il Don Chisciotte mirabile di Mauro Cicarè: Si ringraziano vivamente l'Autore e il Direttore de Il Caffè illustrato, Walter Pedullà.
"Sono stata morta, o
per lo meno, Miguel de Cervantes (D.C. II, 70, Altisidora a don Chisciotte, bodini) È ben noto come l'ermetica di Cervantes sia assai difficile da penetrare, al pari di quella virgiliana. E' pure pacifico come sia diffusa in tutto il Don Chisciotte (D.C.), la lettura e rilettura della figura di Didone. Del resto il Marasso ha fatto ampia luce sulle fonti virgiliane dell'Opera di Cervantes, e risulta esplicito il giudizio teleologico espresso dall'Autore nei confronti di Didone ed Enea: magnificazione per la prima, esecrazione per il secondo (peraltro una costante del pensiero "occidentale" dopo Dante; ma la "magnificazione" di Cervantes è genuina e libera da qualsiasi pregiudizio larvatamente misogino). E' invece ben aperto il dibattito intorno alle figure didonee del D.C. ed alle loro modalità di riferimento. Secondo il nostro modesto avviso, sono tre le principali figure didonee: - Marcella, - la Duchessa, - Altisidora. Marcella ci appare come lo sviluppo felice e ideale della Didone della ostile tradizione para-storica greca, e sotto questo profilo, il suo interlocutore principale (Crisostomo) assume la veste del re africano Iarba (anche se l'identificazione formale è con Virgilio stesso; Virgilio in quanto "corruttore" del mito didoneo). L'espressione di Marcella è altissima ed ha valore limpidamente anti-misogino: "La bellezza in una donna onesta è come il fuoco che sta da parte o come la spada affilata: che l'uno non brucia e l'altra non taglia chi non le si accosta" (I, 14, Bodini). La Duchessa ci appare invece come lo sviluppo felice e ideale della Didone virgiliana, felicemente unita al proprio Duca. Sovrana elettissima, è in grado di riconoscere e stimare i talenti di don Chisciotte e Sancio Panza, nominando inopinatamente quest'ultimo quale Governatore di uno dei suoi possedimenti: "Sappia la signora Teresa che non è facile trovare a questo mondo un buon governatore, e così piaccia a Dio farmi star così bene come Sancio governa" (II, 50, Bodini). Altisidora è la figura più complessa ed ermetica, grazie alla quale Cervantes, secondo noi, svolge un'attenta analisi filologica della Didone virgiliana, affermando per primo la tesi della catabasi didonea, da noi recentemente teorizzata (si veda il nostro studio Dido sine veste). Il lavoro di revisione critica del testo virgiliano è realizzato secondo i propri canoni, in buona parte essi stessi mutuati dal proprio grande ispiratore, Virgilio, ovvero con metodo simile a quella "doppia scrittura" virgiliana lucidamente ricostruita dal Maleuvre, o con scrittura poliedrica (o linguaggio della follia e del disincanto, con riguardo ai due protagonisti dell'Opera), per quanto possiamo noi arguire. Si propone ora un'ampia selezione di brani (da II, 69-70, con traduzione di Edoardo Perino), riferiti alla vicenda di Altisidora, con la quale si introduce il cortese lettore nell'esame di questa figura (si ricorda che l'identificazione di Altisidora con Olimpia-Arianna-Didone è affermata in maniera perentoria in II, 57. In rosso bruno sono proposte alcune brevi annotazioni personali. Segue a fondo pagina, dopo la versione in lingua inglese, un breve commento organico). In mezzo all'andito stava un catafalco alto più che due braccia da terra, coperto tutto con grandissimo baldacchino di velluto nero, all'intorno del quale, sui varî gradini, ardevano candele di cera bianca sopra più di cento candellieri d'argento: sulla sommità del catafalco scorgeasi estinto corpo di donzella adorna di sì esimia bellezza, da far parere bella la morte medesima. Teneva la testa posata sopra un guanciale di broccato, era coronata d'una ghirlanda di vari e odorosi fiori; colle mani messe in croce sul petto, e tra esse un ramo di palma in segno di trionfo. [...] In questo apparve uno staffiere, che appressatosi a Sancio, gli mise indosso una zimarra di tela bottana nera, a fiamme di fuoco, e levandogli il capuccio, gli pose sulla testa una mitra simile a quelle che si dànno agl'inquisiti del Santo Officio, e gli disse all'orecchio che non movesse labbra, altrimenti gli si applicherebbe un paio di morse o sarebbe spacciato sul fatto. Sancio si guardava da capo a piedi, vedevasi tutto in fiamme ma poiché non si sentiva ardere, non ne faceva gran caso. Si levò la mitra, e vide che vi erano dipinti dei diavoli; se la rimise e disse fra sé: — Fortuna mia che né quelli mi abbruciano, né questi mi portano via.» Anche