Quale età fortunata ti produsse? Quae te tam laeta tulerunt saecula? V. (I, 605-606, Enea a Didone, Canali) Didone storica La sorprendente lezione di uno storico indipendente: Gerhard Herm di Salvatore Conte In rosso bruno, alcune pagine di Gerhard Herm, tratte da L'avventura dei fenici (Garzanti, 1974-1997; pp. 197 s., 201, 208 s.; trad. di Gianni Pilone-Colombo). In verde, un approfondimento dedicato al santuario "fenicio" di Pyrgi, opera di Michel Gras, Pierre Rouillard e Javier Teixidor, tratto da L'universo fenicio (Einaudi, 2000; pp. 45, 97 s., 129 ss., 234 ss.; trad. di Piero Arlorio). In blu corrente, alcune note dell'autore. Segue un commento organico dello stesso. "Sono, i cartaginesi, un popolo duro e tenebroso", scrive Plutarco (46-125, ndc), l'amico greco degli imperatori romani, "vile nel pericolo, feroce nella supremazia. Cocciuti nelle loro idee e rigidi verso se stessi, non sanno godersi la vita". Se non sapessimo che clichés come questi solo raramente contengono più di un granello di verità, dovremmo immaginarci questi cartaginesi come una specie di ricchi avari spartani, corpi estranei nell'area culturale mediterranea, micidiali automi comandati e comandabili da un'unica volontà centrale. Ora, ciò non può essere vero già per la semplice ragione che nessun popolo è mai come lo vedono i suoi nemici (in particolare, la cosiddetta "tradizione greca" riguardante Elissa/Didone ha in genere ottenuto un'insensata credibilità: la società greca antica era largamente misogina, e nessuna personalità femminile straniera riusciva a sfuggire, in questi didattici racconti, ad una morte violenta, per mano propria o d'altri. Ad esempio, nel caso di Semiramide, coetanea e forse cugina di Didone, l'inattendibilità dei narratori greci è ampiamente conclamata negli ambienti scientifici più rigorosi: "nella leggenda, di invenzione del tutto greca, appaiono condensate molte delle dicerie sulla scostumatezza degli Assiri, correnti nel mondo ellenico, evidentemente derivate da malevola trasfigurazione delle consuetini, anche religiose, del popolo mesopotamico", Luciano Manino per Enciclopedia UTET; si veda altresì: "Così Moloch divenne il dio mangiabambini"; ndc). Eppure così li ha registrati la storia. Il nome di Cartagine è avvolto d'un cupo splendore e desta tuttora associazioni sgradevoli, poiché anche noi continuiamo a vedere questa città con gli occhi dei suoi nemici, greci e romani. I primi l'hanno odiata, maledetta, combattuta, e diffamata; i secondi l'hanno imitata, e poi l'hanno addirittura cancellata dalla faccia della terra, con una brutalità mai più ripetuta contro nessun'altra comunità che si levò a contrastarne il progresso. Di Cartagine non doveva rimanere che un ricordo deformante. E così avvenne. A questo esito finale non poté rimediare neppure il tardo tentativo apologetico fatto da Virgilio, il principe dei poeti romani. Egli fa approdare l'eroe della sua Eneide proprio alla città nordafricana, dove s'incontra con la sua regina: la leggendaria Didone, modello di bellezza trionfante, e superiore nell'incedere alle dee tutte. Enea, il capo dei dàrdani fuggiaschi da Troia distrutta, la ama, e l'abbandona solo su ordine degli dèi per proseguire e adempiere in Italia alla sua missione storica: creare le premesse della fondazione di Roma. I foschi mostri cartaginesi di Plutarco sono dunque, per Virgilio, i portatori di un'antica civiltà, avvolti di mitico splendore, benedetti dal dono di belle donne, intessuti nella preistoria di un loro proprio stato. Nella coscienza romana, la loro immagine oscillò sempre tra questi due estremi, ma prevalse poi il negativo. Il ricordo dell'antica inimicizia era più forte di un pallido prodotto letterario. Il Romano non era Omero. Il suo poema è, comunque, un epilogo della storia di una città antichissima e un ricordo del fatto che i suoi abitanti erano venuti dalla Fenicia. Per Virgilio, Didone è la donna a cui Zeus ha concesso la grazia di "fondare una nuova Tiro, e domare, col diritto e la legge, popoli alteri". Nella leggenda e nella letteratura, sopravvive come la fondatrice di Cartagine. Arrivati in Africa, comunque, anziché