettandosi il labbro, facendogli credere di avere ancora il controllo.

STUMPF

Marc infierì con un altro colpo allo stomaco.

Stavolta Layla fu colta dal panico.

Un grosso fiotto di sangue le salì in gola, facendole mancare il respiro; strabuzzò allarmata i grandi occhi marroni, e alla fine, piegandosi in avanti, riuscì a sputarlo fuori.

Marc sorrise divertito.

Poteva bastare, per il momento.

Abbassò la pistola e si avvicinò alla donna.

«Sei fatta, Layla...».

«Chi è stato… a fottermi…?», farfugliando con la lingua fra i denti.

«Non dubiterai di Johnny, vero? No… lui è un tuo schiavo. È stato Ric… dovresti scegliere meglio i tuoi amanti… o almeno controllare che non mettano mano alla tua Beretta… ma temo che non avrai abbastanza tempo per imparare.

Non hai più controllato l’arma da quando Ric l’ha caricata con proiettili fasulli… e lo so perché c’è una spia che vede tutto… anche oggi che volevi fottermi, ti sei limitata a innestare il silenziatore.

Decisamente troppo poco.

Io, invece, non lascio nulla al caso. Hai fatto una stronzata, e io ti ho fottuto, Layla».

«Mettiti con me… Marc… insieme… non ci fermerà nessuno…».

«Non sei stanca di dire stronzate? Ti ho fatto il servizio, il mio piombo non scherza…».

La Dakmak lo sapeva bene.

«Bastardo… hai mai scopato… una come me…?».

«Dovresti sapere che sono un professionista: le donne rallentano i riflessi, e per me i riflessi sono tutto.

Ma soprattutto sei diventata un cesso, fai schifo».

Per tutta risposta, la Dakmak prese a palparsi il seno.

Anche se grassa, il suo prestigio e la sua voglia di vivere la rendevano ancora sensuale.

Marc cominciò a pensare che non c’era fretta di saldarle il conto…

Senza volerlo, però, la donna si afflosciò contro lo schienale della poltrona. Gli occhi imbambolati roteavano alla ricerca di qualcosa su cui fermarsi. La bocca era spalancata in modo inquietante.

«Te l’ho detto che il mio piombo non scherza, no?

Ehi, Layla… mi senti? Mi è piaciuto come incassi, sai?

Proprio una gran troia, anche mentre crepi…

Ma ora che c’è? Ti va storta? Pensavo lo reggessi meglio il piombo...». Layla avrebbe voluto reagire, ma i buchi la stavano divorando. «Ti va di giocare ancora un po'...?».
Marc spostò la Dakmak sul divano: imbambolata, la donna si afflosciò su un fianco, cadendo a bocca aperta sulla seduta. L’uomo le fu addosso e cominciò a tastarle il seno…
Il calcolato Marc stava scoprendo le delizie di Layla.
Lei doveva starci per forza. Era Robson che conduceva il gioco.
Se riusciva a farlo godere, forse l’avrebbe portata da un dottore…
Marc si andava rapidamente eccitando contro il morbido corpo della Dakmak, la quale cercava a ogni costo di non mollare, tenendo in vita l’illusione di trovare una via di scampo, anche in una situazione disperata come quella.
Il killer esplose di piacere, rilassandosi contro il divano per assaporare appieno il gusto di essere stato l’ultimo a divertirsi con una tale stronza.
«È ora che io vada, Layla.
Addio…».
Senza aggiungere altro, Marc si alzò e lasciò il soggiorno. Poco dopo il portone si richiuse sonoramente.

La Dakmak era rimasta sola: con tre pallottole in corpo, ma incredula di essere ancora viva…
Marc Robson, quella schifosa nullità, era andato via. La sua idea aveva funzionato. Ora doveva pensare a salvarsi…
Si lasciò scivolare sul parquet, sforzandosi di ricordare dove avesse lasciato il cellulare.

Quel maledetto cellulare…
Doveva trovarlo, doveva chiamare qualcuno.

Sì, era di là. All'ingresso. Era lì che l'aveva lasciato. Doveva arrivarci. Layla sembrava crederci. Col sangue alla bocca, la donna protese in avanti il braccio destro per coprire, strisciando, il terreno che la separava dal cellulare.
Un brutto imprevisto, però, le sbarrò la strada sul più bello.
La pistola di Marc Robson era di nuovo puntata contro di lei...
L'ombra della delusione oscurò il volto di Layla.

Poi, prima dell'irreparabile, la mano destra si protese disperata in aria, staccandosi dal pavimento: «No! Aspetta...!».
Marc si godeva la scena con un sorriso sardonico sulla faccia da aguzzino. Non aveva mai pensato di lasciarle scampo. Non era mai uscito dall'abitazione.

La lasciò implorare...
«Non voglio morire... Marc... no!».
Un lampo crudele guizzò negli occhi del sicario…
STUMPF
Robson fece fuoco per la quarta volta.
Il corpo della Dakmak sobbalzò ancora. La pallottola la raggiunse al petto, attraversando il polmone.

La testa della donna ricadde pesante sul parquet.

Marc Robson la guardò soddisfatto: conto saldato e lavoro finito.
«Ti ho fottuto, Layla», sussurrò il killer; quindi si allontanò con tutta calma.
Il suo amico Jim, al Daily Telegraph, avrebbe titolato così: “Avvenente impiegata di nota multinazionale, freddata tra le mura domestiche con quattro colpi di pistola”.

Layla non lo sentì nemmeno entrare.

Johnny la rivoltò supina.

Lei lo fissò incredula con lo sguardo annebbiato.
Poco dopo si udì l’ossessivo ululare di un’ambulanza.
Le mollò un lungo bacio, che era anche una grossa bolla d'ossigeno, lasciando sul parquet una mazzetta per lo staff medico. Lui ci teneva tanto a entrare nella stanza dei bottoncini.

L'ambulanza ripartì a sirene spiegate.

Layla Dakmak tentava l'ultima corsa.

LA CADUTA

di Salvatore Conte (2023)

Francia, 1789.
Nella città bretone di Saint-Malo si diffondeva il virus della Rivoluzione.
Una parte della popolazione era da sempre gelosa della propria autonomia, rivendicata e ottenuta sin dal secolo XIII, con il diritto di nomina dei magistrati municipali.
Ma l’altra parte, quella delusa e frustrata, era ansiosa di novità, qualunque genere di novità.
E aveva individuato l’incarnazione più che concreta dei principi rivoluzionari: Liliane la Grande.

Una procace, lardellosa cameriera tra i 40 e i 50, dedita ormai più all'alcol e alla prostituzione che non al proprio lavoro, frequentatrice di canaglie, e truffatrice ella stessa, avvezza a vivere di espedienti, ma con smanie di grandezza e la capacità di esercitare sugli adepti della setta rivoluzionaria un fascino sinistro e ambiguo, quasi ipnotico; una praticona con le mani in pasta  quasi ovunque; vestiva spesso una tunichetta bianca molto succinta, che metteva in evidenza le forme grasse e arrotondate: spalle, braccia, zinne, cosce e culo, tutto era in ordine e in bella mostra; e sopra a tutto si stampavano il sorriso accogliente e la faccia simpatica e goliardica, lontani dalla sua vera natura di donna infida e manipolatrice.
Massiccia, imponente, prorompente, spesso ubriaca con i capelli castani arruffati sulla fronte, ma ferocemente decisa a emergere, si aggirava per le strade di Saint-Malo con la tunichetta bianca gonfiata dal pesante seno: Liberté, Égalité, Décolleté.
Sottovalutata dall’establishment cittadino, Liliane sfruttava la sua apparente innocuità organizzando una rete sempre più vasta di aspiranti rivoluzionari.
Smodatamente ambiziosa, aveva deciso che il primo passo che avrebbe mosso per scalare i gradini del potere, e arrivare fino a Parigi, sarebbe stato quello di imporsi nella propria città e di cambiarle il nome e l’orientamento sessuale. Da Sindaca a Deputata Nazionale, l’ascesa sarebbe stata rapida.
Dodici dei suoi giurati fedelissimi le appuntarono, in gran segreto, i gradi di Marescialla in Capo dell’Esercito Popolare Rivoluzionario di Sainte-Liliane, nuovo nome della città a partire dal 1789, o comunque da quell'anno, qualora anche il calendario fosse stato rivoluzionato.
Il piano prevedeva l’assalto, in punta di forcone, alla piccola guarnigione della città. Contando sull’effetto-sorpresa, si sarebbe razziata l’armeria dei realisti; dopodiché, tutti uniti, si sarebbe marciato fino al Municipio, con Liliane la Grande in testa.

Ma la resistenza della piccola guarnigione cittadina fu superiore a quanto previsto: si combatteva corpo a corpo, baionette contro forconi.
Liliane la Grande cercava di non esporsi troppo, ma il marasma era tale da non consentire margini di sicurezza assoluti.

Il destino era in agguato, spesso si avvantaggia della confusione.
Liliane la Grande cercò di nascondersi in uno stanzino, dove però si era già rifugiato un soldato della guarnigione. Era giovane, spaventato.
«Non vo…», ma quello non la fece nemmeno parlare: la paura lo aveva reso folle. Il soldatino affondò la baionetta nella pancia della rivoluzionaria, proprio attraverso la coccarda tricolore, quasi fosse stata presa a bersaglio, almeno a livello inconscio, visto che il ragazzo era inebetito dal panico.

«Uuuhh…!», l’urlo strozzato di Liliane la Grande, gli occhi sbarrati, la paura che la sferzò come un vento gelido.

Per un attimo i loro occhi si incrociarono: lui l'aveva riconosciuta, lei vedeva Parigi allontanarsi.
Subito dopo il lealista estrasse la baionetta dal ventre molle della donna e cercò disperatamente di trovare scampo, ma venne soverchiato dagli uomini di Liliane la Grande e trucidato sul posto.
«Non è niente… avanti…», si affrettò a dire Liliane la Grande, sapendo di mentire a sé stessa e agli altri.
La feroce battaglia volse infine all’epilogo: i forconi avevano vinto e si erano trasformati in baionette.
La massa applaudiva ai lati delle strade, mentre le squadracce rivoluzionarie marciavano verso il Municipio.
Liliane la Grande era trasportata in barella, aggiungendo alla tragedia di Francia un elemento scenico di grande efficacia drammatica. Le mani rattrappite che uncinavano l'aria, la blusa insanguinata, la coccarda ormai ridotta a un monocolore rosso: sembrava essersi immolata sull'Altare della Rivoluzione. E in fondo lo era stata.
Il partito degli incerti cominciava a propendere per il nuovo che avanzava.
Quello degli opportunisti prendeva atto che il vento della storia stava cambiando.
Il Municipio era deserto, i consiglieri in carica assenti, nessuno oppose resistenza.

Era il trionfo di Liliane la Grande, guastato da una brutta ferita, che però ne esaltava, oltre i suoi stessi meriti, l’eroismo rivoluzionario.
Incoronata Sindaco della rivoluzionata città di Sainte-Liliane, Liliane la Grande troneggiava imbambolata, lo sguardo annebbiato, sul seggio più alto del consiglio cittadino, con ambo le mani pressate sullo stomaco.
Un’immagine autenticamente rivoluzionaria, che incarnava in pieno l'epica violenza di quei giorni.

Per riuscire a farla stare seduta, l'avevano imbottita di alcol, il suo amato alcol.
Ma la prima riunione della giunta rivoluzionaria venne presto interrotta dalla ferale notizia di un imminente contrattacco delle forze lealiste.
Uno squadrone di cavalleria era giunto inaspettato a Saint-Malo.
La folla tornò nelle proprie case.
Gli incerti recuperarono i loro dubbi.
Gli opportunisti aggiornarono le previsioni del tempo.
Il Municipio era sotto assedio.
I realisti cominciarono a penetrare al suo interno.
Liliane la Grande non aveva vie di fuga. Era fragile, non poteva muoversi, non poteva fuggire, veniva abbandonata dai suoi stessi uomini.
Fu costretta ad attendere il destino al proprio posto, quello di Sindaco.

Benché fosse già agonizzante, fu deciso di fucilarla, per non correre rischi e rendere la punizione esemplare.

E venne fucilata su quello stesso seggio.

L'altalena del potere le era risultata fatale.

