"A lie told often enough becomes truth" Nikolai Vladimir Ilyich Lenin "If you tell a lie big enough and keep repeating it, people will eventually come to believe it" Joseph Goebbels Today, Carthage is a United Nations Heritage of Humanity site, and busloads of schoolchildren disembark daily at the big museum at the top of the hill, where the Carthaginian acropolis stood for centuries. From the summit, the original harbour looks like a little fishing village. By the standards of modern continental super- powers, ancient city states were surprisingly small, intimate places. To that small harbour came, 28 centuries ago, a Phoenician expedition led by a woman, who planted the colony that became Carthage. She chose well. From the summit you can still see, over the broken marble columns unearthed by archaeologists, past the tasteless French cathedral built by a later conqueror, the entire magnificent coastline. What better base for a maritime empire? The woman who founded Carthage may have been an exile or a refugee, but she was demonstrably a leader, and a survivor. She bore no resemblance to the self-destructive hysterical heroine of Dido, Queen of Carthage.
Gary Taylor, Sleeping with the
enemy,
Rileggere le fonti per selezionare e inferire di Salvatore Conte Le fonti storiche riguardanti la fondatrice di Cartagine, nota come Elissa o Didone, sono in assoluto scarse. Tuttavia questo dato è comune a tutta la civiltà fenicio-punica, spazzata via insieme a Cartagine, nel II secolo a.C.. Ove quindi si considerino la remota età di riferimento (IX-VIII sec. a.C.) da un lato, e la strutturale carenza di informazioni dall'altro, le fonti storiche a disposizione su Elissa/Didone sono invero piuttosto consistenti, tanto da indurre a ritenere ragionevolmente certa l'esistenza storica del personaggio, e da consentire di tracciare un quadro sufficientemente completo della vita e dell'attività. Dette fonti sono per lo più incomplete, e richiedono perciò di essere integrate da elementi inferenziali, ovvero dedotti su base logica e comparativa a cutra degli storici. Esse possono quindi essere valutate in maniera molto differente a seconda dei criteri interpretativi seguiti da ciascuno studioso. Ciò giustifica l'ampio spettro di ricostruzioni proposte. Un esempio definitivo ci viene offerto dalle fonti virgiliane, che secondo alcuni sarebbero destituite di valore storico (non sarebbero fonti storiche), mentre secondo altri sarebbero storicamente fondate ma contaminate da intenti denigratori oppure all'opposto apologetiche. A nostro parere Virgilio rimane la più autorevole fonte a disposizione, ma il suo apparato storico va distinto da quello letterario, attraverso un criterio d'indagine che ne penetri la scrittura, avente un carattere iniziatico. Da censurare, sotto il profilo scientifico, il criterio storiografico di talune Enciclopedie che attribuirebbero alla versione di Timeo di Tauromenio (e ai surrogati di questa), un valore assoluto, senza neppure citare la fonte. Ci sembra utile fare il punto della questione valorizzando un articolo fornito di sintesi, acume ed equilibrio (qui citato in turchese).
Princesse
de Tyr, fondatrice de Carthage. De nombreux textes anciens attribuent la
fondation de Carthage à Didon, également appelée Elissa; sœur du roi de Tyr
Pygmalion, elle quitte la Phénicie après le meurtre de son mari perpétré par son
frère, relâche à Chypre, où elle recrute de nouveaux colons, conduits par le
grand prêtre, arrive en Afrique, où elle obtient des autochtones la concession
d'une terre. Mais le chef libyen qui l'a accueillie ne tarde pas à exiger de
l'épouser; plutôt que de consentir à cette union, Didon, au cours d'un