tentare di esser accolti in qualche città più antica, i fuorusciti (da Tiro, i seguaci di Elissa/Didone, ndc) si cercarono un posto dove ricominciare tutto daccapo. Ciò li mise sulle prime in conflitto con Utica, la colonia fenicia più vicina. I creatori di leggende hanno tramandato anche qui un racconto altamente drammatico. Il re di Utica, dunque, s'innamorò di Elissa e minacciò di distruggere la nuova colonia se la donna non accettava di sposarlo. La figlia del re, decisa a serbare fedeltà allo sposo defunto, rispose che piuttosto si sarebbe gettata nel fuoco, come fa appunto Didone in Virgilio, anche se a causa del non corrisposto amore per Enea. Detto più chiaramente, si potrebbe intendere che Utica ricevette da Tiro l'incarico di cacciare i fuggiti ladri del tesoro, o ribelli, o eretici, o quel che erano, ma che non riuscì a portarlo a termine. I nuovi arrivati restarono sul posto, ed Elissa venne elevata agli altari. In realtà, dunque, essi erano emigrati per poter vivere nell'Africa settentrionale secondo le loro convinzioni religiose, allo stesso modo dei quaccheri, diciamo, che lasciarono l'Inghilterra per motivi analoghi e tennero a battesimo, in America, gli Stati Uniti. Nel febbraio del 1972 è uscito un saggio dell'indoeuropeista bulgaro V.I. Gheorghiev, il quale dimostra la stretta parentela fra la lingua del misterioso popolo appenninico (gli Etruschi, alleati di Enea nel Poema virgiliano, ndc) e quello hittita. La fuga di Enea da Troia distrutta non è quindi invenzione poetica di Virgilio e di Livio, ma, tutt'all'opposto, rispecchia fatti storici. Gli etruschi sono troiani: i troiani, hittiti (si veda En. I, 624: "... regesque Pelasgi"; sulle origini dei Pelasgi, si consulti quanto tramandato da Ellanico di Mitilene - V sec. a.C.; si veda anche En. VIII, 478-480; ndc). [...] Presso Veio, una delle loro più potenti città, gli archeologi trovarono alcune statuette rappresentanti la fuga di Enea, troppo antiche per aver risentito dell'influsso romano; in Africa settentrionale, il francese Heurgon scoprì cinque pietre miliari con l'iscrizione: "Custodisci gli dèi dardanidi qui portati al sicuro di lontano!". Una nuova conferma di quanto racconta Omero; nel suo poema i dàrdani sono alleati dei troiani, e hanno per capo Enea che fa vela verso Cartagine. [...] Trovata, dunque, la soluzione di un antico enigma? Così pare. Gli studiosi, comunque, si sarebbero risparmiati molto lavoro se solo avessero considerato testimoni veritieri Virgilio e Omero, invece di trattarli da puri novellatori. Già Heinrich Schliemann aveva dimostrato che non lo erano per nulla. Gheorghiev l'ha riconfermato. Peccato, dunque, che non si sia trovato un poeta deciso a illustrare in maniera di favola l'incontro tra etruschi e cartaginesi; poiché, in questo caso, ne sapremmo un po' di più sull'argomento (siamo proprio sicuri che nessuno ci abbia pensato? Abbiamo provato con Virgilio, e la "nuova Eneide" di Maleuvre? Non è forse Giunone - l'Astarte fenicia, e non l'Era greca - che garantisce narrativamente, così prefigurando anche storicamente, l'incontro-scontro tra Cartaginesi/Latini ed Etruschi/Troiani? E' solo una coincidenza - cf. En. VII, 647 ss. - che i guerrieri della città di Agilla - "antico nome di Cere, l'odierna Cerveteri", Canali - siano gli unici Etruschi a schierarsi con Turno? ndc). [...] Nel 1964, essi (gli archeologi, ndc) trovarono a Santa Severa (cittadina marittima sita 40 km. a nord della foce del fiume Tevere, ndc) - l'antica Pyrgi - un'iscrizione in lingua cartaginese ed etrusca, nella quale un principe Thefarie Velianas (o Veliunas) annuncia la fondazione di un santuario di Astarte (o Tanit, la Giunone fenicia, e la Divinità prediletta di Elissa/Didone, ndc): "Poiché la mano della dea m'ha incoraggiato". Chi fosse codesto Velianas, resta oscuro. Era forse un etrusco legato alla città marinara, della quale aveva assunto gli dèi. Se così fosse, si dovrebbe dedurre che i cartaginesi ebbero il ruolo dominante nel concerto europeo-africano. Essi avrebbero assegnato agli alleati determinate zone d'influenza, riservandosene altre fra cui, anzitutto, le vie marine.