Un attimo prima della fine - con sei carabine puntate contro - ebbe un sussulto e gridò: «NO!», con tutte le forze rimaste, guardando disperata negli occhi i suoi carnefici.

Chissà... forse sperava che quell'urlo potesse disturbare la concentrazione di qualcuno dei fucilieri.
Fu falciata, infatti, dalle pallottole, ma non da tutte: un paio si persero nel Municipio, una la raggiunse alla spalla, un'altra le pizzicò il fianco, un po' decentrate rispetto al bersaglio grosso; un paio d'altre le distrussero le budella e lo stomaco, entrando attraverso la coccarda tricolore (usata a mo' di bersaglio); ma il cuore era di sicuro illeso.

Niente "Viva la Rivoluzione": un urlo ben poco eroico, dunque, ma la realtà è quasi sempre altro rispetto alla retorica delle cose, specie quella di una puttana di questo genere.

Rimase sospesa a schiena dritta per un attimo che sembrò infinito…

Approfittò di quell'attimo per guardare ancora negli occhi i giovani fucilieri.

Uno sguardo strano. Non di odio. Ma quasi di perdono. E perfino di ringraziamento.
Poi - dopo un estenuante rantolo - si afflosciò su sé stessa, piegando la testa sul petto.
Il comandante del plotone d’esecuzione si avvicinò e le sollevò il capo, afferrandolo per i capelli: gli occhi della rivoluzionaria erano schizzati fuori dalle orbite, impossibile incrociarne lo sguardo.

L’ufficiale lasciò la presa e la testa tornò inerte al suo posto, piegata sul petto.
Il colpo di grazia non serviva a nulla.
L’annuncio che la popolana rivoluzionaria, detta Liliane la Grande, era stata giustiziata, fu dato, però, con troppa fretta.
Gli animi erano accesi e l’intempestiva notizia scatenò l’ira dei cittadini, che insorsero in massa, sobillati dai rivoluzionari superstiti.

Probabilmente ci si aspettava che l'esecuzione di Liliane la Grande, colpita a morte in battaglia, venisse sospesa e la rivoluzionaria lasciata morire della sua ferita.
Il Municipio fu circondato dalla folla e con il solo vantaggio del numero gli insorti tornarono fulmineamente a occupare la sala del consiglio, abbandonata dai realisti in ritirata.
L’attenzione fu subito rivolta al massiccio corpo di Liliane la Grande, rimasta di sasso sul seggio del Sindaco.
«Eccola…!
L’hanno fucilata sul posto…», constatò il primo rivoluzionario che le giunse vicino.
«Però hanno omesso di spararle il colpo di grazia. La testa è asciutta», osservò il secondo. «Forse hanno commesso un errore, proviamo a chiamare un dottore…».
«Ma… è stata fucilata... è morta...».
«Sei forse un disfattista, compagno cittadino?

Dobbiamo provare… forse non è ancora morta».
Il dottore fu chiamato.
Intanto, però, all’interno del Municipio, veniva allestita la camera ardente: tutti i cittadini di Sainte-Milene avrebbero potuto vedere per l’ultima volta il loro primo Sindaco.
«Il dottore dovrebbe muoversi, dannazione… ma dov’è finito?».
«Forse ha avuto paura, un medico non sa mai da che parte stare…».
«Eccolo… finalmente…
Dottore… non l’abbiamo ancora toccata…».
Il medico le ficcò due dita in gola, brutalmente.
Dal corpo di Liliane la Grande eruttò un grumo di sangue.
Subito la curiosità dilagò per la sala: era stato uno spasmo involontario, uno spasmo estremo, o uno spasmo e basta?

L'atmosfera si fece pesante.

Fu la volta dei sali.

La lingua della donna scattò come una molla sotto il palato.

Gli occhi al cielo, alla ricerca di un raggio di luce; le mani rattrappite a morte, a grattare l'aria come fosse una parete di roccia.

Era viva. Sebbene più morta che viva. Non completamente morta.
L’esame del medico fu pesante: «A parte la ferita d'arma bianca, che le sarebbe comunque fatale, due pallottole sono mortali: vedete qui che interessano fegato e stomaco; le altre, invece, non sono immediatamente letali».

Più che una diagnosi, un'autopsia.

«Insomma, hanno sparato storto», concluse il rivoluzionario; non tutti, ma una buona parte.

«Storto... in che senso?», il medico non aveva capito.

«Egregio dottore, il servilismo militare ha una sua graduazione, come tutto del resto.

Anche la vista dicono abbia una sua graduazione; in ogni caso, non tutti ci vedono bene; non tutti sparano bene; non tutti hanno voglia di sparare a sangue freddo». Poi si rivolse al compagno: «Sentito? Soltanto due pallottole mortali…».
«E ti sembrano poche?».
«Per una come lei, sì…
Si può ancora fare qualcosa, lo sento».
Ma il medico non era dello stesso avviso: cure compassionevoli e mezzora di vita al massimo.
«Non c’è più niente da fare, sono spiacente», la sua sentenza finale.
Liliane la Grande, però, tornata a respirare, stava assorbendo lo shock: gli occhi erano tornati nelle orbite e - nonostante tutto - guardavano eccitati il mondo.

Certamente non pensava di risvegliarsi viva e poteva inoltre sentirsi soddisfatta di aver impressionato più della metà del plotone di esecuzione, inducendo diversi fucili a sbagliare la mira.

Insomma, da un punto di vista democratico, aveva vinto. Aveva ipnotizzato anche gli elettori più estremi, era il Sindaco di tutti.

In fondo non aveva ancora ceduto l’ultimo respiro: quei giovani, estremi elettori le avevano concesso una piccola possibilità, un difficile mandato, e lei - per quanto piccola o difficile - l'avrebbe afferrata oppure portato a termine. A tutti i costi.
Intanto la gente di Sainte-Milene sfilava, con alterni umori, ai piedi della rivoluzionaria morente, rimasta aggrappata al seggio del Sindaco: chi la incoraggiava, chi rimaneva intimorito nel vederla in fin di vita; Liliane la Grande era una maschera di cera su cui aleggiava un'ombra oscura: si teneva in vita grazie a una forza quasi sovrumana e forse allo smodato compiacimento di godere del proprio trionfo, benché effimero.

Sembrava indemoniata, era feroce e faceva quasi paura.
A tratti si sforzava di sorridere, appalesando euforia per essere rimasta in gioco a sfidare la sorte, dopo una baionetta davvero ben piazzata e un plotone d’esecuzione.
«Mesmer! C’è Mesmer qui a Saint-Ma… qui a Sainte-Milene…!», l’annuncio improvviso, dall'ingresso della sala.
«Che significa?».
«È appena sbarcato dalle Americhe… una pattuglia popolare lo sta portando qui».
Franz Anton Mesmer, un po’ come tutti, non immaginava che la situazione precipitasse tanto in fretta.
Per lui, però, cambiava poco: osservava gli eventi mondani da migliaia di chilometri di distanza, le illusioni della massa non lo riguardavano. Per lui si trattava soltanto di una visita urgente.
Il miglior medico al mondo contro la peggior paziente al mondo.
«Ora ho bisogno del massimo silenzio, cittadine e cittadini: schiamazzi improvvisi possono danneggiare l’inferma».
Si piegò su Liliane la Grande, il pendolo che oscillava, i suoi occhi dietro al pendolo.
«Anima della Rivoluzione... rientra... rimani... riposa...

Tu stai bene qui, Liliane la Grande. Con noi. Con me. Tu non partirai.

Se parti, il freddo ti ucciderà per sempre. Tu stai bene qui, fa caldo fra di noi, fa caldo qui con me.
Tu stai bene qui, Liliane la Grande. Tu non partirai.
Tu stai bene qui, Liliane la Grande. Tu non partirai.
Tu stai bene qui, Liliane la Grande. Tu non partirai, Anima della Rivoluzione».
Si rivolse infine ai suoi uomini: «Evitate i rumori, non deve risvegliarsi».
«Ma… ce la farà…?».
«Non ho detto che ce la farà. Ma possiamo guadagnare un po’ di tempo, intanto.
Rendere la caduta un po’ più lenta e attutire il colpo».
Franz Anton Mesmer si trattenne a Sainte-Milene per altri tre giorni.
A Parigi lo attendevano alcuni appuntamenti importanti, ma - ormai mesmerizzato - decise di rinviarli e di riprendere il mare per tornare a casa attraverso la via più lunga.
Sebbene non si occupasse di masse, le masse avrebbe potuto occuparsi di lui.
Per la sua caduta c’era ancora tempo.
Tutti volevano sapere che ne era stato di Liliane la Grande.
Il suo corpo, però, non venne più ritrovato.
La Rivoluzione, soffocata dal piombo e dalle baionette, era stata svenduta e Mesmer aveva comprato sottocosto, al prezzo di un'esperienza ormai senza speranze.
La Rivoluzione andava ricucita ed esportata, trasferita sul Lago di Costanza.
Ma non era per tutti.

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L'IMPALATA

di Salvatore Conte (2024)

L’agonia può durare ore, anche giorni, se non vengono compromessi gli organi vitali. E chi è bravo a impalare, riesce a evitarlo, così da garantire al pubblico estenuanti e spettacolari agonie, concedendo alla vittima il tempo di suscitare compassione.
Una come Frexa avrebbe forse ottenuto - dopo un paio di giorni - di essere deposta; tolta da quella scomoda posizione; ma con grande e meticolosa attenzione, perché sviscerarne il palo - giunti a quel punto - ne avrebbe accelerato la morte.

Il primo passo sarebbe stato quello di metterla in posizione orizzontale, con tutto il palo ancora conficcato dentro.
Quindi bisognava sviscerarlo centimetro dopo centimetro, dandole ogni volta il tempo di assestarsi, per evitare che le emorragie interne dilagassero e la uccidessero sul colpo.
Il suo destino era segnato, ma procedere con queste cautele poteva farle guadagnare qualche ora.
Giunti alla fine, non si butta via niente.

Proprio come adesso, nella camera della vigile attesa di Avandas, dove Frexa, la cortigiana impalata, lotta per guadagnare altro tempo, mal rassegnata a cedere.

È stata colpita da una congiura di palazzo; nel modo peggiore; ma secondo precisi rituali.

Prima impalata in pubblico, poi deposta a furor di popolo, sviscerata e assistita, mentre singhiozza e impreca, aspettando la morte.

Impalata con un'asta appuntita di legno, da sotto a sopra, con il bastone fatto fuoriuscire dalla spalla destra.

Chi rimane fedele alla vittima, o comunque chi se ne fa impietosire, ha il diritto di assisterla con acqua e cibo, senza però toccarla.

Molti i messaggi di solidarietà lasciati ai suoi piedi:

Non lasciarti andare, Frexa!
Noi crediamo in te!
Tenta fino all'ultimo!

I magistrati controllano che l'antico rituale sia rispettato.
L'asta è stata infilata con grande maestria, secondo precisi calcoli anatomici.
L'operazione, se eseguita correttamente, consente all'impalato di sopravvivere per ore, se non addirittura per giorni.

La vittima viene tenuta ferma, immobilizzata, all'atto dell'impalamento: per il suo stesso bene... se così può dirsi.

     

     

Lo shock è comunque enorme e di per sé letale: solo chi è dotato di un'estrema forza di volontà e di profonda durezza può riuscire a sopportarlo.
Frexa è tra questi pochi.
Vuole giocarsi le sue ultime possibilità, non accetta di morire.
Nessun altra donna a Dooza Thom oserebbe tanto.
Ma lei è speciale, una potenza, quasi indistruttibile.

Dopo due lunghissimi giorni di agonia, aveva ormai impietosito mezza Avandas.
I più devoti le passavano da bere porgendole un boccale alle labbra.
Se l'impalato riesce a resistere, e ottiene numerosi atti di devozione, allora viene sviscerato.

Il palo è stato introdotto con grande perizia: il cuore della potente cortigiana è illeso e il polmone è stato appena sfiorato.

Frexa è ancora in grado di lottare.
Potrebbe lasciarsi andare, ma lei preferisce lottare.
Conosce la possanza e avvenenza del suo corpo, e vuole sfruttarle.