sacrifice, se jette sur un bûcher et se donne la mort d'un coup de poignard. E' importante sottolineare come le "chroniques royales de Tyr" non facciano alcuna menzione ad una presunta morte tragica di Didone. L'articolo qui citato opera pertanto un'opportuna distinzione tra due elementi storici ragionevolmente certi (la partenza di Didone da Tiro, e la fondazione di Cartagine sotto la sua direzione), ed altri del tutto opinabili, ed anzi con ogni probabilità di mero gusto letterario (il corteggiamento invasivo del Signore locale, il suicidio rituale sul rogo). Confermando la tesi dell'autorevole Ettore Paratore, si ritiene che gli elementi romanzati, didattici, e moraleggianti del mito (in senso misogino, anti-libico, e contro-riformista), siano stati elaborati nel periodo di decadenza di Cartagine, e prontamente utilizzati in politica interna ed estera dalle Potenze nemiche (Roma e Grecia; alla stessa stregua della mistificazione dei riti sacri del Tophet). Pare molto probabile che l'ostinata persistenza nella memoria popolare della figura della Regina Didone, sia da ricondurre all'enorme valore storico della sua memorabile impresa, ed all'affezione spontanea dei propri sudditi (sia fenici, che libici ed extra-libici). Regina memorabile, Sacerdotessa riformista, ipostasi della Grande Dea Astarte sotto nome di Tanit. Intorno alla sua memoria, nei tre secoli successivi alla fondazione, Cartagine si sviluppa in maniera sorprendente senza accusare battute d'arresto. Tuttavia, come poi accadrà spesso nella Storia dell'Uomo, in una certa fase storica di Cartagine, subentrerà la tentazione da parte di un Gruppo di potere corrotto, di sfruttare questo enorme credito morale a beneficio proprio, ovvero per giustificare guerre espansive, regimi oligarchici, governi teocratici, discriminazione razziale e sessista (contro libici e donne); tutti disvalori estranei all'Età Elissea, fondata su penetrazione commerciale, confederazione di colonie, tolleranza religiosa, sinecismo etnico e valorizzazione della femminilità. Il brillante accostamento concettuale (svolto da questo articolo, nella parte che segue), tra la revisione ad usum Delphini del mito di Elissa e la crudele ritualità del Tophet (che peraltro confermerebbe l'identità tra Didone e Tanit), oltre all'allusione a riti semanticamente estranei (come quello della rinascita di Melqart), rappresenta una chiave di rilettura davvero convincente. Risalgono invero a questo periodo (IV sec. a.C.), le uniche prove certe di sacrifici umani nel Tophet di Cartagine. Tale inferenza si rivela quindi ben fondata. Ed il recente dietro-front dell'archeologia ufficiale sui sacrifici umani nei Tophet punici (come atti ortodossi), equivale a smentire il suicidio di Didone, ed il suo motivo fondante. Leggiamo allora la seconda parte dell'articolo, proponendo un'unica, inevitabile contro-osservazione, in merito a Virgilio. Non v'è dubbio che la delusione per la prima scrittura virgiliana, espressa nell'articolo, sia più che giustificata; tuttavia è la seconda scrittura del Massimo Vate quella che rappresenta il pensiero dell'Autore. E questa smentisce seccamente la "tradizione" pre-esistente (cf. En. 4.464/5), affermando l'unità indivisibile della Storia del Mediterraneo e la sacra fratellanza fra tutti i suoi popoli (En. 1.574). Orazio, Ovidio, e Silio Italico, seguiranno poi fedelmente le orme del Maestro. Il più antico ed universale "bi-partitismo" della Storia dell'Uomo, è così sancito: Elissei ed Eneadi si opporranno per sempre gli uni agli altri. Leggiamo Baistrocchi (Arcana Urbis): "Per il popolo romano [infatti] la guerra tra Roma e Cartagine non era tanto sentita come un conflitto d'interessi o di imperialismi economici, quanto piuttosto quale un'ordalia sacra tra due sistemi e principi religiosi antitetici ed inconciliabili, che sul piano metastorico trovava la sua espressione nel conflitto tra Giunone e Venere e, a livello mitico e metastorico, nella tumultuosa ed emblematica vicenda di Enea e Didone". La distinzione operata dall'autore è corretta, ma la collocazione storica è forzata: Elissei ed Eneadi non sono divisi dal mar Tirreno bensì dal fiume Flegetonte. Esaminiamo ora la seconda parte dell'articolo. À ces données historiques s'ajoutèrent, semble-t-il, des mythes «étiologiques», c'est-à-dire destinés à justifier des pratiques religieuses étranges ou choquantes. Les Carthaginois étaient fâcheusement célèbres pour leurs sacrifices de jeunes enfants. Or ceux-ci semblent dériver des autosacrifices que les rois phéniciens étaient obligés de pratiquer dans certaines circonstances graves. On racontait probablement que Didon avait été contrainte de se sacrifier elle-même pour assurer la prospérité de sa fondation. Le lieu de ce sacrifice, qui était en même temps celui du culte de la reine, paraît avoir coïncidé avec le «tophet» où l'on immolait les enfants. Ce sont les prêtres du tophet qui durent élaborer la première forme du mythe