Tanit, nome del quale ignoriamo l'interpretazione, è associata ad Astarte, la grande dea siro-fenicia. Il culto di Astarte prevalse presso i Fenici contrariamente a Cartagine, dove Tanit diventa la dea più importante del pantheon, spesso associata al dio Baal Hamon col quale sembrerebbe formare una coppia (ancora una volta Virgilio si mostra pienamente informato: cf. "Hammone", En. IV, 198; sul problema della distinzione tra Astarte e Tanit, questo sembra potersi risolvere grazie all'identificazione di quest'ultima con Elissa/Didone, che sarebbe stata considerata dai propri sudditi un'incarnazione della Grande Dea, o la sua massima profetessa, anche al fine di sottolineare all'esterno come la nuova città di Cartagine fosse nata per disegno divino; in questa prospettiva, Didone/Tanit sarebbe dunque una sorte di "Astarte rivelata": un'ipostasi della Grande Dea; del resto, la divinizzazione di Elissa è ammessa dalla stessa tradizione greca, ed è accettata da Virgilio con En. I, 607-609, e meglio precisata in I, 742, proprio nel segno di Tanit, grazie al riferimento a Sole e Luna; in tal senso anche l'autorevole e perentoria testimonianza di Silio Italico; altri promettenti filoni di ricerca sono la monetazione punica e romana, e la discendenza diretta e somiglianza esteriore vantate da Zenobia, regina di Palmira; su tale identificazione convergono i seguenti studi: R.H. Klausen, Aeneas und die Penaten, 1839; O. Meltzer, Geschichte der Karthager, 1879; E. Stampini, Alcune osservazioni sulla leggenda di Enea e Didone nella letteratura romana, 1893; G. De Sanctis, Storia dei Romani, 1916; F. Della Corte, La Iuno-Astarte virgiliana, 1983; ndc). [...] Il segno, noto come "segno di Tanit", compare nel mondo punico su stele, monumenti, statuette di terracotta, ceramiche, e lo si può ritenere una rappresentazione stilizzata della dea con le braccia distese. [...] Per ragioni a noi ignote, questo segno venne raramente usato dai Fenici. Gli scavi francesi effettuati tra 1976 e 1981 (presso Kition, colonia fenicia della costa meridionale di Cipro; ndc) hanno scoperto delle statuette femminili raffiguranti Astarte, e alcune, quelle che la rappresentano con le braccia levate, potrebbero risalire alla fine del IX secolo (si noti la coincidenza temporale con la permanenza nell'isola di Didone; si noti pure, al lettore piacendo, che per l'ennesima volta Virgilio anticipa scavi ed archeologi, attestando la colonizzazione fenicia di Cipro da parte del padre di Didone in En. I, 621 s., e quindi collocando questa nel IX secolo; ndc). Una scritta del 400 circa, dipinta a inchiostro nero sulle due facce di una tavoletta di calcare, elenca in maniera dettagliata le spese sostenute in occasione della costruzione del tempio di Astarte, la "Regina santa" (sembrano da approfondire le implicazioni dell'evidente connotazione antropica della dedica; ndc). Gli scavi hanno evidenziato che l'antico santuario della dea era stato ampliato sulla base di un piano urbanistico collegato al quartiere del porto. [...] Elementi fenici diversi e significativi compaiono nell'isola a partire dal IX secolo: tecniche costruttive, capitelli ornamentali, oggetti di lusso e un certo tipo di ceramiche si richiamano a un'arte che si può considerare fenicia. I sacerdoti sono presenti nell'espansione fenicia: a Rodi, sono all'origine dell'insediamento fenicio (Diodoro Siculo - 80-20, ndc, Biblioteca storica, 5.58), e la cittadina di Tiro Elissa, in navigazione per Cartagine, imbarca il sacerdote del santuario di Cipro quando fa scalo nell'isola. Il culto predominante era quello di Melqart (partendo da questo presupposto, si potrà meglio apprezzare la rilevanza del passaggio alla prevalenza del culto, molto femminile, della dea Astarte, promosso con ogni plausibilità storica da Didone, e soprattutto reso autorevole e "tangibile" da