CONTRO-INCHIESTA SULLA MORTE DI DIDONE [1] Traduzione dal francese di Salvatore Conte (approvata dall'Autore) ABSTRACT:La consueta interpretazione del Quarto Libro dell'Eneide consiste nell'apprezzare Enea a spese di Didone: si commisera la Regina di Cartagine, mentre si ammira il figlio di Anchise. Nessun dubbio che Virgilio stesso incoraggi questo tipo di lettura ad un livello superficiale, dal momento che il personaggio di Enea, quale trasfigurazione di Augusto, non poteva essere palesemente vilipeso o diminuito. Tuttavia, sotto questo manto politicamente corretto, il poeta si è premunito di esprimere il proprio autentico pensiero utilizzando un linguaggio che parla in due (o perfino tre) maniere differenti allo stesso tempo, ciò che Vipsanio Agrippa chiamava cacozelia latens. Dunque, il compito del lettore è quello di espungere le apparenze ingannevoli allo scopo di penetrare nel subtesto ed ascoltare la vera voce di Virgilio. Un tale tentativo è svolto qui con riguardo alla morte di Didone, portando a riconoscere che il Pio Enea non è forse così pio, mentre la sua vittima merita non soltanto la nostra compassione, ma nondimeno la nostra ammirazione per il suo autentico eroismo. The usual interpretation of the Fourth Book of the Aeneid results in praising Aeneas at the expense of Dido: one pities the Queen of Carthage, while admiring Anchises’ son. No doubt that Vergil himself encourages this reading at a superficial level, in so far as the character of Aeneas, as a reflection of Augustus, could not be safely blemished or diminished. However, under this politically correct mantle, the poet has managed to express his real thought by using a language that speaks in two (or even three) ways at the same time, what Vipsanius Agrippa called cacozelia latens. Therefore, the reader’s task must aim at piercing the deceptive appearances in order to penetrate to the subtext and hear Vergil’s true voice. Such an attempt is made here on the subject of Dido’s death, bringing to the realization that the Pius Aeneas is perhaps not so pius, while his victim deserves not only our compassion, but our admiration too for her genuine heroism.Illustrazioni (dall'alto in basso):
Felice idea quella che ha avuto molto di recente J.-M. Fontanier di riaprire il caso Didone interrogandosi di nuovo sulle cause, modalità e circostanze della sua morte sul rogo [2]. Non che aleggi il minimo dubbio sulla realtà del suicidio, ma il professore considera a giusta ragione che un'attenzione insufficiente a certi aspetti del testo rischia di inficiarne gravemente la comprensione globale. Così l'espressione ferro / Conlapsam, IV, 663-4 ci dovrebbe impedire, sottolinea l'autore, di rappresentare la regina morente, come è stato fatto da troppi pittori, in posizione distesa, quando ella invece si getta sulla spada alla maniera degli eroi, e di Aiace in particolare [3]; si pensi al suicidio di Catone d'Utica [4]. E' così molto giudiziosamente che J.-M. Fontanier sceglie il termine di "inchiesta" per intitolare il suo articolo, sebbene questa denominazione, che richiama il romanzo poliziesco, non vada immediatamente da sé. Nel romanzo poliziesco infatti, l'indagine non è condotta dal lettore, ma da un detective che lo segue passo dopo passo e che, alla fine, gli rivela la chiave dell'enigma: il libro è chiuso, l'inchiesta è finita. Con Virgilio, il libro rimane aperto, e 2.000 anni dopo si pongono sempre nuove domande. Ciò non significa tuttavia che il poeta abbia coltivato l'ambiguità per l'ambiguità, né che egli si sia dispensato dal fornirci tutti gli elementi indispensabili alla scoperta del suo vero pensiero, dei suoi sentimenti, dei suoi giudizi [5]. Si dia fiducia al Maximus Vates, e soprattutto non si vada, con improvvisazione di causa, a sostituirgli dei sistemi di pensiero esteriori e talvolta completamente estranei al suo [6]. Homerus ex Homero, tale dev'essere il nostro motto. Se Didone si suicida, è ciò nondimeno Enea che ne rappresenta la causa diretta, poiché ella prende la propria decisione immediatamente dopo il fallimento dell'ultimo passo tentato presso di lui per il tramite della propria sorella Anna. Il Tum uero del verso 450 (Mens immota manet ... / Tum uero infelix fatis exterrita Dido / Mortem orat) sottolinea la relazione di causa ed effetto, di nuovo esplicitata, se occorre seguire Danielino Servio, da fatis stante per responsis [7]. E quando lei si ucciderà, sarà per mezzo del gladio di Enea (ensemque recludit / Dardanium, 646-7). Ovidio ha ben riassunto la cosa (Her. VII, 195, Fast. III, 549): Praebuit Aeneas et causam mortis et ensem anche se ci si affretta forse con troppa solerzia di pensare, sulla base dei versi 646-7: ensemque recludit / Dardanium, non hos quaesitum munus in usus che di questa spada, Enea, dietro di lei richiesta, gliene aveva fatto dono. A questa concezione si oppone dapprima la verosimiglianza psicologica, poiché, eccetto gli omaggi di cortesia offerti da Enea al proprio arrivo a Cartagine (I, 647 s.), si vede bene che in seguito è lei che lo copre