que quelque écrivain grec transforma plus tard en roman dans le goût hellénistique. Dans L'Énéide, Virgile a utilisé à sa manière le personnage légendaire de Didon: reine de Carthage, celle-ci s'éprend d'Énée, contraint par la tempête d'aborder sur le rivage africain ; elle se suicide, désespérée, lorsque Énée l'abandonne sur l'ordre de Jupiter. Didon ou Elyssa (www.majed.com.bi) Sembra allora che il presunto suicidio di Didone, lungi dal proteggere la propria città, sarà invece, simbolicamente, proprio la causa della sua rovina. Cartagine rimarrà forte finché forte rimarrà la memoria dell'autentico spirito di Elissa, la fondatrice morale non meno che fisica della città. Spirito vitale, fecondatore di nuova vita, indomito, e accanito contro l'oppressore, in Africa come in Asia. Che futuro per un popolo che non si identificasse con la propria coraggiosa Regina? E che sarebbe disposto a consegnarla ad un prepotente straniero, dopo che da un prepotente conosciuto s'era emancipato, attraverso di lei? Niente della nuova versione sta in piedi. Solo la preziosa vita di Didone può "assurer la prospérité de sa fondation", come così attentamente sancirà Virgilio, che non crederà ad una parola della cosiddetta "tradizione". Mistificazione storica, e crudele, e autolesionista, dunque. Perché Cartagine sarà travolta dalla propria corruzione ancor prima che dai Romani. Il carro delle Dea, quello di Giunone, di cui ci parla Virgilio, troverà una sede più degna d'esso, ben prima dell'arrivo degli Scipioni. Non si tratta qui di abbracciare una prospettiva fideistica, ma di rimanere ben saldi in una politica. I valori che avevano caratterizzato la pacifica fase espansiva di Cartagine nel Mediterraneo Occidentale, erano ormai al tramonto, pugnalati al cuore, e bruciati sul rogo. Parabola comune a molte società, che dopo una fase espansiva costruita su valori di progresso, sembrano come disconoscere quegli stessi valori che ne hanno decretato il successo, per avviarsi così, quasi inconsapevoli, al declino, ed infine all'estinzione. Lasciando l'analisi dell'articolo citato, cerchiamo ora di definire, sotto un profilo generale, i temi di maggiore interesse, nonché quelli più dibattuti, inerenti la figura di Elissa/Didone. Questi possono così essere brevemente enucleati: - contaminazioni attive e passive; - etimologia dei nomi; - implicazioni sociali del genere femminile; - incidenza personale nella fondazione di Cartagine; - teorema di Didone (isoperimetro); - caratteri del governo; - relazioni con le popolazioni locali; - rapporto con la forma repubblicana di Cartagine; - questione del presunto suicidio; - rapporto con i culti di Tanit ed Astarte. Tornando ora alla questione dell'attendibilità delle fonti, citiamo la voce relativa a Timeo di Tauromenio edita dall'Enciclopedia UTET (in rosso, a ns. cura, alcuni elementi particolarmente significativi), al fine di rendere chiaro al lettore quale sia l'enorme divario tra pubblicazioni caratterizzate da rigore scientifico, ed altre di queste che sembrano invece smarrire il senso stesso della ricerca storiografica: Storiografo greco. Nacque dopo il 356 a. C. e morì dopo il 264 a. C.; secondo Luciano sarebbe vissuto più di 90 anni. Il luogo di nascita è indicato generalmente in Tauromenio (oggi Taormina), ma da taluni in Siracusa. Dopo il 317 a. C., divenuto signore di Siracusa Agatocle, forse per dissensi con il potente tiranno, che aspirava a fondare in Sicilia un regno di tipo ellenistico, forse in seguito alla conquista di Tauromenio, T. dovette lasciare l'isola. Visse in Atene, e al tempo della sua dimora ateniese è ascritta la composizione delle sue storie. Di queste rimangono esigui frammenti. [...] Secondo Polibio (Storie, XII, 4 e sgg.), che pronuncia su di lui un giudizio assai severo, T. mancava di attitudini all'indagine critica e di esperienza pratica nella politica, nella geografia, nell'arte militare. Si afferma comunemente che egli seguisse l'indirizzo retorico di Isocrate, fondando l'esposizione dei fatti sopra l'informazione erudita e usando di una tecnica stilistica mirante più all'eleganza della scrittura che all'esplicitazione delle interpretazioni e dei giudizi storici. In realtà il suo stile è quello appunto che fu detto «asiano», assai artificioso ed elegante. [...] All'avversione per i re e i