Didone stessa, come noto anch'ella divinizzata nel Pantheon punico; si consulti qui il pregevole romanzo storico di Michel Cyprien, La Carthaginoise; sul tema del rapporto Androcrazia-Gilania, pienamente raffigurato nell'Eneide/Didoide virgiliana, si veda l'impegnativo Saggio di Stefano Panzarasa, "Un antico futuro: le radici del bio-regionalismo nella civiltà neolitica dell’Antica Europa"; ndc). [...] I rapporti tra i Fenici di Cartagine con gli Etruschi dell'Etruria meridionale sono stati recentemente documentati in maniera particolare dagli scavi archeologici condotti a Pyrgi, uno dei porti della città-Stato di Cere (identificata con la moderna Cerveteri, ndc). Questo porto, realizzato verso la fine del VII secolo o l'inizio del VI, era collegato alla città mediante una strada carrozzabile e fu nello stesso tempo un centro religioso importante. Gli archeologi dell'Università di Roma vi hanno infatti scoperto due templi, "A" e "B", di cui il secondo, il più antico, ha attirato l'attenzione degli storici dell'antichità a motivo delle iscrizioni che lo menzionano. Nel 1964 sono state rinvenute, nelle vicinanze del tempio, tre lamelle d'oro, di cui una scritta in fenicio e le altre due in etrusco, che descrivono l'opera architettonica realizzata dal tiranno di Cere. Malgrado alcune difficoltà di comprensione del testo fenicio e la scarsa conoscenza del testo etrusco, appare certo che il tempio B era dedicato alla dea fenicia Astarte, e che il rituale praticato in suo onore era interamente fenicio. L'area sacra nella quale sorgono i templi diventò, intorno al 500 avanti la nostra era, un centro di pellegrinaggio, il che trasformò la strada tra Cere e Pyrgi in una vera e propria via sacra, al pari di tante altre esistenti nella stessa epoca nel mondo greco. Diamo, qui di seguito, la nostra interpretazione delle undici linee del testo fenicio, ricordando che le diverse particolarità della lingua utilizzata, dovute molto probabilmente alle influenze del fenicio cipriota (si noti la singolare coincidenza con il percorso seguito da Didone; percorso nient'affatto ininfluente, visto che a Cipro Didone raccolse buona parte del proprio seguito, oltre al gran Sacerdote citato sopra: "a l'escale de Chypre, elle accueillit parmi ses compagnons le grand prêtre de la déesse Astarté ou Ashtart - dans le panthéon phénicien, déesse de la Fécondité, de la Vitalité sensuelle et sexuelle, mais aussi de la Guerre - et, pensant à l'avenir de son projet de s'établir ailleurs et de donner une progéniture aux fugitifs, elle fit enlever sur la plage quatre-vingts jeunes filles. Puis elle reprit sa navigation" - Azedine Beschaouch, La légende de Carthage, Gallimard 1993, p. 14 s.; ndc), fanno sì che le traduzioni fornite dagli epigrafisti non sempre coincidano:
L'Astarte fenicia del testo di Pyrgi è identificata, nella versione etrusca, con la dea Uni, alla quale viene dato il nome di Unialastres (è ben nota, a sua volta, l'identificazione di quest'ultima con Giunone: "generalmente gli etruschi adoravano delle triadi, la più importante delle quali era formata da Tinia, Uni e Menrva - corrispondenti a Giove, Giunone, e Minerva [...] Se nell'antica Roma la triade di divinità locali era formata da Giove, Marte e Quirino, dagli etruschi, con i primi re, proviene, ed è adottata, la triade capitolina, cioè le divinità principali alle quali fu eretto un tempio in Campidoglio consacrato nel 509 a.C.: Giove, Giunone e Minerva", Francesca Brezzi, Dizionario delle religioni, Editori Riuniti 1997, pp. 80 e 135; così anche, in maniera perentoria, Massimo Pittau: "Le Lamine Auree di Pirgi - nuove acquisizioni ermeneutiche"; ndc). Questa identificazione proverebbe, a nostro avviso, che i Fenici di Cartagine erano in posizione di forza nella zona. Il tempio, tuttavia, in quanto votato a un culto straniero, era situato