don Chisciotte lo stava squadrando minutamente, e tuttoché la paura tenesse sospesi i suoi sensi, non poté a meno di non sogghignare vedendo la figura di Sancio. Frattanto si cominciò a far sentire un suono poetico, ma soave di flauto, che pareva uscire dal di sotto del catafalco, e che non essendo sturbato da alcuna umana voce (perché in quel sito il silenzio stesso era rigido custode di sé medesimo) spiegava carattere di dolcezza e di amore. D'improvviso comparve poi accanto di quello che sembrava cadavere, un bel garzone vestito alla romana ("vestito da antico romano", nella traduzione di Vittorio Bodini), il quale, al suono di armoniosa arpa, toccata da lui medesimo, cantò con soavissima e chiara voce queste due stanze:
Finché non riede Altisidora al giorno E
quest'officio a me, credo, non tocca — Non più, disse a tal punto uno dei due che parevano re: non più, o divino cantore (chi altri se non Virgilio?), che sarebbe un procedere all'infinito il farci ora il quadro della morte e delle grazie di Altisidora senza pari; non morta già, come fassi a credere il volgo ignorante, ma viva nelle lingue della fama e nel castigo cui deve soggiacere Sancio Pancia, qua presente, per restituirla alla perduta luce. Tu dunque, o Radamanto, che meco giudice siedi nelle tenebrose caverne di Dite, giacché ti è noto quanto negl'impenetrabili destini è statuito a far rivivere questa donzella, dillo, dichiaralo qui incontanente e lo spiega, affìnché quel bene non si indugi che col suo rinascere ci facciamo a sperare.» Profferì appena tai detti Minosse, giudice e compagno di Radamanto, che rizzatosi questi in piedi, così sclamò: — Su, o ministri di questa casa, alti e bassi, grandi e piccoli, venite l'uno dopo l'altro, e si stampino da voi sul viso di Sancio ventiquattro guanciate, colla giunta di dodici pizzicotti e di sei punture di spilletto alle braccia e ai lombi, che in questa cerimonia consiste la risurrezione di Altisidora (l'aspetto esteriore di Didone in catabasi dev'esser quello di un profondo svenimento, o di un avvelenamento mortale, o come diremmo noi oggi, di uno stato di coma; si noti poi l'insistito riferimento al numero sei ed ai suoi multipli. Infine si consideri che - nei limiti di questo specifico ambito! - Sancio è l'unico compagno di don Chisciotte/Enea, ovvero egli ben rappresenta i comites di En. IV, 664, i quali, bevuto con gli occhi il fuoco della pira, vedono con la mente, immaginano, sognano, bramano la morte di Didone, il cui "ritorno in vita" dipende dunque dal dissolvimento di questa empia ed illusoria visione dei Troiani, che si concreta con moderna "interattività" in una sorta di occulta ipnosi a cui viene sottoposto il lettore dell'Eneide). [...] Allora Altisidora, che doveva trovarsi stracca per essere stata sì a lungo supina, si voltò di fianco (ennesima citazione didonea: En. IV, 690, in narrazione formalmente interna ai comites troiani, che è però indizio narrativo dello sforzo compiuto dallo spirito di Didone per divincolarsi dal corpo); il che veduto dai circostanti, proruppero tutti ad una voce: — Altisidora vive! Vive Altisidora!» [...] Viva Altisidora! Altisidora viva!» Si levarono i duchi e i due re Minosse e Radamanto, e tutti congiuntemente a don Chisciotte e a Sancio, andarono a ricevere Altisidora, aiutandola a calare dal catafalco; ed essa, facendo la svenuta, s'inchinò ai duchi e ai re, e guardando per traverso don Chisciotte, gli disse: — Il Cielo ti perdoni, o disamorato cavaliere: ché per la tua crudeltà sono stata all'altro mondo (a quanto mi parve) più di mille anni (interessante riferimento temporale); ed a te, il più compassionevole di tutti gli scudieri che vivano sulla terra, rendo grazie della vita che a solo tuo merito ho ricuperata: disponi da oggi in avanti, o Sancio amico, di sei delle mie camicie che ti dono, affinché tu ne faccia altre sei per tuo uso (l'uso ripetuto del numero sei non appare affatto casuale: la catabasi di Didone viene descritta nel Sesto Libro dell'Eneide), e se non le troverai tutte sane (cf. En. XI, 72 ss.), le troverai almeno tutte nette.» [...] — Che te ne pare, Sancio, di quello ch'è accaduto in questa notte? Non si può negare che non sia grande e terribile la forza di una disperazione amorosa, poiché cogli occhi tuoi stessi vedesti morta Altisidora non per altri dardi o per altra spada (il riferimento di don Chisciotte giunge puntuale), né uccisa con altro istrumento o con altro mortifero veleno, che col solo riflesso del rigore e della trascuranza che ho dimostrata per lei. [...] Altisidora risuscitata, secondando