Vuole suscitare compassione e ottenere le migliori cure.
Secondo gli usi, è stata portata a consumare la sua agonia in un luogo a ciò preposto.
Ma per vederla cedere, bisogna pagare caro.
L'oro finisce nelle casse della città.
Può reggere ancora diverse ore, cuore e polmoni funzionano, lo spettacolo sarà lungo e costoso, per chi non potrà farne a meno.
Nessuno tra i congiurati pensa che la cosa possa diventare un fastidio.
Anche se sa lottare, Frexa è fottuta.
La cortigiana impalata non è più un problema.
Vederla morire con tanta difficoltà ha riacceso per lei una forte devozione, ma il nuovo regime ha preso il potere e non teme resistenze.
Frexa è stata trasportata nella camera della vigile attesa, dove i condannati per impalamento attendono la fine, una volta che gli è stato sviscerato il palo.
Le cronache della città annotano tutti i casi.
La camera è molto grande; in effetti è un teatro con tribune a semicerchio.
Sulla scena c’è il morituro da impalamento, disteso su un letto.
Al capezzale della famosa cortigiana sono giunti maghi, curatori e streghe.
Ne sono ammessi sei per volta, tre per ciascun lato del giaciglio.
Gli altri attendono a bordo scena.
Prendono il posto di chi è congedato, secondo un cenno del morituro.
I sei cercano di farle guadagnare un po' di tempo. E di non farsi scartare. Ne va del loro prestigio.
Le condizioni di Frexa si vanno via-via aggravando.
La fine è pericolosamente vicina.
Nel suo sguardo potente si è fatta strada la paura.
Anche lei deve cedere.
Tutti sono ormai pronti.
Dilaga la notizia per la città.
Frexa non riesce più a gestire la situazione.
Arriva altra gente. Si cerca di capire quanto davvero manchi, o se - addirittura - sia già cadavere.
L'idea comincia a serpeggiare, perché vengono avvistati diversi negromanti.
Il morituro può chiedere di vivere oltre la morte.
E Frexa, si dice, ne abbia tre intorno a lei.
L'ansia di notizie aggiornate e di previsioni attendibili diventa sempre più febbrile da parte dei tanti che non possono permettersi di accedere alla camera della vigile attesa.
Deve uscire un portavoce dei devoti per comunicare alla folla che l'aristocratica Frexa è viva ed è impegnata a lottare.
Al momento dell'aggravamento fatale, verrà sventolato un drappo bianco.

Uno nero, al momento della fine.
Gli altri impalati, intanto, sono tutti morti.
Vengono deposti a terra già cadaveri.
Frexa è l’unica a strisciare ancora per Zothique con un lembo di pelle addosso.
C’è chi dice che vivrà nella sua stessa tomba, cibandosi dei vermi che si illuderanno di spolparla.
L’attesa si fa spasmodica, logorante.
Gli spettatori si fanno portare il cibo sulle tribune, perché la situazione potrebbe precipitare da un momento all'altro.
Si rassegnano ad assentarsi solo per i bisogni indifferibili.

Ma c'è perfino chi non rinuncia per nulla al mondo.
In mezzo a tutto questo, su Dooza Thom muove un terzo incomodo: l’ambizione di Ustaim, che mira a riunificare sotto di sé l'intera regione nord-orientale di Zothique.
Approfittando del cambio di regime, i mercenari di Aramoam attaccano sia per terra che per mare.
Erano pronti a intervenire e lo stanno facendo.
Nonostante l’emergenza, però, l’attenzione della città rimane catalizzata sulla sorte di Frexa.

La morte assedia la cortigiana, il nemico la città.
Però quando i mercenari di Ustaim cominciano a penetrare in città, gridando alla vittoria senza incontrare resistenza, e trovano folla solo nei pressi della camera della vigile attesa, allora capiscono che l'impalata non è una donna qualunque, che una così ce l’ha solo Dooza Thom.

ROUTE 666

di Salvatore Conte (2024)

«Forza… dobbiamo muoverci… intanto ci avviciniamo...

Mettiti qualcosa addosso, Cristo...!».

«Ma dove… lo sai che sto male… non ce la faccio…», si preme l'addome.

«Andiamo… non fare la stupida… se rimani qui, ti ritroverai con qualcosa di peggio nella pancia!».

«Peggio di quello che ho?».

«Esattamente».

«Che vuoi dire…».

«Che stanno per venire qui, perché hanno deciso di saldarci il conto.

Dobbiamo sgommare, e subito!».

Bravo, Sal: il termine è appropriato.

«Non dimenticare la pistola: venderemo cara la pelle».

«Ho capito... ho capito... la mia, però, non vale molto...».

«Hai ancora un paio di settimane, non buttarle via...».

«Così poco...? Ma che dici, cocco? Io voglio salvarmi...».
«Si è allargato, lo sai...».
«Però con la radio ci sono i primi risultati… in alcuni punti l'ho fermato... posso guadagnare tempo…».

«D'accordo, rifarai la radio... tenteremo il tutto per tutto...  ma adesso muoviti, Betty!».

Con la complicità di Sal Conte, un mafioso italo-americano, Betty Coleman si è sbarazzata del suo pidocchioso lavoro di fioraia; la cosa, però, non le ha portato molta fortuna, perché un tumore galoppante all'intestino, con gravi metastasi al fegato, l'ha messa in ginocchio.

Tuttavia, neppure il cancro le ha tolto il vizio di godersi la vita.

Ha deciso di lottare fino all'ultimo, con la bava alla bocca, e tanti soldi in tasca.

Il pensiero di morire la tormenta, ma lo addolcisce con quello del denaro sporco di Sal; e con questo è sicura di poter trovare una via di scampo, anche se le rimane poco da vivere.

«Hai preso i pannolini?».

«Certo...».

Quando ha saputo di non averne per molto, si è messa completamente nelle mani del malavitoso Sal, che però, per cercare di aiutarla, l'ha messa ancora più nei guai, andando a truffare dei pezzi da novanta.

Insomma, la potente Betty Coleman si è vista diagnosticare un tumore aggressivo al colon, giunto rapidamente allo stadio 4.

         

C'è poco da fare in questi casi.

La 48enne è andata nel panico. Non ci sta a crepare. È ancora bona e vuole invecchiare.

Betty Coleman, quasi crudele nella sua determinazione, sta tirando avanti più a lungo del previsto, aggrappandosi a qualunque mezzo, con la faccia gonfia a causa dei farmaci che la rende ancora più troia e la camicia sempre sbottonata.

Adesso, però, la resa dei conti è vicina.

Non ha fatto altro che entrare e uscire dall'ospedale, per il prelievo dell'ascite, il liquido tumorale prodotto dalle budella marce, e per continue ecografie, eseguite nella speranza che il tumore desse qualche segno di rallentamento, dopo le sessioni urgenti di radioterapia, dal modesto risultato finale.

La donna vive nell'incubo di una metastasi al pancreas, che metterebbe fine ai giochi; in ogni caso, la situazione volge al peggio: talvolta espelle all'improvviso, talaltra va incontro a dolorosi blocchi intestinali; l'apparato digerente non funziona più.

La Coleman è arrivata alla stretta finale. Guadagnare tempo le rimane sempre più difficile.

Per cercare di entrare dentro Area 51, dove si dice esistano terapie efficaci contro il cancro, Sal Conte ha riciclato 6.000.000 di dollari, restituendone solo una piccola parte.

E con certa gente, gli sgarri si pagano cari.

Inizia il viaggio, e lei non fa molto per non attirare troppo l'attenzione, con la sua magliettina scollata e la faccia da puttana.

Ma sono le ultime cartucce e vuole spararsele tutte, anche a costo di rimanere uccisa imbottita di piombo.

Sal procede lungo la vecchia Route 66.

Betty ha già i suoi problemi.

Il mafioso le vuole evitare un’indigestione di piombo.

Hanno con sé un bel po' di soldi. Potrebbero nascondersi e aspettare che la situazione precipiti senza pressioni esterne.

Non si sa con precisione quando avverrà.

Ma potrebbe essere presto. La 48enne ha retto il gioco anche troppo.

Basterebbero un'emorragia fulminante, o un blocco intestinale, per affossarla.

«Possibile che non bastino sei milioni di dollari per entrare ad Area 51?».

«Forse basteranno, stanno decidendo. Non sono i soldi il problema principale».

«Ah no? E cosa, allora?».

«Ci sono molte richieste, Betty.

Ma loro lo sanno che sei un pezzo da collezione. Pertanto non ti lasceranno crepare. Perché le cose belle sono poche e vanno collezionate, cioè conservate».

«Loro... loro chi?

Io intanto... io non mi sento bene, Sal... trova un posto e fermati», la voce è pressante.

«Qui intorno non c’è niente.

Siamo a Two Guns, una pompa-fantasma».

«Che cosa?».

«È una vecchia pompa della benzina, da tempo in disuso».

«Va bene, fermati lì...».

«Si può sapere che hai?».

«Sto male… te l’ho detto… cosa pretendi…».

«Dimmi che hai».

«Mi fa male la pancia… ho bisogno di andare... dammi la pillola…».

Betty si è bloccata. E il farmaco non riesce a stapparla.

La cosa è dannatamente seria.

Il tumore l’ha invasa, ma il malato non si rassegna mai, spera sempre di avere altro tempo. Ormai, però, basta poco per aggravare un quadro critico come il suo.

«Ti faccio una siringa, Betty».

«No... aspetta... qualcosa si muove...».

La conferma presenta il suo lato sgradevole, ma è meglio così.

La Coleman l'ha sfangata.

I due si sistemano all'interno della vecchia stazione di servizio.

E cala la notte.

La Coleman ha avuto paura: un campanello d’allarme ha squillato forte dentro la sua testa. Le rimane poco, ma vuole vivere.

«Ascolta, Sal… sei tu che gestisci gli affari... loro vogliono te... non me... nessuno mi toccherebbe...», c'è un lampo di lucida follia negli occhi diabolici della 48enne sbottonata.

Sal non ha nemmeno il tempo di pensare al peggio, che già vede la canna della pistola puntata contro di lui.

«Ma che cazzo fai?!».

Betty ha deciso di fregarlo.

Si fa consegnare il revolver e lo infila nella borsetta.

«Addio, bello.

Non ti ammazzo… ma non cercare di seguirmi...», dice, ironicamente, la donna.

POW

Uno sparo che non fa rumore, in un posto come quello.

Non lo ammazza, ma gli fa saltare un ginocchio.

E adesso via... verso l'ultimo capitolo della sua vita.
Proseguirà da sola. Può farcela. Non si lascerà uccidere. Troverà una via di scampo.

Prende la valigetta con i soldi e se ne va.
BANG
BANG
I colpi esplodono improvvisi nell'oscurità del deserto.
La Coleman è raggiunta dal piombo (!), ha due buchi in pancia adesso (!!), barcolla ma rimane in piedi, e mantiene la presa sulla valigetta.
La voglia di vivere è tale che la spinge ad andare avanti, anche se l'hanno toccata, eccome.
POW

POW
Spara due colpi alla cieca, solo per prendere tempo. Non vede nessuno, infatti. Ma qualcuno c'è, perché le hanno sparato addosso.
Si infila dentro la macchina e parte a razzo, bruciando le gomme.
BANG
BANG
Ancora spari, un’esplosione di vetri, ma niente buchi stavolta.
Due luci nel buio la inseguono. Le sono alle costole.
Deve affrontarli, non può sperare di fuggire. Non sente le gambe e non riesce a guidare, procedendo a strappi.
Paralizzata dal terrore di lasciarci la pelle, sbanda e finisce contro una staccionata diroccata. Forse al buio non l'hanno riconosciuta, da vicino non oseranno finirla.
Lo sportello di guida si apre e lei si accascia di schiena fuori dall'abitacolo, le gambe ancora dentro.
La valigetta è finita sul terreno e si è anche aperta.
«Ne aveva di birra in corpo questa puttana!», esclama uno dei killer.
«Beh, adesso l'ha finita...», risponde l'altro.
Lo dicono un paio di grossi buchi sulla camicetta sbottonata e gli occhi vitrei della donna.
Il recupero crediti dell'Organizzazione è piuttosto efficiente.
Betty giace supina a terra.
Sul volto, un'espressione esterrefatta: quella di una gran puttana rimasta fottuta.
«Mi sembra ci sia tutto, dollaro più, dollaro meno...».

«Bene. Andiamo a sistemare il socio, adesso».