tiranni, T. accoppiò l'odio per i Cartaginesi, i «barbari» dell'Occidente. Un ultimo elemento, che completa assai bene il quadro della cultura di T., è l'ossequio che egli mostrò per la religione tradizionale. (Adriano Pennacini, voce Timeo di Tauromenio, per Enciclopedia UTET) Pesante anche il giudizio di Gerhard Herm, che definisce Timeo uno "storiografo greco di dubbia credibilità" (tr. di Gianni Pilone-Colombo). Si aggiunga che Timeo era misogino, come gran parte della società greca del suo tempo. "Timeo venne accusato dagli stessi greci di fare ricorso spesso alla bugia e alla calunnia e considerando ciò, si può ben comprendere come anche la leggenda di Didone possa da lui essere stata trasformata e fatta conoscere a Greci e Romani in una veste artefatta". Vittorio Fincati Non migliore considerazione può vantare l'altro diffamatore di Elissa, Giustino Giuniano, che aggiunge del suo a quanto proposto da Pompeo Trogo, scrittore del regime augusteo: Epitomatore delle Filippiche di Pompeo Trogo, vissuto fra la fine del II secolo e l'inizio del III. Non era romano, ma visse a Roma dove compì la sua opera. Dai 44 libri della storia di Pompeo Trogo, G. estrasse tutto ciò che, secondo le sue dichiarazioni nella prefazione dell'epitome, gli parve degno di essere noto, lasciando da parte ciò che non fosse di dilettevole lettura, nè di utile esempio. L'interesse di G. è rivolto essenzialmente alla parte anedottica e alle curiosità: ma il racconto prosegue senza vivacità, in una monotona struttura scolastica e con un uniforme colore retorico. (Enciclopedia UTET, voce Giustino Giuniano) Michel Gras, Pierre Rouillard e Javier Teixidor (tr. di Piero Arlorio), scrivono che "anche [come Diodoro Siculo; ndc] Giustino si rivela un compilatore portato all'invenzione nella sua epitome della storia universale di Pompeo Trogo, storico dell'epoca di Augusto. Ed è stato giustamente osservato che né lui né Diodoro Siculo erano dotati di particolare senso critico, tanto che, in Epitoma historiarum Philippicarum Pompei Trogi 18.6.11-12, Giustino dice dei Cartaginesi quanto ripeterà in 24.2.2-3 a proposito dei Galli, che, per tenere testa all'esercito di Antigono, sgozzarono le mogli e i figli per scongiurare le minacce divine". E' evidente che partendo dall'innegabile presupposto della divinizzazione di Elissa, Timeo e Giustino abbiano cercato (con versioni goffamente discordanti tra loro, e che superano il limite di una visione infantile delle cose) di ricondurla a motivazioni le meno trionfanti possibili, poiché l'esempio di una Regina vittoriosa sarebbe stato devastante per le società a cui si rivolgevano, dominate dallo schema patriarcale. Al contrario, uno storico avveduto ed indipendente come il greco-romano Appiano (II sec. d.C.), che scrisse in greco (per assicurarsi una più morbida recezione sociale) una Storia di Roma con distribuzione etnografica della materia, e che ebbe cariche civili da grandi Imperatori quali Adriano e Marco Aurelio, nel ripercorrere la fondazione di Cartagine, ed i primi rapporti con i nativi di Libia, non fa alcuna menzione del presunto suicidio di Didone, ed anzi sottolinea come il principale agente del sorprendente sviluppo della città, fu proprio la felice integrazione con tali nativi; ovviamente, la morte tragica della Regina fondatrice, ove dovuta a dissidi con questi, non sarebbe stata affatto un buon viatico per tali felici relazioni; tensioni iniziali non mancarono di certo, secondo Appiano, ma esse furono presto risolte, e da quel momento Cartagine iniziò uno sviluppo formidabile; inevitabile pensare alla benigna azione di una Regina ricca di talenti ed amata come propria anche dalle popolazioni locali. The Phoenicians
settled Carthage, in Africa, fifty years before the capture of Troy. Its
founders were either Zorus and Carchedon, or, as the Romans and the
Carthaginians themselves think, Dido, a Tyrian woman, whose husband had been
slain clandestinely by Pygmalion, the ruler of Tyre. The murder being revealed
to her in a dream, she embarked for Africa with her property and a number of men
who desired to escape from the tyranny of Pygmalion, and arrived at that part of
Africa where Carthage now stands. Being repelled by the inhabitants, they asked
for as much land for a dwelling place as they could encompass with an ox-hide.