l'umore dei suoi padroni, coronata colla ghirlanda medesima di cui era adorna sul catafalco, e vestita con tunicella di taffettà bianco seminata di fiori d'oro, coi capegli sciolti giù per le spalle ed appoggiata a bastone di nero e finissimo ebano, entrò nella camera di don Chisciotte. La vide egli appena, che turbato e confuso si ravvolse e coprì tutto col lenzuolo e colla coltre del letto, non articolando parola, né sapendo come trovare la via per farle alcun segno di cortesia e di riverenza. Altisidora si pose a sedere in una sedia accanto al letto, e dopo avere mandato il più profondo sospiro, con tenera e fioca voce gli disse: — Quando le donne di alta nascita e le ritirate donzelle dànno bando all'onore, e libertà alla lingua di parlare senz'avvertenza, facendo pubblici i segreti sepolti nel loro cuore, si trovano al cattivo termine in cui io sono. Io, o signor Don Chisciotte della Mancia, sono una di queste, miserabile, vinta e innamorata; ma contuttociò onesta e sofferente tanto, che per esserlo a sì alto grado questa mia anima scoppiò pel silenzio, ed io ne perdetti la vita. Corrono due giorni da che riflettendo alla crudeltà con cui mi trattasti, o più duro del marmo alle querele mie, o perfidioso cavaliere, io ho dovuto restar morta od essere almeno giudicata tale da chi mi ha veduta: e se stato non fosse l'Amore, che sentendo pietà del caso mio, depositò il mio rimedio nei martirii di questo buono scudiere, mi troverei di già all'altro mondo. — Sarebbe stato meglio, disse Sancio, che Amore avesse depositato il rimedio nei martirii del mio asino, che io gliene avrei anche avuto obbligo; ma mi dica di grazia, o signora (che il cielo la accomodi di altro amante più tenero del mio padrone), che cosa ha veduto ella nell'altro mondo? Che cosa c'è egli all'inferno? Donde viene che chi muore disperato abbia ad andare colaggiù per forza? — A dirvi il vero, rispose Altisidora, io non dovetti morire interamente, giacché non entrai nell'inferno; ché se ciò fosse stato non ne avrei potuto uscire a patto alcuno: vero è bensì che giunsi sino alla porta (i Campi del Pianto sono situati nell'Antinferno virgiliano: la sovrapposizione è perfetta) dove stavano una dozzina di diavoli giocando alle pallottole, tutti in calze e giubbone, con collari guerniti di merletti e di reticelle fiamminghe, e con manichini che loro servivano di ribecchini a lattughe, dai quali uscivano quattro dita di braccia, acciocché le mani paressero più lunghe. In esse tenevano molte pallottole di fuoco, e quello che più mi fece stupire si fu che per formarle servivansi di certi libri all'apparenza pieni di vento e di borra, cosa mirabile e nuova; ma non fu questa la sola causa del mio stordimento, giacché lo fu pure il vedere che essendo proprio dei giuocatori il rallegrarsi chi vince e rattristarsi chi perde, a quel giuoco stavano tutti col grugno e brontolavano, e tutti si arrabbiavano e tutti si maledicevano. [...] Voleva Altisidora continuare a dolersi di don Chisciotte, quand'egli la interruppe, dicendo: «Già vi dichiarai molte volte, o signora, che mi dispiace che voi abbiate in me collocati i vostri pensieri, perché io posso piuttosto gradirli che secondarli. Nacqui per essere di Dulcinea del Toboso (Lavinia); e i destini, se pure vi sono, mi hanno fatto per lei ("e i fati - se esistono - mi destinarono a lei": così Bodini): ed è pensare all'impossibile l'immaginarsi che altra bellezza riesca ad occupare quella fede che a lei sola ho serbata: e questo vi serva di disinganno, ritirandovi nei limiti della vostra onestà, che nessuno si potrà mai obbligare a quello che non può essere.» Sentendo questo, Altisidora fece vista di entrare in collera e di alterarsi, e gli disse: — Viva Dio! don Merluzzo, anima di mortaio, nocciuolo di dattero, più ostinato e duro di villano pregato quando diventa cavaliero, che se io mi metto attorno ti cavo codesti occhiacci: pensi tu forse, signor don fracassato a bastonate, che io mi sia morta per causa tua? Tutto quello che stanotte hai visto è stato finzione, ché io non sono donna che per somiglianti capelli abbia a soffrire il dolore di un solo nero di ugna, non che morirmi. — E io ne sono pienamente persuaso, soggiunse Sancio, che queste morti degli innamorati sono tutte baie: e possono bene decantarle, ma che poi le mettano in esecuzione credalo Giuda.» Stando in questi ragionamenti, entrò il musico cantatore e poeta, che aveva gorgheggiate le due già riferite ottave, il quale, fatta a don Chisciotte profonda riverenza, disse: — Mi conti vossignoria, signor cavaliere e