«Sempre che non sia già morto, amico. Ti ricordi lo sparo?

La puttana deve averlo fatto fuori».
POW

POW
Un colpo per ciascuno.

La Coleman ha sparato con due pistole...

La borsetta non l'hanno controllata.
I sicari cadono.
Non hanno la stessa capacità di assorbimento.

Dare le spalle a una signora è decisamente sconveniente.

Specie se si tratta di una grossa puttana arrabbiata.
Ma si muovono ancora. Troppo.
POW

POW
Adesso non si muovono più. Nemmeno un po’.

È contenta e al tempo stesso disperata.

Sente la fine.

Non sa più cosa fare, non ha la forza per fare niente.

L'unica cosa certa è che non vuole crepare.

Intravede qualcuno.

Improvvisamente le torna un po' di spirito.
«Sei già qui...? Non ti fa male…?».
Con fare rassegnato, senza presentare recriminazioni, Sal la rimette dentro l'auto e si pone alla guida.
Per loro fortuna la gamba sinistra non serve a molto sulla Route 66.

«Hai preso... i soldi..., con l'acqua alla gola si preoccupa dei soldi. «Ti ho giocato... un brutto scherzo… lo so… ma non voglio crepare…

No... non voglio morire...».
Sal non risponde.
Solo quando Betty gli frana addosso, accosta l'auto e la riaccomoda contro il sedile, con fare galante, asciugandole il collo sudaticcio con un fazzoletto.
Ha due grossi buchi nella pancia, oltre a tutto il resto.
Sal deve ammettere che la sua gran puttana è rimasta uccisa nello scontro a fuoco con i sicari.
«Non va tutto male… mi sento libera…».
Sembra incredibile, ma in effetti dai buchi cola un muco marrone.
La Coleman non si rassegna, si aggrappa a tutto.
«So... a cosa stai pensando... che sono fottuta... ma io... non voglio crepare... ho lottato tanto… in questi mesi... non mi sono... mai... arresa...».
«Malgrado tutto, mi hai salvato, Betty».
«Sì... li ho fatti fuori... quei bastardi...

Attento... ce ne sono altri...».

Spuntano due luci.
Un'autovettura li fronteggia contromano.
È seguita da un altro veicolo, a luci spente, nero, quasi irriconoscibile nella notte.

Sal non reagisce, sarebbe inutile.

Appoggia la sua mano su quelle di Betty, strette intorno all'addome.

Un colpo d'abbaglianti richiama la sua attenzione.

«Stai qui e niente cazzate, okay?

Vediamo chi sono», Sal scende dall'auto.

«È tutto okay, amico. Richiesta accettata», gli dice l'uomo a destra, dal finestrino.

Poco dopo vede caricare la Coleman sulla Black Ambulance e ci sale lui stesso.

«Le cose risultano peggiorate rispetto a quanto dichiarato nella richiesta.

La richiedente, oltre al tumore in stato terminale, è affetta da indigestione di piombo, mentre l'accompagnatore si presenta con il ginocchio spappolato.

Tutto questo comporta un sovrapprezzo di... diciamo 2.000.000 di dollari.

D'altra parte la richiedente è un indiscutibile pezzo da collezione», conclude the Man in Black.

LA BELLA SBOTTONATA NEL FOSSO

di Salvatore Conte (2024)

«La Porta di Roma, uno dei posti più belli al mondo, che inebriò Enea e lo spinse a proseguire».

«Ma che cazzo dici?».

«Stai attenta, Anna, sorella di Didone: guardati dagli Eneadi.

«Tutte queste cazzate per una pisciata?

La prossima volta andiamo al bar».

Ma il discorso prosegue in macchina.

«Mai in nessun luogo l'idea di grandezza e sacralità ebbe una realizzazione così eloquente».

«Stiamo lavorando, Johnny».

«Gli Dei atavici esprimono il loro disegno sotto i nostri occhi».

«Ti ho detto di piantarla...».

«Solo chi è cieco non vede».

«Puoi fare una pausa, Cristo?! Giusto per incassare i fottuti testoni che ci devono».

Anna Frezzante, detta "la Sbottonata" per i più ovvi motivi, scende dall'auto infilandosi la beretta nei pantaloni, sotto il camicione rosa allentato fino allo stomaco; il calcio si intravede chiaramente, insieme ai rotoli di ciccia della panza.

La Sbottonata cerca di rimanere sulla breccia, ma è in pieno declino.

Con le sue camicette allentate esprime la frustrazione per l'età che avanza, i capelli grigi e la tanta cellulite fuori controllo.

Soltanto che - anziché passare di moda - si è fatta ancora più bona.

Non annoia mai e la camicia sbottonata è sempre perfetta su di lei.

Nel quartiere la conoscono e rispettano tutti.

Qualche donnaccia, forse per invidia, ha provato a ribattezzarla "la Cessa", perché si sarebbe allargata troppo e i nomignoli popolari sono impietosi e non risparmiano nessuno; tuttavia la cosa non ha preso piede e alla Magliana, Anna è ancora la Sbottonata.

«Ohhh... dritta nello stomaco...».

Durante un diverbio, degenerato in regolamento di conti, in una villa sequestrata della Magliana, Anna Frezzante si è presa una pallottola nello stomaco!

L'hanno beccata lì proprio per farle dispetto, perché qualche anno prima non osava sbottonarsi tanto.

Però sta seduta sulla poltroncina come nulla fosse, in attesa che gli altri finiscano di discutere.

È una bestia. E anche loro lo sanno.

Anna sta aspettando l'occasione giusta per portarsi da un dottore e farsi dare un'occhiata al buco.

Per la legge della Mala non si deve pensare troppo a sé stessi... vengono prima gli interessi della Banda, ma lei si sente superiore alle regole.

Le regole non valgono per una come lei.

Siccome la discussione sulla rappresaglia da imbastire prosegue a oltranza (anche se, magari, parlano pure di lei, dove portarla e a chi metterla in mano), la Sbottonata pensa bene di guadagnarsi una via di scampo.

Farà una cosa molto semplice: salirà in macchina e raggiungerà l'ospedale; in barba alle regole.

«E Anna? Dove cazzo è finita?».

L'assenza di una bestia del genere non passa a lungo inosservata.

Non al Negro, almeno.

Mentre gli altri continuano, compreso Johnny, lui si sfila e va a controllare.

Conosce la Sbottonata sin da quando era rientrata da New York, dove aveva lavorato per i Gambino.

Vuole salvarsi.

Ma se uno della Banda ha paura e ricorre all'ospedale, allora non merita rispetto.

E la pizzica, infatti, mentre si avvicina ingobbita all'auto.

«Anna!

Conosci le regole...».

«NO! NON VOGLIO MORIRE!», urla, spaventata, voltata verso il Negro.

Ma la villa è isolata, oltre che sequestrata per abuso edilizio, riciclaggio di denaro sporco e connessi reati di stampo mafioso.

E comunque nessuno chiamerebbe la polizia, a meno che non sia nuovo della zona. E la polizia non prenderebbe sul serio la chiamata.

POW!POW!

Due revolverate in pancia.

La bocca che si spalanca, il corpo massiccio che sussulta, le gambe che si fanno molli.

Frana su sé stessa, striscia d'impulso per un paio di metri, scarica la disperazione e si blocca di sasso.

Adesso il Negro sa che la Cessa non sarà messa in mano a nessuno. Il problema non si pone più.

E torna dai compagni.

«Che cazzo è successo? Dov'è Anna?».

Il silenzio del Negro è eloquente.

Johnny e Cassandra vanno a vedere.

Cassandra Jelen è la slava della Banda.

Degli spari non devono preoccuparsi.

Qui la polizia non entra.
«112, parli pure».

«Ho portato fuori il cane e ho sentito degli spari da una villa qui vicino, credo sia sotto sequestro...».

«Mi dà l'indirizzo?

Bene, stiamo controllando, rimanga in linea.

Esercitazioni di polizia, signora; normale attività d'istituto, su terreno confiscato e quindi di proprietà pubblica; la preghiamo di non allarmarsi».

«Ah... meno male. Però che paura!».

«Grazie per aver chiamato e non si preoccupi».

Le coperture sono tali che nessuno verrebbe mai a ficcare il naso qui dentro.
Una festa privata con scoppio di petardi, esercitazioni, le riprese di un film: tutto, fuorché un briciolo di verità.

Ma dei buchi che hanno fatto, sì. Di quelli devono preoccuparsi.

«Ma dico, sei scemo? Anna non è una qualunque», si lamenta Cassandra.

«Dai, portiamola dentro», Johnny va sul pratico.

I due salgono al piano di sopra.

La carcassa di Anna Frezzante pesa parecchio.

«Cerca dell'ovatta e prendi degli asciugamani».

La Jelen, bona e sbottonata anche più di Anna, tampona i buchi della collega.

«Dannata stupida: guarda come ti sei combinata...».

«Fanculo... troia...», vuole dirglielo subito, così è sicura di fare in tempo.

«Johnny, stalle accanto: crepare la rende nervosa.

Io avviso il capo che è finita».

Torna di sotto a concludere il vertice e intanto telefona.
Il capo non lo intercetta nessuno.
Le coperture sono tali che nessuno trascriverebbe mai l'intera comunicazione.

Buchi, guasti, disfunzioni: la buccia senza la polpa e il succo. Come la sintesi raccoglie l'essenziale, la trascrizione omissiva raccoglie il superfluo.

E il boss ne approfitta per dissertare sull'acqua marcia del Tevere con la sua platea silenziosa; non disdegnando di offrire in pasto qualche pesciolino e suggerire l'eliminazione di concorrenti troppo ambiziosi.

E qui i buchi sono tre e la polpa quasi un quintale.
«Forse mezzora, un'ora al massimo; ma potrebbe accadere a momenti; è sfondata.

Accanto a lei è rimasto Johnny...».
«Sarò lì tra poco».
Il capo è una persona gentile. E poi quando si parla della Sbottonata scattano tutti in piedi.

La trova stravaccata sul letto matrimoniale, con gli occhi vitrei puntati contro il soffitto, la bocca spalancata che cerca di trovare aria, e le braccia larghe e rassegnate di chi ha incassato troppo piombo.

«Accidenti... la Sbottonata c'è rimasta secca...», sussurra, prima di avvicinarsi.

Si siede accanto a lei e sposta da una parte gli asciugamani impiastrati di sangue che Johnny le preme sulla pancia e lo stomaco.

Il capo osserva attento i buchi, Cassandra ha omesso di raccontargli i particolari, il Negro pure.

«I bastardi che l'hanno ammazzata sono due...

Bisognerà vendicarla.

Anna era diventata una potenza... non voleva più fermarsi...», c'è una coda di biasimo nella sua voce.

È sottinteso che si era fatta troppo ambiziosa.

«Anna... mi senti?».

Finita l'ispezione, Johnny rimette subito gli asciugamani a tamponare i buchi e ci preme sopra le mani. Forse Anna non si è arresa.

«Capo...», lo intravede appena, mantenendo gli occhi al soffitto. «Acqua…».

Le bestie hanno sete mentre muoiono.

«Anna... stai combattendo da un’ora e mezza...

La partita non è ancora finita?».
«Eh…?», non ha capito bene, è intontita, frastornata. «No... no... me la gioco…», afferra in extremis il concetto.

E per dimostrarglielo - con le dita tremanti e sanguinolente - si allarga i lembi della camicia sbottonata... e geme languida...

E pensa a vendicarsi, sussurrandogli qualcosa, mentre il suo capo la palpeggia.

L'aspettativa di vita del Negro si riduce drasticamente.

«È vero... mi stavo... allontanando... ahh...

Ma lui... non doveva... spararmi... in corpo... ohh...

Potevo... salvarmi... adesso ho paura... tanta... paura... uhh...

Ma lo faccio... per mio padre... ohh... gli prenderebbe... un colpo...», la Sbottonata giustifica così la sua paura di morire.

«Attenta all'ultimo bottone, Anna.

Potrebbe staccarsi da un momento all'altro...», l'ironia macabra del capo la ferisce più di una pallottola.

Anna era divenuta ormai scomoda, ingombrante, con Gambino che se la voleva riprendere, e magari affidarle una filiale romana; il Negro in fondo aveva agito nell'interesse della banda, facendole scoppiare le budella a sangue freddo, con un coraggio che in pochi avrebbero avuto.