The Africans laughed at this frivolity of the Phoenicians and were ashamed to
deny so small a request. Besides, they could not imagine how a town could be
built in so narrow a space, and wishing to unravel the mystery they agreed to
give it, and confirmed the promise by an oath. The Phoenicians, cutting the hide
round and round in one very narrow strip, enclosed the place where the citadel
of Carthage now stands, which from this affair was called Byrsa (a hide). (Appian, The Foreign Wars, The MacMillan Company 1899; The Punic Wars - Ch. I, tr. by L. Mendelssohn) Ma l'elenco degli autori "omissivi" è lungo e prestigioso. Esso annovera Erodoto (485-425 a.C.) tra i Greci, e Velleio Patercolo tra i Romani. Il primo, nelle sue Storie, non si sofferma sulla fondazione di Cartagine, e tuttavia dalle sue ricerche e riflessioni trapelano importanti indizi. Nella narrazione di Erodoto non si incontrano parabole didattiche, e viene spesso palesato il confine tra notizie dirette e congetture dell'Autore. Lo spirito critico dello scrittore è altrettanto apprezzabile (2.45): Ma gli Elleni dicono molte cose senza riflettere; per esempio questa sciocchezza su di Eracle. Dicono che sia giunto in Egitto, dove gli Egiziani lo avrebbero incoronato e condotto in processione per sacrificarlo a Zeus. Egli sarebbe prima rimasto tranquillo; ma quando cominciarono a consacrarlo presso l'altare avrebbe reagito e li avrebbe massacrati tutti. Ora, quando dicono questo a me pare che gli Elleni non abbiano nessuna esperienza del carattere e dei costumi degli Egiziani. Come potrebbe questa gente per cui è empio sacrificare animali, tranne maiali e buoi, o vitelli maschi che siano esenti da segni, e oche; come potrebbero, dico, sacrificare degli uomini? E poi: Eracle era uno solo, e per di più un uomo - sono loro che lo dicono -. Come poté dunque uccidere molte decine di migliaia di persone? (Erodoto, Storie, Newton 1997; L'Egitto - § 45, tr. di P. Sgroj) Non vi è dubbio, leggendo quest'ultimo brano, che Erodoto si sarebbe scandalizzato non poco se avesse avuto notizia di sacrifici umani a Cartagine; al contrario, rimarcando in tutta la sua Opera gli stretti legami culturali e religiosi intercorrenti tra Fenici ed Egiziani, pare non abbia neppure preso in considerazione l'eventualità di sacrifici infantili nel Tophet. Si notino inoltre nel fantasioso racconto riportato da Erodoto, le contaminazioni tratte dal sacrificio di Ifigenia, in cui la fanciulla è condotta all'altare sotto le apparenze di una festa di matrimonio. La visita a Tiro dello storico greco (2.44) assume d'altro canto una grande importanza, e testimonia della sostanziale indipendenza dell'Autore. In questo luogo, e dopo aver conferito con i Massimi Sacerdoti di Tiro, tutto dovette essergli chiaro sulla storia fenicia; e sugli stretti legami intercorrenti tra Tiro e Cartagine, testimonia con forza quanto riportato in 3.19. Così colpiscono per il loro rigore le considerazioni espresse in 2.3, ed ancora la riserva di 2.47 ("Io lo conosco [un certo racconto degli Egiziani, ndc]; ma non è conveniente che lo riferisca"). Allora non appare implausibile che Erodoto, benché ispirato da passione per la ricerca e da onestà intellettuale, abbia preferito omettere di riferire sull'impresa di Elissa, perché troppo colorata da particolari non verificabili e perché altresì sconveniente rispetto al modello sociale dominante, fortemente patriarcale; si tenga tuttavia conto che se la versione di Timeo si fosse basata su fonti storiche, Erodoto le avrebbe conosciute prima di lui, e non avrebbe avuto motivi per non riferirle, poiché fortemente connesse con la storia dei Libi, esaminata da Erodoto con dovizia di particolari, al contrario di quella dei Cartaginesi, esclusa dal suo programma espositivo. D'altra parte, il resoconto fatto su Semiramide e sulla poco nota Nitocri (1.184 ss.), appare sostanzialmente onesto, conferma la meticolosità di Erodoto, e la tenuta storiografica del quadro cognitivo relativo alle tradizionali Regine