mi tenga nel novero dei suoi più fidati servidori, ch'è molto tempo che io me le sono affezionato sì per la celebrità ch'ella gode come per le imprese che vanta.» Don Chisciotte gli rispose: — Mi dica la signoria vostra chi ella è, affinché la mia civiltà corrisponder possa ai suoi meriti.» Rispose il giovane: — Io sono il musico ed il panegirista della notte scorsa. — Per certo; replicò don Chisciotte, ch'ella ha voce eccellentissima, ma quello ch'ella cantò non mi parve che cadesse gran fatto a proposito, che hanno a fare le ottave di Garcilasso con la morte di questa signora? — Di questo non si meravigli vossignoria, riprese il musico, ché tra gl'intonsi poeti dell'età nostra è alla moda la piena libertà dello scrivere e del rubare dagli altri autori; e venga o non venga a proposito quello che scrivono, non vi è scioccheria che non mettano in versi e in musica attribuendola a licenza poetica.» In the middle of the court was a catafalque, raised about two yards above the ground and covered completely by an immense canopy of black velvet, and on the steps all round it white wax tapers burned in more than a hundred silver candlesticks. Upon the catafalque was seen the dead body of a damsel so lovely that by her beauty she made death itself look beautiful. She lay with her head resting upon a cushion of brocade and crowned with a garland of sweet-smelling flowers of divers sorts, her hands crossed upon her bosom, and between them a branch of yellow palm of victory. [...] At this moment an official crossed over, and approaching Sancho threw over him a robe of black buckram painted all over with flames of fire, and taking off his cap put upon his head a mitre such as those undergoing the sentence of the Holy Office wear; and whispered in his ear that he must not open his lips, or they would put a gag upon him, or take his life. Sancho surveyed himself from head to foot and saw himself all ablaze with flames; but as they did not burn him, he did not care two farthings for them. He took off the mitre and seeing painted with devils he put it on again, saying to himself, "Well, so far those don't burn me nor do these carry me off." Don Quixote surveyed him too, and though fear had got the better of his faculties, he could not help smiling to see the figure Sancho presented. And now from underneath the catafalque, so it seemed, there rose a low sweet sound of flutes, which, coming unbroken by human voice (for there silence itself kept silence), had a soft and languishing effect. Then, beside the pillow of what seemed to be the dead body, suddenly appeared a fair youth in a Roman habit, who, to the accompaniment of a harp which he himself played, sang in a sweet and clear voice these two stanzas:
While fair Altisidora, who the sport But
not in life alone, methinks, to me At
this point one of the two that looked like kings exclaimed, "Enough, enough,
divine singer! It would be an endless task to put before us now the death and
the charms of the peerless Altisidora, not dead as the ignorant world imagines,
but living in the voice of fame and in the penance which Sancho Panza, here
present, has to undergo to restore her to the long-lost light. Do thou,
therefore, O Rhadamanthus, who sittest in judgment with me in the murky caverns
of Dis, as thou knowest all that the inscrutable fates have decreed touching the
resuscitation of this damsel, announce and declare it at once, that the
happiness we look forward to from her restoration be no longer deferred." At
this instant Altisidora, who probably was tired of having been so long lying on
her back, turned on her side; seeing which the bystanders cried out almost with
one voice, "Altisidora is alive! Altisidora lives!" "Long life to Altisidora! long life to Altisidora!" The duke and duchess and the kings Minos and Rhadamanthus stood up, and all, together with Don Quixote and Sancho, advanced to receive her and take her down from the catafalque; and she, making as though she were recovering from a swoon, bowed her head to the duke and duchess and to the kings, and looking sideways at Don Quixote, said to him, "God forgive thee, insensible knight, for through thy cruelty I have been, to me it seems, more than a thousand years in the other world; and to thee, the most compassionate upon earth, I render thanks for the life I am now in possession of. From this day forth, friend Sancho, count as thine six smocks of mine which I bestow upon thee, to make as many shirts for thyself, and if they are not all quite whole, at any rate they are all clean." [...]