Gustato l'ultimo show della Sbottonata, il boss si tira in disparte.
«Di lei che ne facciamo? Solito fosso?

Ehi, capo! La bella sbottonata nel fosso... pancia all'aria nella marrana... a caccia di un bacio dal principe azzurro...», il Trilussa della Magliana colpisce ancora.
«Non fare l'idiota.

È la fine di Anna Frezzante, la fine di una grande donna.

Merita il Tevere.

Altra mezzora di cottura e poi è pronta».
«D'accordo, capo.

Organizzo il movimento».

La Sbottonata, ormai incosciente, viene caricata in auto e affidata con precise istruzioni a due scagnozzi.

I due incaricati, con il cadavere ancora caldo della Sbottonata, salgono su un piccolo motoscafo e si dirigono a valle.

Le istruzioni sono precise.

Per i personaggi della Banda c'è una sepoltura speciale.

In mezzo al Tevere.

Renatino è stato un caso a parte.

Sul molo intravedono la bestia di Cacciavite, l'imbalsamatore della banda.

Li sta aspettando di fronte all'Isola, con il cofano aperto: sta regolando i carburatori del suo GT 2000 anni '70; è una sua fissazione.

Lo traghettano e si avviano alla necropoli.

È l'Isola dei Morti voluta da Traiano.

Il corpo della Sbottonata viene trasportato su una carrozzella per disabili: occhiali scuri e cappello da signora completano il look; un asciugamano da spiaggia a coprire i buchi.

Ma anche così raccoglie troppi sguardi.

Decidono allora di abbottonarle la camicetta fino al colletto; er Puzzola le asciuga il labbro che cola sangue; la faccia cadaverica rimane quella.

Gli inservienti chiudono al pubblico una parte della necropoli: lavori urgenti di consolidamento delle strutture.

«Ahi! Ma chi cazzo...?».

Er Trippa si gira intorno, ma non c'è nessuno a un metro, a parte la Sbottonata e il Puzzola.

Ha appena rimediato un calcio.

Attimi di perplessità.

Poi anche il braccio ha uno spasmo.

«Ora la calmo io...», Cacciavite sta preparando una siringa: servirà a solidificarle il sangue.

«Buttala».

«Johnny!? Che cazzo ci fai qui?», la voce è der Trippa.

«Conoscete la storia di Orfeo?».

«Ehi, un momento... metti giù la pistola», interviene er Puzzola.

«Adesso ve la racconto io: voi tre lasciate il cadavere dov'è e ve ne tornate alla base.

Alla sepoltura ci penso io».

«Vaffanculo, stronzo!», er Trippa s'incazza.

«Sì, stronzo!», er Puzzola lo segue.

POW

POW

POW

Gli spari fioccano sull'Isola dei Morti.

Er Puzzola frana sulla Sbottonata, Cacciavite se la svigna, Johnny crolla sulle ginocchia.

Er Trippa ha vinto il piatto.

«Hai fatto lo stronzo, Johnny!

E ora sei fottuto...

Ma non riposerai con questa troia.

Finirai in un fosso.

Addio...».

POW

POW

«Mi ha sempre... fatto... incazzare... chi mi chiama... troia...».

Anna ha avuto un sussulto, svegliata dai colpi.

Con la rivoltella der Puzzola, finita tra le sue mani, ha dato il fatto suo ar Trippa.

Johnny è stato colpito all'addome: un solo colpo e sembra già moribondo, a dispetto della Sbottonata, che si tiene in corpo tre confetti e tira ancora avanti.

Sono bloccati a breve distanza l'uno dall'altra: lei non è in grado di muovere la carrozzella, lui fatica a rimanere sulle ginocchia.

«E meno male che ho capito dove stavi andando...».

Altro colpo di scena: entra Cassandra.

Si avvicina alla Sbottonata.

«Veniamoci incontro, Anna.

Siamo donne d'altri tempi, noi due».

La Frezzante cede il revolver.

La Jelen le sfila gli occhiali scuri e le allenta la camicetta come piace a lei.

«Cassandra... non voglio finire... dal cassamortaro... ohh...

Voglio Johnny... sulle ginocchia...», Anna non rinuncia a fare la stronza, neanche in fin di vita.
La Sbottonata ansima gutturale.

La slava spinge la carrozzina verso Johnny, che morirà in estasi, e le afferra una mano.

«Cassandra... io... ho paura... ahh... papà... non deve saperlo... tu gli dirai... che sono tornata... in America... uhh...».

«Stai calma... una come te non l'ammazza nessuno.

Tu sei una bestia, Anna».
La Sbottonata, però, non si fa incantare dalle chiacchiere della slava.

Ha una cera pessima.

Sta per cedere.
La bestia è esausta.

Va avanti con la forza della disperazione, alimentando il fragile riciclo dell'agonia:

 

 paura di morire

 

sfinimento

 

adrenalina

 

 

voglia di vivere

 

«Per te ci vuole un bacio dal dottor Morton, Anna; quello che rianima anche i cadaveri; sarà lui il tuo principe azzurro; altro che Cacciavite, o quest'Orfeo da strapazzo con il buco...

Avanti, Johnny... tirati su.

O rimarrai qui per sempre.

Ma senza Anna. Lei viene con me».

La slava sa come rimetterlo in moto, prima di farsi largo tra gli inservienti che tranquillizzano i visitatori: solo la scena di un film, scusate il disagio e la chiusura anticipata per disinfestazione straordinaria.

Tutto cambiano le sponde del Tevere, favole e miti inclusi.

LA PISTOLERA È ATTESA DAL VERME

di Salvatore Conte (2024)

La famosa pistolera se la tira parecchio.
D’altronde, con i suoi argomenti, c’è poco da scherzare.

Bella e con tanta carne nei punti giusti.

Molto femminile, di sicuro, ma altrettanto virile: la pistola con cui uccide è il suo cazzo. E ce l'ha bello duro.

La scena, poi, è da manuale.
C’è lo Sceriffo di Tucson, Alan Wood; c’è Pedro Sanchez, 15.000 dollari di taglia; e c’è lei, Romina Lopez, 4.000 dollari di taglia, detta l'Incassatrice per una vecchia storia di pallottole gestite molto bene; insieme alla storia si è invecchiata anche lei, ma ne ha guadagnato in prestigio.
Non che lei sia meno cattiva di Pedro, ma si sa che le taglie femminili sono più piccole.

I comprimari sono stati liquidati.

È il momento dei protagonisti.

La tensione è al culmine.

Le pistole stanno per cantare.

Il verme per mangiare.
BANG

BANG
La colt rimasta muta è quella di Romina!
Dopo averne seccati tanti, stavolta è proprio lei, la gran puttana, a incassare un bel confetto nello stomaco!

I fantasmi del passato aleggiano su di lei come avvoltoi.
Impegnata a seccare lo Sceriffo, ha sottovalutato il rivale messicano, come quest’ultimo la stella di latta, che l'ha stroncato con una pallottola ben piazzata.
Benché piantata forte sugli stivali, l’impatto del colpo la fa ruotare su sé stessa: lo Sceriffo non può godersi la bella faccia incredula, ma può immaginarla...

Il sangue le sale in gola, la testa le gira: la Lopez perde la presa sulla colt, il cazzo si ammoscia e la puttana crolla sulle ginocchia!
Si guarda intorno con lo sguardo allucinato - a mascella sbilenca - e stramazza in avanti!

La situazione si fa imbarazzante!

D'improvviso si sente il verme addosso...
Colta dal panico, prende a strisciare ventre a terra senza uno scopo apparente.
Ha paura, vuole tenersi impegnata.
È rabbiosa, sa che il colpo l'ha uccisa, ma non vuole lasciarsi andare. Ha una fama da difendere.
Riesce a macinare qualche metro, prima di fermarsi.
Spalanca la bocca, ha il fiato corto.
Stavolta è rimasta fottuta.
«Sceriffo…», lo vede, lo chiama, prova a rimanere in gioco.
Mentre aspetta una risposta, si porta anche la seconda mano sotto il corpo, a tamponare il buco.
Prende tempo.
«Ehi, Sceriffo!».
Qualcun altro lo chiama: sulla scena sono spuntati tre uomini di Sanchez.

«Ci siamo anche noi...».

Quasi offesi di non essere ancora cadaveri, sono giunti in ritardo alla resa dei conti.
«Mai visti 3.000 dollari sbattermi contro».
«Hai finito di fare il gradasso, Sceriffo.
Noi valiamo molto di più».
«Lo vediamo subito…».
La scena madre ha uno strascico.
Anzi due.
Romina ritorna strisciando verso la pistola.

È in ansia per sé stessa, vuole salvarsi anche stavolta, ha il cazzo duro per una vecchia puttana che ci prova fino all'ultimo.
L'eccitazione di poter trovare una via di scampo, la voglia di uccidere, sono più forti del semplice istinto di sopravvivenza.
Uccidere la farà sentire viva: sazierà il verme con la carne delle sue vittime...

Con occhi allucinati - mentre i quattro rimasti in piedi si fronteggiano minacciosi - raggiunge la colt e la impugna...

La mitica Incassatrice non fa troppi calcoli, non ha molto da perdere.
BANG

BANG

BANG

BANG

BANG
Stavolta, per farsi bella con lo Sceriffo, ha puntato contro un messicano, ma quello - prima di crepare - è riuscito a vendicarsi!

Wood lo mette a tacere, ma è troppo tardi: la Lopez è stata colpita di nuovo!

L’impatto la fa rovesciare pancia all’aria...
Gli occhi sbarrati dalla delusione. E dal terrore...
Ora deve aggrapparsi allo Sceriffo...
«Il tuo aiuto non serviva.
Non valevano molto».
Alan Wood torreggia sulla pistolera.
«Gli ho… bucato… la carcassa…».
«E lui la tua…», replica cinico lo Sceriffo.
Mentre la Lopez raschia la polvere con le unghie, Wood carica le taglie e fa i conti.
Il carretto è quasi stipato.
Manca solo lei.

     

Senza tanti riguardi, Wood afferra la Lopez per gli stivali e la trascina sul terreno. Le braccia si allungano parallele dietro la testa, gli occhi al cielo, la bocca aperta, due buchi in corpo...
Giunto al carro, l’ammucchia sopra agli altri, monta a cassetta e parte.

Per un po’ non succede niente.
«A...l...a...n…».
Wood si volta appena, ha già capito.
«Qui… puzza… di... ca...da...ve...re…».
Romina Lopez, bava alla bocca e due grossi buchi nella carcassa, non si sente ancora parte della categoria.

La bella messicana se la vuole stirare fino all’ultimo; senza farsi illusioni.
Troppo esperta per non capire che c’ha lasciato la pelle; ma da qui a mollare, ce ne passa.

Lo Sceriffo ferma il carretto, la tira fuori dal mucchio e la mette seduta a cassetta.
«Tamponami… i buchi… sii gentile…», e intanto gonfia il petto, pompando le tette.
Wood si scioglie il fazzoletto, lo strappa in due parti e gliele piazza sui buchi.

«Premi forte...», le porta sopra le mani.

La marcia può riprendere.
«Io… fottuta…», mormora dopo un po’.
Lui non interferisce, sa che deve sfogarsi, prima di crepare.

«Due botte così... sono... tanta roba... per una signora...».

«Due botte così sono tanta roba per chiunque».

«Tu ci scherzi sopra... ma quando crepo... anche tu... ci rimani male...».

«Ti conviene risparmiare il fiato, se vuoi vivere un altro po'...».

«Io so... che... uno sceriffo... non incassa... le taglie...».

«No, se li prende all'interno della propria giurisdizione.

Tuttavia qui mi trovo fuori dalla mia giurisdizione...».

«Prenderai... anche... i miei 4.000...?

Come donna... io... io... valgo... molto di più...».

«E va bene... vediamo di trattarti un po' da conto».

Wood ferma il carro e le offre della tequila.
La Lopez si fa sbrodolare, con esperto mestiere, un po’ di liquore sul petto, che si infila inesorabile nell'ampio scollo della camicetta, minando le sicurezze dello Sceriffo.
«Io e te… in un altro momento…».
«Non ti arrendi mai, vero, Romina?».

Scuote leggermente il capo.