alla periferia. Unicamente il prestigio di cui godeva il culto di Astarte nel Mediterraneo occidentale (ritorna qui la precisa associazione tra: area di influenza cartaginese-diffusione del culto di Astarte-peculiari origini politiche e dinastiche della Cartagine didonea-affermazione sociale di Didone quale altissima rappresentazione dell'ingegno femminile, della fecondità e della prosperità, ndc) può spiegare l'utilizzazione della lingua fenicia su una delle tre lamelle. Accogliendo il punto di vista di G. Colonna, siamo propensi a vedere nella presenza del testo fenicio in terra etrusca una certa deferenza, da parte del tiranno di Cere, nei confronti dei sacerdoti e delle persone che custodiscono il santuario. Consapevole dell'importanza commerciale e politica dei Fenici in Etruria, Thefarie Velianas rimaneggia, intorno al 500 avanti la nostra era, l'area sacra, ossia il "luogo sacro" cui fa riferimento l'iscrizione. [...] La festa del seppellimento della divinità ha sicuramente origine nel Vicino Oriente. La si conosceva a Tiro, dove, a partire dal X secolo secondo un testo di Menandro (342-290, ndc), si celebrava annualmente un rito con ogni probabilità di morte e di risurrezione. La liturgia cui allude il testo di Pyrgi commemorava molto verosimilmente la morte di Melqart o di Adone e non quella di Astarte, in quanto morte e risurrezione non sono associate a nessuna dea nel Vicino Oriente del I millennio (si conferma qui l'emergere di Astarte su culti di antica pratica, e la significativa differenziazione con il contesto culturale precedente, nel quale prevaleva la visione "maschile" della divinità. Del resto è ampiamente riconosciuto alla cultura fenicia, prima e dopo Didone, che rimane peraltro summa del concetto, di annoverare fra i propri tratti più caratteristici e "moderni", quello dell'emancipazione femminile; aspetto non disgiunto dalla prevalenza strategica, nel modello sociale fenicio, del commercio e della "industria di qualità" sulle attività militari, rispetto a cui, l'ingegno e la raffinatezza femminili erano certamente più utili alle prime di quanto non lo fossero alle seconde; ndc). Il tofet è un luogo ai margini dell'insediamento, e gli unici esseri umani che accoglie sono i bambini in tenera età. Se ne trovano in altri luoghi, ossia nelle necropoli? Gli studi antropologici mostrano che nelle necropoli fenicie i non adulti hanno un posto assai limitato. L'estrema dimora del bambino sarebbe il tofet. In un'epoca di mortalità infantile elevata, il tofet è il luogo di sepoltura del feto, dei bambini nati morti e di quelli che hanno pochi mesi di vita. Questo luogo periferico è così il luogo degli individui non ancora integrati nella comunità. [...] Il tofet fu molto probabilmente un cimitero per bambini (nati morti, prematuri, deformi), ma anche un luogo sacro nel quale si sacrificavano animali per chiedere a Baal Hamon un altro figlio in sostituzione di quello incinerato (si "rischia" così di dover rivedere molti giudizi di valore: gli oscuri cartaginesi dediti allo scellerato sacrificio dei pargoletti, avevano forse più considerazione dei feti e della fecondità rispetto alla nostra evoluta società, sempre incline a porsi su un piano rialzato? Ma le sorprese non sono finite: ancora una volta Virgilio ce lo aveva già detto ed illustrato, in En. VI, 426-429; qui il Massimo Vate colloca le anime dei feti e degli infanti in un luogo particolare dell'Ade, a loro riservato: quali vite incompiute, esse non possono essere giudicate dall'Inquisitore degli Inferi, Minosse; niente di più simile alla concezione religiosa dei Fenici; in realtà, l'edificazione del tofet riguarda con certezza solo Cartagine e pochi altri insediamenti: si può quindi scorgere anche in questo fenomeno, un'accentuazione locale del culto della fecondità, antropomorfizzato nella dea Tanit; ndc).