"What dost thou think of tonight's adventure, Sancho? Great and mighty is the
power of cold-hearted scorn, for thou with thine own [...] Altisidora, come back from death to life as Don Quixote fancied, following up the freak of her lord and lady, entered the chamber, crowned with the garland she had worn on the catafalque and in a robe of white taffeta embroidered with gold flowers, her hair flowing loose over her shoulders, and leaning upon a staff of fine black ebony. Don Quixote, disconcerted and in confusion at her appearance, huddled himself up and well-nigh covered himself altogether with the sheets and counterpane of the bed, tongue-tied, and unable to offer her any civility. Altisidora seated herself on a chair at the head of the bed, and, after a deep sigh, said to him in a feeble, soft voice, "When women of rank and modest maidens trample honour under foot, and give a loose to the tongue that breaks through every impediment, publishing abroad the inmost secrets of their hearts, they are reduced to sore extremities. Such a one am I, Senor Don Quixote of La Mancha, crushed, conquered, love-smitten, but yet patient under suffering and virtuous, and so much so that my heart broke with grief and I lost my life. For the last two days I have been dead, slain by the thought of the cruelty with which thou hast treated me, obdurate knight, O harder thou than marble to my plaint; or at least believed to be dead by all who saw me; and had it not been that Love, taking pity on me, let my recovery rest upon the sufferings of this good squire, there I should have remained in the other world." "Love might very well have let it rest upon the sufferings of my ass, and I should have been obliged to him," said Sancho. "But tell me, senora- and may heaven send you a tenderer lover than my master- what did you see in the other world? What goes on in hell? For of course that's where one who dies in despair is bound for." "To tell you the truth," said Altisidora, "I cannot have died outright, for I did not go into hell; had I gone in, it is very certain I should never have come out again, do what I might. The truth is, I came to the gate, where some dozen or so of devils were playing tennis, all in breeches and doublets, with falling collars trimmed with Flemish bonelace, and ruffles of the same that served them for wristbands, with four fingers' breadth of the arms exposed to make their hands look longer; in their hands they held rackets of fire; but what amazed me still more was that books, apparently full of wind and rubbish, served them for tennis balls, a strange and marvellous thing; this, however, did not astonish me so much as to observe that, although with players it is usual for the winners to be glad and the losers sorry, there in that game all were growling, all were snarling, and all were cursing one another." [...]
Altisidora was about to proceed with her complaint against Don Quixote, when he
said to her, "I have several times told you, senora that it grieves me you
should have set your affections upon me, as from mine they can only receive
gratitude, but no return. I was born to belong to Dulcinea del Toboso, and the
fates, if there are any, dedicated me to her; and to suppose that any other
beauty can take the place she occupies in my heart is to suppose an
impossibility. This frank declaration should suffice to make you retire within
the bounds of your modesty, for no one can bind himself to do impossibilities." "Will your worship tell me who you are," replied Don Quixote, "so that my courtesy may be answerable to your deserts?" The young man replied that he was the musician and songster of the night before. "Of
a truth," said Don Quixote, "your worship has a most excellent voice; but what
you sang did not seem to me very much to the purpose; for what have Garcilasso's
stanzas to do with the death of this lady?" Ormsby Dunque Altisidora è resuscitata (in senso "tecnico-religioso")? Probabilmente no. Cervantes vuole auspicare in senso metaforico la salvezza e "rinascita" di Didone? Probabilmente sì. Ma non possiamo attenderci da lui meno di quanto ci attendiamo da Virgilio. Cervantes ripercorre palmo a palmo la catabasi di Didone e l'incontro con Enea nell'Antinferno (qui un involontario, incolpevole don Chisciotte, la cui "poesia sognatrice" è tuttavia funzionale a consentire la piena "concretezza" della vicenda). Il grande Autore chiarisce il reale movente dell'intrapreso suicidio: il successo del complotto troiano, che porta la Regina "con le spalle al muro" (Bodini; qui Perino ha tradotto con "al cattivo termine"). Geniale infine la "protesta" conclusiva di don Enea: Virgilio, hai "voce eccellentissima", ma non dovevi rendermi immortale? A tale meschina figura, di fronte a questa Signora, mi hai tu costretto? Si tratta solo di "licenza poetica", replica in maniera beffarda la maschera virgiliana, ovvero si tratta della "doppia scrittura" del Massimo Vate. Salvatore Conte (2004) |