«Ho paura... Alan...».

Gli cade addosso.
Il verme sta per mangiarsi la pistolera!
Wood cerca di fare qualcosa, prima che sia troppo tardi.

«Romina... non dirmi che hai mollato...».

La messicana sta morendo sulla sua spalla.

«Romina!», cerca di scuoterla.
Alza gli occhi su di lui, gli sguardi quasi si toccano, Wood si sente addosso i suoi ultimi, faticosi respiri.
«Ti porto da un dottore.
No, da uno stregone.

Ne conosco uno... che fa miracoli.
Vive qua intorno. Faremo presto», l'abbranca - per non perdersela - e sprona i cavalli.

Il carro si è messo a correre nella prateria desolata.

THUD

THUD

Wood si è perso un paio di taglie.

A causa dei sussulti, i seni pesanti di Romina ballonzolano impazziti, senza freni, nella loro ultima corsa!

«Forza, ragazza, vai bene così! Anche i morti là dietro si stanno agitando...».

Non arriva nessuna reazione.

Gli occhi della pistolera sono fissi nel vuoto!
Sul volto un’espressione gelata.
Sulla bocca un languido rigurgito di sangue!
Romina Lopez è rimasta uccisa!
Ma una parte di lei sussulta ancora.

Wood non si ferma.

Anche se ormai balla con il morto.

BANG

BANG

Si annuncia con la colt ed entra a tutta velocità nel pueblo abbandonato.

«Diablo!

Sceriffo avere fretta!»

«Ce l'ha lei», indica al brujo la pistolera.

Le sta buttando in gola altra tequila.

Come la pianta che sembra definitivamente secca, ma che rialza le foglie dopo un po' d'acqua, Romina reagisce sbattendo le palpebre.

«Usa tutti gli intrugli che hai. Ma fai presto! Non ce la fa più!».

«Tu mai chiedere cose facili, ma questa superare tutte!

Poi curare anche passeggeri dietro carro?», chiede polemicamente lo stregone, mentre corre a prendere qualcosa.

«No, quelli vanno bene così!», è anche un negromante, perciò meglio non fargli capire male.

Intanto Wood indica i cadaveri ai pochi peones che abitano il pueblo: «Ce ne sono un paio che sono caduti lungo la pista. Potete andare a riprenderli, prima che gli avvoltoi li rendano irriconoscibili: ve li lascio, ci rifarete tutto il pueblo.

Anzi ve li lascio tutti.

Al diavolo i fottuti 4.000... al diavolo tutto...», mormora fra sé l'uomo, stringendosi addosso Romina.

Lo Sceriffo Wood ha molto di più da incassare.

«E se vedo qualcosa che striscia, gli sparo».

BAGNO TOMBALE

di Salvatore Conte (2017)

«Ma che cazzo?!».

SCREEKKK...

«Venga... l'aiuto...

Ma cosa le è successo?

Le metto addosso la mia giacca...

La porto subito all'ospedale, non si preoccupi».

«No... scrivi... Waterloo... Avenue...

Ma fai presto...».

«Come vuole, signora, spero che lei sappia cosa stia facendo».

«20...».

«20, cosa?

Il civico, il numero civico, certo, mi scusi.

Sa... non capita tutti i giorni di... beh.

Dirò che una signora mi ha chiesto di accompagnarla a questo indirizzo.

Va bene, così?».

«Non ho molto tempo...».

«Sì, certo. Naturalmente. Mi do una mossa».

«Hai sentito? Hanno sparato in corpo a Chana!».

«Ma che mi dici?».

«Tre raffiche di mitra!

Tre!».

«Tre?!

Non può essere... com'è potuto accadere?».

«Te lo dico io... stava facendo il bagno all'aperto, nella vasca termale, all'interno della sua villetta...

Ci sono volute tre raffiche belle pesanti per mandarla giù».

«Per forza: Chana è un bisonte!

Se non l'hanno centrata al cuore, deve aver lottato...».

«Cerca di avere pazienza e ascolta.

L'hanno avvolta, nuda com'era, in un telo di plastica, caricata nel cofano e trasportata alla villa del boss.

Dicono che fosse ancora viva, quando è arrivata al cospetto del capo».

«Incredibile...».

«Era un bisonte, l'hai detto tu stesso.

Il boss ha diffuso un comunicato ufficiale: ha contato diciotto pallottole in corpo, di cui - confermate dal medico - addirittura due al fegato e tre allo stomaco.

Eppure, voleva ancora salvarsi».

«Quanto c'ha messo a crepare?».

«Fosse stato per lei...

Stava ancora lottando.

Ma il boss le ha sparato in corpo altri due colpi!

Poi l'hanno avvolta di nuovo nel telo e mollata in una discarica abusiva.

Presto ritroveranno il corpo».

«Chana fottuta! Da non crederci...

S'è fatta ammazzare...

Quasi non riesco a concepire che sia rimasta uccisa, aveva sempre mille trucchi...

Però a volte non c'è nulla da fare, neanche per un bestione come quello... mai vista una così: troppe pallottole, suppongo...

Certo è un colpo, non me l'aspettavo...».

«Nemmeno io, se è per questo.

Te la ricordi che vacca bestiale alle feste del boss?».

         

       

«Me la ricordo, eccome; sembrava invincibile.

Ero costretto a chiudermi in bagno e a tirarmi una sega, quando la vedevo.

Ecco perché non capisco».

«È facile fare una mossa sbagliata, ricordiamocelo anche noi...».

«Il boss è infuriato, Mike.

Il corpo di Chana non si trova».

«Ma come è possibile?».

«La discarica è abusiva, ma abbastanza frequentata.

Ovvio che non si tratta di brave persone, ma almeno una telefonata anonima l'avrebbero fatta».

«E quindi?».

«Forse un qualche necrofilo si è preso il corpo».

«Chiamalo pazzo...!

Comunque se non c'è il corpo, non c'è il delitto: perché il capo dovrebbe prendersela?».

«Al boss non frega niente delle indagini, lui è coperto.

Ma voleva dare un avvertimento.

Bella vacca ritrovata in discarica con una ventina di pallottole addosso: vuoi mettere?

Adesso invece gli amici penseranno che abbia semplicemente cambiato aria.

Perciò vuole ritrovare il corpo.

E ha sguinzagliato i suoi uomini, compreso me e te».

«Da dove partiamo?».

«Dalla discarica».

«Questo è sangue...

Parte dai margini della discarica e arriva fino alla strada principale.

Tutto ciò è molto strano».

«Il maniaco l'ha trascinata, prima di caricarla in auto».

«Ci sono due cose che non tornano: Chana è stata abbandonata con l'involucro di plastica ancora addosso ed è strano che il maniaco non se ne sia servito a sua volta; ma soprattutto è strano che abbia corso il rischio di farsi notare: la strada qui sopra è piuttosto trafficata».

«Che cosa ne deduci?».

«Che qualcosa puzza.

Sembra come...

Lo so, è difficile da credere.

È come se Chana fosse sgusciata via dal telo di plastica... e avesse strisciato fino alla strada, per fermare un'auto di passaggio: la scia di sangue, in questa maniera, avrebbe un senso».

«Vuoi dire che poteva essere viva con venti pallottole in corpo? E dopo essere stata avvolta in un telo di plastica?».

«Non dimenticare che Chana non è una donna normale. È un bestione, un bisonte. E questi teli da trasporto, in genere, non vengono chiusi ermeticamente. D'altronde sappiamo che al primo viaggio è sopravvissuta.

Una vaccona come lei, se si mette in testa di non mollare, può reggere abbastanza a lungo da tentare l'impresa...».

«Già... un bisonte... ma non erano estinti? Supponiamo che - grazie alla forza della disperazione - sia arrivata fino alla strada. Poi cos'ha cercato di fare?».

«Un'auto l'ha vista e si è fermata.

Non poteva farsi portare in ospedale.

Il boss l'avrebbe terminata facilmente.

Quindi... ha chiesto di essere portata da qualcuno che lei conosce e di cui si fida».

«A me il citofono ha suonato, hai ragione...

Era il vicino che si lamentava del mio cane, però. Non una bella vacca con venti pallottole addosso...».

«Non fare l'idiota.

Due anni fa Chana ha scoperto di avere un tumore all'utero: una brutta storia.

Però, non si sa come, è sopravvissuta fino a oggi, senza mai farsi ricoverare».

«Peraltro in buona salute...».

«Andiamo a casa sua...».

«Waterloo Avenue #20: curioso, è lo stesso numero di pallottole che si è ritrovata addosso.

Ed è anche la sua Waterloo...».

«Ma qui dice che è un veterinario...».

«Ti risulta che Chana avesse animali?

Passiamo a prendere il tuo cane e andiamo».

«Un veterinario per un bisonte... è perfetto!».

«Il suo cane gode ottima salute, signore.

Raramente ho ricevuto un padrone tanto premuroso».

«Vede, dottore... noi vorremmo che anche lei godesse ottima salute per almeno altri cinque minuti...».

Il medico sgrana gli occhi.

«Adesso lei manderà via gli altri clienti, offrendo loro una visita gratuita, e poi farà quattro chiacchiere con noi. Pensi alla sua salute, adesso, dottore».

«Come volete, temo di non avere scelta».

«Bene, è stato convincente.

Adesso vorremmo sapere come mai una nostra amica, che non ha né cani né gatti, si ritrova il suo biglietto per tutta casa».

La faccia del veterinario è una conferma esplicita.

«È deceduta? Vorremmo vedere il corpo, se non le dispiace».

«Temo di non avere scelta.

Seguitemi».

«Per tutte le corna dei bisonti d'America prima di Colombo!».

«Bingo!».

Chana giace sul lettino, in mezzo a una selva di portaflebo come alberelli e apparecchiature mediche come cespugli.

Sembra abbastanza deceduta.

Ma il bisonte è vivo.

Indossa una camicia bianca del dottore, magistralmente gonfiata dalle zinne da vacca.

È sempre lei, fino all’ultimo.

«Quanto le rimane?».

«Non molto.

Anche se vorrebbe salvarsi».

«E se la portassimo in ospedale?».

«Diventerebbe la principale causa di morte».

«Il rancore per i suoi vecchi colleghi le offusca il giudizio, dottore?».

Il medico lo fissa con aria perplessa.

«Lei è stato radiato dall'albo per le sue cure sperimentali.

E così si è riciclato tra i veterinari, senza perdere il vizio...».

«Non discuto più da parecchio tempo.

Se avete un'arma, potete fare come credete.

E se pensate di allungarle la vita portandola in ospedale, fate pure...».

«Che si fa, Mike?».

«Non vorrai riportarla al capo, spero.

Chana è una bella donna, non ce ne sono tante così.

Chi è che non commette degli errori, dopotutto?».

«Ti ho chiesto se possiamo fidarci di un medico radiato dall'albo».

«Ma scusa... ha preso venti pallottole e non è ancora crepata del tutto.

Questo tizio ci sa fare, si vede. Se prendeva la mazzetta, nessuno lo avrebbe radiato».

«Giusto.

Dottore, vorremmo farle qualche domanda», indica Chana.

«D'accordo.

Ma solo pochi minuti, per favore».

«Promesso».

La libera da qualche impaccio ed è pronta.

«Che errore hai commesso?

Quanto gli hai fregato?».

{Venti...}, parla con difficoltà, ha la lingua inceppata, il medico l'ha bombardata per tenerla a galla.

«E per 20.000 dollari ti ha fatto il servizio?

Tu ne vali di più».

{Venti... milioni...}.

I due si guardano basiti.

{Possiamo... dividere...}.

«Ma allora...», la cosa lo fa morire dal ridere, «il capo ti ha sparato gli ultimi due colpi... non per ucciderti... ma per fartela pagare... è fantastico...», sembra trasognato, ha perfino dimenticato l'offerta di Chana.

La rabbia le fa sciogliere la lingua, è carica come un bisonte.

«Sto morendo... non capisci... senza quei due colpi... avrei potuto salvarmi...», chiude piangendo lacrime asciutte; le brucia da morire sentire la fine addosso, un qualcosa che le scava dentro e che non può controllare.

«Hai ragione, Chana. Scusami. E cerca di riguardarti.

Un'ultima cosa...

Torneresti indietro?».

«No... muoio senza rimpianti... ho rischiato... ho pagato...».