Tanit, dea fenicia-cartaginese,
chiamata anche BA'ALAT o ASTARTE rappresentava il volto del Dio BA'AL,
personificazione del sole benefico. Il suo culto, portato dai Cartaginesi,
grandi navigatori, si diffuse ampiamente nel Mediterraneo fin oltre le Colonne
d'Ercole ed era nota anche a Roma dove fu chiamata Dea Caelestis.
Tanit,
Phoenician-Carthaginian goddess also called BA’ALAT or ASTARTE represented the
visage of god BAL’AL, personification of the beneficial sun. Her worship,
brought by the Carthago’s great navigators, became very widespread in the
Mediterranean until outside the Hercules columns. She was known also in Rome
where she was called Dea Caelestis.
Tanit,
déesse phénicienne-carthagénoise, appelée aussi BA'ALAT ou ASTARTÉ, représentait
le visage du Dieu BA’AL, personnification du soleil bienfaisant. Son culte,
divulgué par les Carthaginois, grands navigateurs, s'est répandu largement dans
la Méditerranée et même jusqu'au delà des colonnes d'Hercule. Elle était même
connue à Rome, où elle fut appelée Dea Caelestis. by Höflichkeit M. Merler [ cf. V. I, 742 & VI, 453-454 ] ndc
Rossetti's Astarte
(1877):
Il Segno di Tanit
Non sorprenda il lettore lo stile giornalistico ed irriverente di Gerhard Herm. Egli è uno storico rigoroso, raffinatissimo ed indipendente. Una mente insigne. Il suo didascalico, approssimativo riferimento all'Eneide, e l'improbabile giudizio espresso sull'Autore di questa (Virgilio), vanno molto agevolmente ricondotti alla "vecchia Eneide", al "vecchio Virgilio". Herm da alla luce la sua monografia storiografica sulla Civiltà fenicia, nel 1974, ovvero ben prima dell'Era Maleuvre della critica virgiliana. Infatti il problema della "vecchia Eneide" non era quello che Virgilio non fosse Omero, bensì quello che Enea non fosse Ulisse. E' difficile che un'Opera, per quanto artisticamente inarrivabile, possa assurgere a modello, se il proprio protagonista è un miserabile. Ma restituito a Didone, grazie a Maleuvre (si veda la sua Contro-Inchiesta), il ruolo che le è proprio, quello di Prima Eroina virgiliana (in senso assoluto: "dux femina"), ecco che l'Opera del Sommo Vate può essere (ri)letta in tutto il suo splendore. Tuttavia questo "incidente" di percorso non inficia affatto l'elaborazione concettuale di Herm, che inserisce nondimeno, in maniera geniale, la teleologia virgiliana nel contesto dell'analisi della "Didone storica" (p. 198).