dell'antichità. Ed a proposito di Semiramide, Erodoto non fa alcuna menzione del presunto suicidio; elemento questo, con ogni probabilità, fantasioso e denigratorio, costruito contro Semiramide come contro Didone; mentre Elissa fondava Cartagine, Semiramide regnava su Babilonia, e la storia parlava al femminile; appare invero curioso che due Regine ben note per i sorprendenti benefici che arrecarono alle rispettive città e popolazioni, siano entrambe incorse nel suicidio. Spostiamo ora la nostra attenzione su Velleio Patercolo (19 a.C. - 31 d.C.), rispettato storico romano, contemporaneo di Virgilio, il quale ci fornisce indicazioni non meno interessanti. Sebbene provenisse dal regime augusteo, e fosse legato ad una concezione patriarcale della società, quest'uomo - al pari di Erodoto - sembrava possedere il buon gusto della verità, nonché un grado di raffinatezza non comune per un militare (si veda l'arguto aneddoto riguardante la stolidità di Mummio in 1.13 della sua Storia Romana). Egli non nascondeva la sua preferenza per Omero, avendo - crediamo - ben compreso le amarezze della doppia scrittura virgiliana, al pari, se non meglio (potendo leggere Ovidio), di Vipsanio Agrippa. Si veda a riguardo 1.5, con un giudizio di grande eleganza ed eloquenza retorica. Patercolo si allinea dunque al proprio Imperatore, grande cultore di Omero, Ulisse, e Circe. Quel Tiberio che fece scavare, per il proprio diletto, una sontuosa grotta da una parete di roccia a picco sul mare, accanto ad una delle più belle spiagge del Mediterraneo; da questa grotta, la Grotta di Tiberio, il Promontorio del Circeo scompare per far posto all'Isola di Circe; l'orientamento è perfetto, la distanza è perfetta; e nel pomeriggio, quando il sole è a picco sull'Isola, un ponte di raggi dorati che si riflettono sulle acque spumeggianti, collega la Grotta all'Isola. Abbiamo verificato di persona. Perché l'evidenza delle cose è spesso sotto i nostri occhi, e non richiede che un po' di curiosità. Così Tiberio esercitava il proprio spirito, immaginando di rinnovare l'epopea di Ulisse; Circe rappresentava forse per lui l'emblema della sfida più ardua sostenuta da Ulisse. E sappiamo che Enea, secondo Virgilio, rifiutò la sfida, passando bene al largo di quell'Isola. Oltre a non aver saputo trarre dalla Circe di Virgilio (Didone), eguali risorse, e meriti; tuttaltro. Velleio Patercolo non nascose dunque la propria delusione per l'Eroe virgiliano, ed al pari del proprio Imperatore, Tiberio, rifiutò l'identificazione con Enea, personaggio reso impresentabile dal Massimo Vate, ed indesiderato perfino ai propri cugini. Una così netta presa di distanza a pochi anni dalla tanto attesa genesi letteraria, mostra come (probabilmente grazie ad Ovidio) l'auto-sabotaggio di Virgilio fosse stato ampiamente compreso tra gli ambienti eruditi della società romana, confermando anche la tesi dell'assassinio del Vate da parte di Augusto, avanzata dal Maleuvre. In tutta la sua Storia infatti, Velleio Patercolo non farà mai menzione del pio Eroe, né su un piano simbolico né su quello più strettamente storico. Al contrario, Didone, rectius "Elissa Tyria" (con spiccata distinzione verbale dalla "Sidonia Dido" virgiliana), è citata quale personaggio storico: In questo lasso di tempo, sessantacinque anni prima della fondazione di Roma, viene fondata Cartagine da Elissa di Tiro, che alcuni identificano con Didone. (Velleio Patercolo, Storia Romana, Rizzoli 2001; Libro I - § 6, tr. di R. Nuti) Anche l'allusione finale pare indirizzata a Virgilio, evidentemente accusato di aver manipolato oltre il lecito la verosimiglianza storica, rifiutandosi così, e i toni patetici e quelli eroici della sua Didone. Velleio Patercolo sembra dunque riconoscere in Elissa un personaggio storico sobrio e rispettabile, raro esempio di leadership femminile, e si astiene sia dal proporre la tesi del suicidio, a cui evidentemente non credeva, sia dallo svolgere commenti di ordine semantico (si confronti il giudizio di valore su Licurgo, espresso