«Me l'immaginavo, Chana.

Avresti potuto morire sul colpo, lo sai, vero?

Il cuore, la testa, l'aorta: neanche una come te avrebbe potuto farci niente».

«Lo so... ma non è successo... e allora... c'ho provato...», con la delusione che le attanaglia la voce; adesso ha capito di aver lottato per allungare un'illusione.

«Ma lui ti avrebbe comunque sparato addosso altri due colpi: io lo trovo fantastico».

«Io... macabro... per due milioni... mi sono strozzata... mi sono giocata la pelle...», Chana ha afferrato il concetto, è una ragazza sveglia.

«A proposito di quei soldi, Chana...».

«Li ho cambiati... con settemila bitcoins... le chiavi... sono nel caveau di una banca... un direttore che mi scopo... intoccabile...».

«Hai pensato a tutto, Chana. Sei la ragazza che tutti vorrebbero sposare.

Se ripenso a quello che hai fatto...

Devi esserti spremuta tutta per trascinarti fino alla strada... avrei pagato per esserci», la stuzzica ancora.

«Dovevo... riuscirci... a tutti i costi... oppure... sarei rimasta lì... per sempre...».

«Mai temuto di non farcela?».

«Mai... avevo... ancora birra... e tanta voglia...».

«Lo rifaresti?».

«Sì... mi eccitava da morire... darlo in culo... a quello stronzo...».

«Anche adesso ti senti eccitata?».

Con la mano stringe forte il lenzuolo.

«Adesso... ho paura...», ha capito che è stato tutto inutile.

Chana cerca disperatamente di agguantare la salvezza, ma stavolta non c'arriva, le sfugge, anche se le dà la beffarda, tragica illusione di esserle arrivata vicino.

«Ho tentato... il tutto per tutto...

Sono arrivata sulla strada... e poi fino a qui...

Ma adesso… ho capito... che non posso sfuggire... al mio destino...

Ne ho per poco...

Troppi buchi...

Il dottore... non può... tenermi in vita... a lungo...

Mi sono illusa...

Ma ne ho... per poco... ho paura...».

Sono le ultime parole di Chana.

Ha giocato un po' con lei, ne valeva la pena; non la rivedrà viva, tutto tornerà al suo posto, il corpo nella discarica, maneggiato da un necrofilo.

«Togliamo il disturbo, dottore. Buon lavoro.

E naturalmente... acqua in bocca...

Ah, un'ultima cosa», lo prende sottobraccio e parla sottovoce, allungandogli un bigliettino, «quando arriverà il momento, ci chiami... passeremo a salutarla e a ritirare il corpo...

Per lei ci sarà una bella mancia, dottore».

Sulla porta lo chiama.

«Fred... ripassa... non ne ho per molto... voglio qualcuno... vicino a me...».

«Sistemo alcune cose e torno. Tu fatti trovare viva».

«Quanto ci metti...».

«Un paio d'ore. Pensi di averle?».

{Sbrigati... Fred... mi sento strana...}, è tornata a farfugliare.

«Tornerò in meno di due ore, Chana».

E sarà per vederla affogare tra i rimpianti, per assistere alla sua fine; una fine di cui nessuno saprà niente.

La salvezza sembrava a portata di mano.

Il mistero del cadavere scomparso rimane appeso alla flebo.

007: VIVA MA ASSASSINATA

di Giorgio Scerbanenco e Salvatore Conte (1967-2024)

Strisciando centimetro per centimetro, continuando a pensare fisso: non voglio rimanere uccisa, la signora Anna Frezzante, impiegata della Nato, raggiunse il guardrail e vi si aggrappò con le mani striate di sangue.

Il killer le aveva svuotato addosso due caricatori di mitraglietta.

Passò un camion carico di barbabietole e quando l’uomo al volante vide quello scempio, bloccò i freni di colpo. Poi, con le sue robuste braccia, avvolse la donna in una coperta e corse verso Bologna, all’ospedale di Sant’Orsola.

«Voglio arrivare prima che muoia...».

A un certo momento capì che stava morendo, sentiva il sangue che le usciva dalla bocca coagularsi quasi prima di arrivare sui secchi fili d’erba brinati di gelo, tra i quali era distesa.
Io non voglio morire, pensò.

Stava arrivando anche Natale, avevano combinato di andare, lei e James, a Milano e poi sul Breuil.

Si erano conosciuti a un ricevimento del Console Inglese, e lui c'era rimasto secco.

Finalmente James Bond aveva deciso di prendere moglie, voleva mettersi a posto.

Rabbrividendo più per la paura di morire che per il freddo pungente, strisciò tra la bruna erba rigida di gelo, segnando del suo sangue quella stessa erba, verso le luci delle auto che in quella gelida notte di dicembre fiorivano sulla strada.
Strisciando centimetro per centimetro, continuando a pensare che non voleva morire, continuando a pensare a James che a Natale l’avrebbe portata a sciare sul Breuil, raggiunse il guardrail, vi si aggrappò, le mani striate di rosso del suo sangue e, pensando che non voleva morire, tentò di scavalcare il guardrail stesso e di buttarsi oltre. Ma non ci riuscì, stava morendo e non aveva le forze necessarie.
Una prima macchina schizzò via, in quell’ora balorda prima dell’alba invernale, il guidatore vide distintamente le mani gocciolanti sangue, ma alle cinque del mattino quel guidatore pensò che era più saggio fingere di non avere visto nulla.

Dopo quasi un minuto passò un camion con rimorchio, trasportavano barbabietole da zucchero dal basso Ferrarese a Milano.

L’uomo al volante, benché annoiato dal russare del suo compagno nella cuccetta alle sue spalle, era uomo prudente e attento e, anche, nonostante il suo aspetto forzuto e grossolano, molto sensibile, e appena vide quelle mani gocciolanti sangue attaccate al guardrail, illuminate bestialmente dalla violenza dei fari del suo camion, appena capì che si trattava di un essere umano, una donna, bloccò il camion di colpo davanti al guardrail, e il suo amico, per la frenata brusca, sbatté la testa contro la parete della cuccetta, si svegliò e disse: «Cornuto».
Ma lui al volante disse quasi piangendo: «Oh, Piero, guarda quella poveretta».
Scesero e le andarono vicino. Sembravano due attori della tv, illuminati dai fari del camion, che guardavano - nel nevischio che imbeveva tutta l’aria - lei che non voleva morire, che voleva andare con James a sciare sul Breuil, aggrappata al guardrail con le sue ultime forze.
«
Mamma, mamma», disse il camionista forzuto, guardando la bella donna sui 50, e lo disse senza sapere di dirlo.
«È viva?», disse l’altro camionista.
«La mano, guarda la mano», disse il forzuto.
La mano di lei, la destra, grondante di sangue, si afferrava al terribilmente gelido metallo del guardrail, mentre lei pensava, in quell’ultimo sforzo, non voglio rimanere uccisa, e il camionista forzuto disse all’altro: «Io la piglio su, tu porta una coperta».

Con le sue robuste braccia, sotto la luce dei fari del camion, come stesse provando la scena di un film, in quell’alba di mezzo dicembre sulla strada vuota, sollevò quella che continuava a pensare: non voglio rimanere uccisa, e che era stata, fino a poco prima, una bella donna matura, e che adesso era una sbottonata agonizzante; la sollevò e la tenne in braccio, così: formosa e sanguinolenta. E nuda. Aveva solo la sua camicia, sbottonata fino allo stomaco. Niente sopra, niente sotto. Tanti buchi e tanti bottoni. Aveva tanti buchi in corpo quanti bottoni sulla camicia.
«Oh, poveretta; oh, poveretta».
Arrivò il suo amico con la copertina che aveva preso dalla cuccetta; l’avvolsero in quella copertina, poco adatta a un donnone come lei.
«Svelto, svelto».
Non passava nessun altra macchina, era davvero l’ora più buia, si macchiarono tutti e due di sangue per depositarla nella cuccetta dell’abitacolo.
«Coprila bene; oh, poveretta, poveretta».
«Non ho più niente, solo quella copertina».
Il forzuto disse: «Aspetta, la paglia sopra le bietole, prendiamo la paglia».
La coprirono di paglia, come se la imballassero, una grossa bambola da imballare, avevano tutti e due un po’ di vomito e un po’ di lacrime in gola.
«Meglio portarla a Bologna».
Il grosso autotrasporto schizzò via sullo stradone vuoto, con il forzuto che guidava e quello esile che teneva l’imballo di paglia.
«Respira», disse l’esile.
«La portiamo al Sant’Orsola, a Bologna».
«Sì, respira, respira ancora, ma perde sangue, guarda».

Le mani erano intrise di sangue, la paglia era rossa.

«Però non devi correre così, non voglio ammazzarmi io per salvare lei».

Il forzuto che guidava continuò a spingere l’acceleratore, Bologna era a meno di venti chilometri. «Fra un minuto è morta, vorrei arrivare prima che morisse», ma sapeva di dire una sciocchezza, perché non si possono fare venti chilometri in un minuto, a meno di non essere su una Giulia, però lui tentava.
«Povera donna, tutto questo sangue, guarda», disse quello che teneva ferma, imballata nella paglia delle barbabietole, l’infelice creatura, perché le scosse del grosso camion, lanciato a centodieci all’ora, non la buttassero giù.
«Respira?», disse quello che guidava.
«Non lo so, aspetta», disse l’altro; e avvicinò la bocca alla bocca di lei, fluente sangue, e sentì, oltre al caldo del sangue, il caldo del respiro.
«Respira», disse, «respira», ed ebbe un conato di vomito, «ma che cosa le hanno fatto?».
«Respira?», disse il forzuto che guidava.
«Ma sì, te l’ho detto, respira», le mise una mano sul petto, sotto la paglia, per sentire anche il battito del cuore, oltre il sollevamento del torace nel respirare, e il cuore batteva, e mai avrebbe pensato di poter toccare una donna tanto importante, formosa e avvenente, con una bella camicetta sbottonata. «Respira, le batte il cuore, è bona come il pane».
Arrivarono a Bologna con la sirena ululante e uno straccio pressappoco bianco che il forzuto aveva messo fuori della cabina di guida.
«È viva?», disse quello che guidava.
L’altro, che teneva la donna, appoggiò l’orecchio alla bocca di lei. «Non lo so, non sento quasi più niente».
Quello che guidava schiacciò ancora di più l’acceleratore, l’enorme camion con rimorchio, una vera balena della strada, sembrava una macchina da corsa.

«Eccolo lì, l’ospedale Sant’Orsola», disse quello che guidava, fissando la lampadina rossa davanti all’ingresso dell’ospedale, e bloccò poi di colpo. «È viva?».
«Non lo so», disse l’altro, «il respiro non lo sento più», mise la mano sotto lo strato di paglia, sotto la copertina, sotto la camicetta, toccò il petto nudo, per sentire il cuore, con un aspro senso di vomito in gola. «Mi sembra che il cuore batta, non sento molto bene, però».
I due autisti, tenendola bene avvolta nella coperta e nella paglia, la presero in braccio, trasportandola fuori dal camion, e suonando il campanello, bestemmiando, urlando, fecero accorrere l’infermiere di turno, che disse subito che non c’era posto, che dovevano andare al Traumatologico di via Boldrini, e allora quello forzuto che si teneva sulle braccia quell’involto di paglia odorosa di acido di barbabietole con dentro una sbottonata che forse era viva e forse no, gli disse di aprire il cancello se no lo sfondava con il camion, e aggiunse: «Questa donna sta morendo, apri, brutto figlio di troia, se no ti mastico».
Forse, più che dagli insulti e le minacce, l’infermiere dietro il cancello fu colpito da quella donna avvolta nella paglia, tenuta in braccio come una bambina dal grosso camionista.

Aprì il cancello.
«Vai piano con le parole», disse però facendoli entrare.
«Scusa», disse il grosso che teneva in braccio la donna come fosse la sua bambina, «ma chiama subito il dottore, forse è già morta».
Due dottori si buttarono giù dalla brandina sulla quale dormivano e scesero nella sala di pronto soccorso e svolsero la donna dalla paglia e dalla coperta e osservarono per qualche decina di secondi, cercando di rendersi conto su che cosa avessero davanti.