In particolare, una volta adombrata in maniera plausibile e storiograficamente corretta la figura di Elissa/Didone, e così confutata l'elaborazione eziologica greco-romana, astutamente intrisa di elementi diffamatori, si giunge ad unità e sintesi col Quarto Libro di Virgilio, nel quale è proprio il minacciato suicidio di Didone, il filo conduttore degli eventi. Aspetto rilevato con altrettanta arguzia dallo spagnolo Cubillo nel '600 (La honestidad defendida de Elisa Dido, reina y fundadora de Cartago). Si noti da un punto di vista della logica cognitiva, la forte pertinenza della più importante regola strategica di un gioco antico e pedagogico, il gioco degli scacchi: "la minaccia è più forte della stessa esecuzione". Tale assunto può essere meglio compreso solo da un giocatore di scacchi. Qui si può cercare di aggiungere che la minaccia così intesa è "esecuzione anticipata e continuata". Alla Didone storica e virgiliana, la pira serve a invocare su sé stessa il giudizio del proprio popolo: "che io abbia sbagliato o no, in ogni caso sono ormai un problema per voi, dunque fate di me ciò che volete, come vostra regina accetto il mio sacrificio, ma nel giudicarmi sappiate che non io, bensì voi, non avrete una seconda possibilità: sappiate dunque ben valutare se la vostra regina vi sarà più utile da viva o da morta, perché dalla morte non si ritorna, e fino a questo punto fortunato voi siete giunti seguendo la mia stella". Se il suicidio di Didone fosse improvviso, come quello di Amata nel XII Libro, l'esecuzione non sarebbe preceduta da questa "minaccia"; il popolo non potrebbe decidere, ed il suicidio sarebbe una scelta del tutto personale, mentre diviene così una decisione "dedotta" dal contesto. Come illustrato nel nostro studio Dido sine veste, la risposta popolare, nonché quella del Senato cartaginese, è equa ed utilitaristica insieme (IV, 566-567): il patto con la propria regina è saggiamente rinnovato, la "minaccia" di Didone ha funzionato meglio dell'esecuzione. L'odisseica astuzia di Didone (intrisa però di eletta umanità, e di dotta sapienza) è del resto un tratto fondamentale del personaggio storico e letterario. Si consideri poi l'elemento fondamentale secondo cui l'astuzia di Didone non è rivolta a tutelare la propria vita, bensì la propria città, come la pura evidenza dei fatti testimonia. Nel demolire l'approssimativa tradizione greco-romana, con l'autorevolezza della propria voce, così Ovidio disegna le sorti di Cartagine in caso di morte prematura di Didone (I Fasti III, 551-556): Tosto invadono i Numidi il regno senza difesa: e il Mauro Iarba si insedia sulla conquistata reggia: e memore del disprezzo subito, "ecco dunque, disse, del talamo di Elissa io, che tante volte ella respinse, posso godere". Fuggono in disordine i Tirii, e lo scompiglio preme ognuno dovunque, come si sperdono le api incerte allorché hanno perduto la regina.
Perciò sembra opportuno aggiungere che, punendosi mortalmente e inopinatamente per una colpa "dubbia", Didone si macchierebbe di una colpa "certa" e ben più grave, anzi due: l'abbandono della propria missione di regina, ed il tradimento (quello vero) della stessa volontà del defunto marito, che tale missione le aveva indicato, anche al fine di non cedere sconfitto al proprio carnefice. "Apologia", dunque, quella costruita da Virgilio, "apologia tardiva" di Didone e di Cartagine, come dice così bene Herm, qui anticipando in qualche maniera lo stesso Maleuvre. Apologia ragionata e costruttiva, intende Herm, e questo pensiamo anche noi. Tuttavia è fuor di dubbio che il Massimo Vate non abbia inteso sostituire un feticcio con un altro: il feticcio della nascente Roma imperiale con quello dell'estinta Cartagine post-didonea. Maleuvre ci esorta infatti a privilegiare il criterio del relativismo allegorico, nel collocare correttamente la vicenda nella teleologia virgiliana. Nondimeno è difficile disconoscere come Virgilio abbia pur tenuto ben presente l'opportunità di una rivisitazione storica, che rendesse memoria e giustizia ad un popolo ormai da tempo ingiuriato e perseguitato, e che rammentasse per sempre la terribile portata di uno dei più barbari crimini della storia dell'umanità (l'annientamento di Cartagine e del suo popolo), del primo sterminio di massa, della prima pulizia etnica della storia. Un primato infame per Roma, poi rinnovato in tempi recenti, sotto le stesse, medesime insegne.