immediatamente prima del passaggio su Elissa), non ritenendo di dover trarre dalle imprese del personaggio esemplificazioni di carattere generale, vista - come detto - la supposta eccezionalità dell'ardimento femminile; si confronti il giudizio su Elettra in 1.1 ("donna dal temperamento di uomo"); si noti anche che tale definizione (da nessun autore negata a Didone) è proposta con riferimento alle vicende di Oreste, sognato - in Virgilio - da Didone stessa, in un presagio dall'ambiguo significato, che lo storico augusteo riterrebbe invece ampiamente favorevole, poiché Oreste sarebbe stato assolto dalla presunta colpa. Velleio Patercolo aderisce infatti alla concezione secondo cui una morte prematura sarebbe segnale di scarsa considerazione divina ("La sua azione [sc. Oreste, ndc] risultò approvata dagli dei con la concessione di lunga vita e regno felice: visse novanta anni e regnò per settanta", 1.1). Allora, solo menzionando il suicidio di Elissa, egli avrebbe portato una pesante condanna sulla Regina di Cartagine, responsabile di superbia e troppo ardimento. Ma Velleio Patercolo non si dimostra un uomo fazioso; egli non prova accanimento, e si limita ad esporre ciò che ritiene fondato. Di altissimo ordine morale le sue considerazioni sul terribile odio tra Roma e Cartagine (1.12): Nel medesimo tempo il senato decise di distruggere Cartagine, più perché i Romani erano disposti a prestar fede a tutto ciò che si diceva sui Cartaginesi, che non perché si portassero notizie degne di essere credute. [P. Scipione Emiliano] distrusse dalle fondamenta quella città invisa al popolo romano più per gelosia della sua potenza che per danni arrecatigli in quel tempo. [...] Così per 115 anni ci fu fra i due popoli o guerra o preparazione alla guerra o pace malsicura. Dopo aver ormai vinto il mondo intero, Roma non avrebbe sperato di essere al sicuro se in qualche parte della terra fosse rimasta l'ombra dell'esistenza di Cartagine. A tal punto l'odio nato dalle guerre dura ben oltre la paura, non viene deposto neppure nei confronti dei nemici vinti, né ciò che è oggetto dell'odio cessa di essere odiato prima che abbia cessato di esistere. Sembra che Virgilio abbia trasposto quanto biasimato dall'etica di Velleio Patercolo negli assassinii di Didone e Turno per mano di Enea. Di sacrifici infantili ed infelici regine, neppure il dubbio, insomma, per lo storico romano, uomo d'onore del regime augusteo. Stupisce che la sua lezione sia - oggi - così poco seguita. Ma troviamo - oggi - parole tanto nobili sulle più recenti guerre? Passando ora dalle fonti letterarie a quelle archeologiche, viene qui presentato un caso di grande interesse, e si invita il cortese lettore a partecipare attivamente al dibattito formulando la propria proposta interpretativa (si consideri il segno di Tanit presente nella nicchia a sinistra della prima immagine): Camera tombale interrata della necropoli di Gebel Mlezza presso Kerkouane (IV-III sec. a.C.; parete di fondo rispetto il varco d'ingresso). Camera tombale interrata della necropoli di Gebel Mlezza presso Kerkouane (IV-III sec. a.C.; parete di sinistra rispetto il varco d'ingresso). La parete di destra è decorata da analoga rappresentazione priva del volatile. Quella d'accesso è priva di decorazioni. Secondo il nostro modesto avviso, la pittura parietale raffigurata nell'immagine superiore, mostrerebbe una solida prova dell'identità concettuale sussistente tra Tanit e Didone (la prima quale forma divinizzata della seconda; come sarà poi per Quirino e Romolo, o per lo stesso Indigete ed Enea; e come Melqart era il fondatore divinizzato di Tiro): la prospera città cinta da ampie mura difficilmente può non essere una rappresentazione di Cartagine (poco distante da Kerkouane), e la vicinanza col simbolo stilizzato di Tanit sembra alludere al potere fecondatore della Dea dispiegato nella "miracolosa" fondazione della città da parte di Didone. Alfabeto fenicio: scarica il set di caratteri per tastiera
[ Dido coins ] Il tintinnio della Storia |