In apparenza si trattava di un essere umano di sesso femminile, ma doveva essere stata colpita da una lunga scarica di mitra, perché era tutta sforacchiata, in tutto il corpo, perfino alle gambe, uno stinco spezzato da una delle pallottole della raffica veniva fuori dalla pelle.

Inoltre sarebbe dovuta essere morta, più di una dozzina di proiettili le avevano attraversato il corpo e gli organi più vitali: invece non era morta, il polso batteva, sentì il medico anziano.

«Plasma», disse, ma la suora lo aveva già pensato da sé e stava già chiamando al telefono l’infermiera dell’emoteca.
«Non ce la facciamo», disse il medico più giovane, che era pessimista.
La suora, con grandi batuffoli di ovatta fradici di disinfettante, puliva quel povero corpo bucato.
«Bisogna levarle i proiettili che ha dentro, guarda questo», il medico anziano indicò, vicino all’ombelico, il proiettile penetrato di striscio e che aveva bruciato al di sopra dell’ombelico un tratto di pelle per quattro o cinque centimetri, quindi era stato fermato dall’elasticità della pelle grassa addominale e si era incastrato solo a metà nel tessuto epidermico.
«Fosse solo questo», disse il medico più giovane, «guarda questo... proprio nello stomaco...».
«Suora, chiami l’anestesista e faccia preparare la sala operatoria».
«Sì, dottore, ma faccia chiamare anche la polizia», disse la suora. I medici, specialmente se giovani, come uno di quei due, erano dei poeti che dimenticavano tutte le cose pratiche. Con una donna impallinata come quella, ci voleva la questura, solo che loro se ne sarebbero dimenticati, se lei non glielo avesse detto.
Per quanto riguarda la sala operatoria, riuscirono a estrarle solo tre pallottole, e l’anestesista, che regolava la valvola dell’ossigeno e assisteva, disse: «Non riesco a capire come faccia a essere viva».
Gonfia di plasma, avvolta in una termocoperta, venne messa sul lettino sotto la tenda a ossigeno. E allora, al soffio vivificatore dell’ossigeno, lei cominciò ad agitare le labbra, ma non ne veniva alcun suono, non vi era forza biologica perché lei potesse produrre dei suoni con la voce, però pensava, sentiva, riconfortata dal plasma sentiva benissimo di essere viva e continuava a pensare: non voglio rimanere uccisa, e continuava a pensare di sciare, vedeva tanta neve, e James sciava accanto a lei.
Il medico anziano disse: «Durerà per mezz’ora, facciamoci fare un caffè».
«Per me solo qualche minuto, guarda», il medico più giovane indicò l’ago dello pneumometro, oscillava piano, stancamente, davvero alla fine.
Nell’infermeria, dove la suora del turno di notte stava preparando le iniezioni del mattino, in effetti non era ancora mattino, anche se erano passate le sette: dalle finestre veniva solo buio e sul piccolo fornello a gas c’era una grossa caffettiera di falso rame.
«È quasi pronto», disse la suora.
Il medico più giovane si accese una sigaretta.

«Scusi, suora, ha un po’ di latte freddo?», quello che non capiva era come quella donna potesse essere ancora viva. Probabilmente era questione di minuti.

«Sì, dottore», disse la suora, sorvegliando la caffettiera che cominciava a fumare. «È arrivata anche la polizia, ci sono i due camionisti che aspettano», se non pensava lei a questi particolari, i medici, che avevano un po’ del tonto, non si ricordavano di niente.
E, per quanto riguarda la polizia, i due agenti della questura di Bologna seppero subito che non potevano sapere niente, escluso pochi particolari.

La donna era semi-nuda, forse perché i suoi assassini avevano voluto umiliarla. Era stata colpita da almeno un paio di raffiche da dodici colpi ciascuna.

E questo era tutto. Non sapevano chi era. I due camionisti dissero che l’avevano trovata sulla strada tra Ferrara e Bologna, e non sapevano niente altro.
Alle otto, quando qualche cosa che rassomigliava alla luce schiarì la finestra della stanza dove lei stava nell’involucro della tenda a ossigeno, senza sapere se era giorno o notte, sentendo soltanto la mano di James che le strizzava le zinne, alle otto, ecco, arrivò il fotografo del servizio di controspionaggio, e anche se la suora gli diceva: «Ma la lasci stare, poverina», fece un intero rullo a colpi di flash, e a ogni lampo di flash lei sussultava, come fossero lampi di mitraglia.
E dopo le fotografie, la suora guardò l’ago dello pneumometro e vide che stava come fermandosi. È andata, pensò.

Bologna è piena di caffè, i bolognesi si trattano bene e quel caffè era uno dei più nobili della città.

Quei due, nell’angolo più buio, parlavano a voce così bassa che era come se non parlassero.
«Hanno ritrovato Anna».

«Dove sta?».

«All’ospedale Sant’Orsola».

«All'obitorio... brutta fine...

Ma se l'è cercata... voleva sempre più soldi per quei documenti...».

«È viva».
«Viva?».
«Viva».
«Non è possibile.

Gli abbiamo svuotato addosso due caricatori».
«Invece è viva, e tu sei un cretino. Prima di lasciarla, dovevi vedere se era morta o no».
«Non ci credo. Non può essere viva».
«È viva. All’ospedale di Sant’Orsola, stanza 11.

E adesso io ti spiego che cosa può succedere.

Forse lei non può parlare, e allora non ha ancora detto i nostri nomi, e tutta la storia. Questa è l’ipotesi più ottimistica, mi capisci, deficiente?».
«Sì, capisco».
«Però, anche in questo caso, sai che cosa fanno? Lei non è in grado di parlare, non ne ha la forza, e loro, la polizia, non sanno chi è, ma sai che cosa fanno?».
«Sì, lo so: le fotografie».
«Bravo, ecco: le fotografie di lei.

Poi le mandano in giro, per sapere chi è.

A me importa poco che alla fine scoprano chi è, perché alla fine lo scopriranno; quello che voglio è che non parli. È evidente che finora non ha parlato, se no saremmo già al chiuso, ma se è una di quelle gatte con sette vite che non muore mai, è questione di ore, ma parlerà, e allora saltiamo noi e tutto il giro.

Vai subito al Sant’Orsola, e finiscila: non deve parlare. Se parla, sei morto, non solo tu, anch’io e molti altri».
L’altro ascoltava a capo basso, e poi scosse il capo, sempre tenendolo abbassato.
«Ancora viva». Scosse nuovamente il capo. «Impossibile. Due caricatori 7,65 bastano per uccidere un elefante».
«Eppure è sempre viva, e appena apre bocca, noi siamo finiti». Si alzò. E sempre a voce bassissima, disse: «Stanza 11, ospedale Sant’Orsola, questa volta non sbagliare. Devi finirla, e subito, ci saranno un paio di poliziotti vicino al letto, che aspettano riprenda conoscenza.

Vai prima che parli».
L'esecutore non aveva mai sentito dire che uno potesse sopravvivere con ventiquattro pallottole in corpo; d'accordo, le raffiche tendevano a sfarfallare, ma almeno un dozzina di colpi ce l'aveva addosso; volendo togliere pure le ginocchia, le cosce, le braccia, e le mani, almeno mezza dozzina di colpi l'aveva presi in pancia e al petto.

In ogni caso, se anche era viva, fra pochi minuti non lo sarebbe stata più, a lui non piaceva sbagliare due volte.
Entrò fumando di rabbia, perché pur piccolo era molto rabbioso, nell’autorimessa vicino all’albergo dove alloggiava; poi disse al giovanotto mettendogli in mano un paio di biglietti da mille: «Hai una tuta da prestarmi?».
Il ragazzo lo guardò come uno che non aveva capito niente.
«Voglio una tuta», disse il piccolo, «e una borsa di attrezzi, e queste sono altre ventimila lire. Cerca di capire».
Le ventimila gli fecero capire tutto.
Tornò quasi subito, con in mano una tuta celeste e una grossa borsa con dentro il trapano, varie chiavi inglesi, i cacciaviti.
«Domani ti riporto tutto».
Il killer scattò via con la macchina e dopo essersi cambiato, si fermò davanti all’ingresso dell’ospedale. Scese dall'auto, si mise a tracolla la borsa degli attrezzi, ed entrò.
Quando volete entrare liberamente in qualsiasi posto, ospedale, cinema, teatro, segreteria del ministro della Difesa, archivio segreto del Sim, Servizio informazioni militari, mettetevi una tuta e una borsa nera a tracolla, e andate dove avete bisogno di andare, e se qualcuno vi ferma, voi dite: «Sono l’idraulico, mi avete chiamato ieri»; potete dire anche che siete l’elettricista, o il tapparellista, le porte si spalancano davanti a voi e potete entrare dove volete. Un operaio in tuta blu che viene ad accomodarvi il rubinetto, nessuno ha il coraggio di rimandarlo indietro o di fermarlo.
E il piccolo, in quella tuta un po’ larga e lunga per lui, e questo, però, lo rendeva perfino più credibile come operaio vittima dell’avidità sociale, e più simpatico, attraversò il largo atrio, domandò a una suora dove fosse la stanza numero 11, e s’inoltrò nel lungo corridoio che la suora gli aveva indicato, facendo ondeggiare nella camminata la borsa nera, in cui, oltre agli attrezzi che conteneva, aveva messo la mitraglietta.

Questa volta la gatta dalle sette vite sarebbe morta davvero, non gli importava neppure di andare in galera, tanto i suoi capi lo avrebbero tirato fuori, e con la borsa ondeggiante guardava i numeri sulle porte: quattro, cinque, sei, sette...

L’undici era il suo numero, pensò, preparandosi ad aprire la borsa degli attrezzi per levarne la mitraglietta.
Lungo il corridoio vi erano delle panche. Su queste panche erano seduti quelli che i medici chiamano pazienti e che attendevano di essere visitati dai vari specialisti, passò anche un chirurgo che camminava con la mascherina davanti al viso e una cassetta dei bisturi nella mano, e il piccolo idraulico, elettricista o tapparellista percorse la metà del lungo corridoio, e si fermò davanti alla porta della stanza numero 11.

Abbassò la maniglia, la porta si aprì e lui entrò.

Allora l’uomo in tuta la vide, dietro il telo trasparente della tenda a ossigeno; la vide e tirò fuori la mitraglietta, o quasi.
Nessuno può fermare un idraulico, un elettricista, o un tapparellista, è una missione impossibile.

FLOP!

L'ometto si accartocciò a terra, in un frastuono cacciaviti e chiavi inglesi.

Il chirurgo visto prima l'aveva operato al cervello con una calibro 38.
Intorno al letto della Frezzante c’erano quattro persone, che continuarono come niente fosse: due agenti in divisa, uno in borghese con un registratore al collo e un microfono che teneva vicino alle labbra di lei, e il dottore che le carezzava la fronte e le diceva: «Se non se la sente di parlare, non parli».

La stessa cosa che premeva al chirurgo.
Lei mosse il capo. Era farcita di proiettili, ma sempre viva. Viva, ma colpita a morte con ferocia selvaggia, liquidata da sicari esperti, che lei stessa aveva ricattato per spremergli altra grana. Un gioco pericoloso, finito male.

La Frezzante mosse il capo per dire di sì, che parlava.
«Il nome», disse l'agente graduato, «il suo nome, signora», era curvo vicino alla bocca di lei, attendendo una risposta.
«Anna», fu un soffio.
«Anna, e poi?».
«Anna Frezzante», due soffi.
«Chi la voleva uccidere?».
«Lavoro alla Nato...», rispose.
Il medico intervenne: «Basta, ha due proiettili nei polmoni».
E lei invece soffiò, faticosamente: «No, dottore, devo parlare...», e parlò, ansimando, davanti al microfono del registratore, disse tutti i nomi che sapeva, tutti gli indirizzi che sapeva...

L'avevano minacciata, lei aveva avuto paura e per un po' era stata al loro gioco, ma quando si era decisa a uscirne, ecco cosa le era accaduto...
«Ecco perché hanno cercato di ammazzarla, perché non voleva più lavorare per loro», disse l'agente interrogante. «Li prenderemo tutti, signora».

«Adesso devo visitarla io, signori», disse il chirurgo.

«Metterò tutto a tacere, cara.

Ma devi stare attenta a non rimanere assassinata».

E le strizzò le zinne, proprio come lei aveva sognato.