Virgilio ricorda e celebra così, per contrasto, le antiche, nobili, autentiche origini di Roma, sorella minore di Cartagine. Egli associa - indissolubilmente - la "romana" Giunone a Cartagine e a Didone (prediletta sede la prima, prediletta figlia la seconda: I, 12-18, 441-449, 498-506), ripropone criticamente il mito di Anna Perenna (Giuturna su immagine di Didone), adombrando scenari impensabili (Didone è sbarcata nel Lazio? I suoi coloni hanno fondato Roma? Oppure, più semplicemente, essi ne hanno favorito la formazione e lo sviluppo attraverso pacifici scambi commerciali, esattamente come usavano fare nei confronti dei popoli africani dell'entroterra di Cartagine? E chi ha difeso, in quel tempo, i popoli laziali da Etruschi e Greci?), volutamente sottratti al dibattito sin dalla scomparsa di Cartagine, al fine di imporre arbitrariamente il primato culturale della "costa nord" del Mediterraneo su quella sud. La "Didone storica" incrocia così la propria strada con la Didone di Virgilio. Ma il Sommo Vate non può considerare la sua Prima Eroina alla stregua di un reperto archeologico: ella è finemente plasmata dal marmo informe della storia, grazie allo scalpello del suo genio. Lo spirito didoneo è una creazione virgiliana, incorporea, incorruttibile, eterna. Dalla scintilla divina del suo cuore impregnato d'amore celeste, prende vita Galatea-Arianna-Didone. La missione della Didone di Virgilio è eterna: Cartagine va fondata e difesa in ogni epoca. Nessun compromesso con gli Eneadi: la luce si oppone alle tenebre. Alla sua Didone, Virgilio affida gli ideali della propria vita, spezzata dal martirio. Come Sicheo assassinato da Pigmalione, così Virgilio assassinato da Augusto. Ed allora, per entrambi, diviene fondamentale il significato di IV, 656: la missione è conclusa in cima a questo rogo, lo sposo ed il creatore sono così vendicati? Il fratello nemico e l'imperatore tiranno sono così puniti? No, la missione è in pieno svolgimento, le mura non sono concluse, Enea è in fuga ma sta per appestare altri popoli. Il pio Enea ed il divo Augusto semineranno lutti e stragi fino ai nostri giorni. Maleuvre esplora attentamente Didone per meglio comprendere Virgilio. Ben fatto, senza dubbio. Tuttavia pare altrettanto importante esplorare Virgilio per comprendere Didone. Ci sembra infatti importante rispondere a questa domanda: che cosa chiede Virgilio a Didone? Ella deve servire a portare esecrazione su Enea? Certo che deve. Ma non bastavano le scelleratezze di Enea cosparse per tutta l'Opera? Occorreva davvero creare il più inesauribile personaggio della letteratura di ogni tempo per portare esecrazione su questo miserabile? No, non serviva, troppa grazia per un miserabile. Virgilio era un genio e conosceva le proporzioni delle cose. Basterà dunque non guardare a quel rogo con gli occhi dei Troiani ("comites", IV, 664), ma aprire fiduciosi i nostri, per scoprire, oltre alla nuova Eneide a noi dischiusa dal Maleuvre, ed insieme a questa, una nuova Didone: l'etereo riflesso della nobile anima di Virgilio, Sommo Vate dell'Umanità, Sommo Cantore della Vita. Salvatore Conte Moreover, Mosca does not inform his audience that his use of the classical sources is selective, excluding an abundance of exculpatory evidence directly relevant to Carthaginian religion. Instead, he defines his principles of relevance by saying, “We must limit the literary evidence to those texts that deal with child sacrifice and that locate such sacrifice specifically in the Phoenician-Punic world”. By imposing these limitations, he allows himself to omit Virgil who of course writes specifically of Carthage in his Aeneid and in Book 6, 6.426-9, describes the antechamber in the underworld designated strictly for infants. As discussed by Virgil scholar Salvatore Conte of queendido.org, this separate precinct is an underworld mirror of the child-cemeteries found at Carthage and other Punic sites, and Virgil is clear that it was fate, i.e. natural causes, that was the cause of their premature deaths. (with reference to: http://phoenicia.org/childsacrifice.html#fantsupport) Il nostro articolo è citato da Letizia Lanza, studiosa antichista di primo profilo, che ringraziamo per l'interesse mostrato. si ringrazia UTET editore Cenni storici dall'Enciclopedia UTET - voce "Fenici e Fenicia":
Voce "Tanit":
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