di ricchezze, e d'altra parte lei che ne avrebbe fatto di questa spada? Inoltre, senza voler negare l'ambiguità di un'espressione quale quaesitum munus, non occorre un filo di perversità per interpretarla in un senso che non riposa su nulla del testo, quando il poeta si è premurato precedentemente (v. 261-2) di precisarci che Didone aveva offerto un tale oggetto ad Enea (quaesitum ci informa che questo prezioso oggetto, stellatus iaspide fulva, 261, lo aveva chiesto lui) ? Infine, se fosse vero che lui, lui anche, le aveva offerto una spada, Didone non potrebbe affermare che lui abbia dimenticato questa partendo, né che l'abbia abbandonata (reliquit, 495; relictum, 507), poiché la cosa andrebbe da sé. Al contrario, se si trattasse del prezioso regalo della regina, si comprenderà senza sforzo che lui avrebbe ben voluto portarlo con sé, ma che non aveva avuto il tempo di tornare nella camera dove esso si trovava sospeso (thalamo quae fixa reliquit, 495). Quanto alla propria spada personale, egli non può averla donata, poiché se ne serve ai versi 579 s. per recidere gli ormeggi della propria imbarcazione, cioè a dire, simbolicamente, per uccidere la regina [8]. Si invocano, per giustificare l'inflessibilità del Troiano, gli ordini del grande Giove, ma Giove non proibiva questo indugio [9]: siamo così più "realisti del Re", e questo non è un buon segno. Il comportamento di questo dio nell'Eneide, e non più tardi che in IV, 198 dove ci vengono ricordati i suoi tranelli ed i suoi stupri (rapta Garamantide nympha), non è tale da permettergli di dettare la condotta degli uomini sostituendosi alla loro coscienza morale. La responsabilità de "l'amante nemico" [10] si trova dunque pienamente coinvolta in questa morte, che in una certa maniera s'apparenta ad un assassinio [11]. Così è spiacevole che J.-M. Fontanier non abbia avuto il tempo di trattare questo aspetto della questione (« non è questo il luogo », p. 258), accontentandosi di sottolineare nella sua conclusione la "mediocrità" dell'eroe di fronte alla "grandezza" della sua antagonista. Dal momento che questo epiteto di "mediocre", sotto le sue arie di eufemismo (o di litote?), si collegherebbe piuttosto ad un forzato omaggio del vizio alla virtù, consegue che piena ed intera è la giustificazione portata d'altra parte all'atteggiamento di Enea. Così, p. 245: « l'eroe è obbligato a tradire la sua parola amorosa e ad abbandonare la straniera » (sc. rispetto alla tradizione alla quale egli è ascritto); p. 249: «il narratore ha giustificato il suo eroe poco prima (v. 393) [12], in virtù del primato della pietas sulla fides amorosa»; p. 252: « Enea riceve l'ordine di lasciare Cartagine, e dunque la sua amante reale »; p. 257: «Enea, semplice strumento ubbidiente agli dei»... Di conseguenza, la "mediocrità" del figlio d'Anchise non gli impedisce affatto di mostrarsi d'una virtù sublime e d'una pietà ammirevole, in potente contrasto con l'esplosione di violenza che caratterizza Didone. Si è riconosciuto il vecchio schema convenzionale, al quale J.-M. Fontanier aderisce quasi vergognandosene, e per giunta presentandosi allo stesso tempo quale difensore della "grandezza" di Didone. Ma c'è grandezza e grandezza. Morire gettandosi su una spada, è una gran cosa in effetti, ma anche dei criminali possono morire così. Allora, la regina sarebbe grande nel crimine, come Enea, nonostante la propria "mediocrità", si mostra grande nella virtù? Lo si teme fortemente, dal momento che ella ci è presentata come "da subito" ed "essenzialmente" guidata dal desiderio di ottenere vendetta sull'infedele (p. 251), e dedita per questo scopo alla "pura magia nera, aggressiva" (p. 253), "Laodamia nera" che sarebbe (p. 254), capace, colma d'odio, di abbandonarsi al momento della morte «ad una parodia funebre dell'atto amoroso». Tuttavia, una tale interpretazione fa realmente giustizia a l'infelix Dido? Osserviamo prima di tutto che se la regina avesse voluto vendicarsi, non stava che a lei di farlo: ella si trova a casa propria e tutte le occasioni sarebbero buone [13]. Eppure non muove un dito. Alcuni hanno voluto interpretare contro di lei i versi 435-6, questa famosa crux virgiliana spesso catalogata come la più temibile di tutta l'opera [14]. Al fine di motivare sua sorella a recarsi presso di Enea per tentare di convincerlo, Didone immagina questo argomento supremo: Extremam hanc oro ueniam, miserere sororis, Quam mihi cum dederis cumulatam morte remittam. Noi preferiamo dederis a dederit, nonostante che questa seconda declinazione goda di ampio credito nelle fonti tradizionali e continui ad incontrare il maggior favore nelle edizioni [15]. Il commentario di Servio afferma espressamente che dederis era la declinazione autorizzata dagli esecutori testamentari: asserzione tale per cui si ha ancor meno ragione di contestare che dederit faccia, senza dubbio, figura di lectio facilior. Servio, ancora lui, mette il dito sull'illogicità di dederit osservando incisivamente che, se Enea desidera la morte di Didone come costei ha l'aria di supporre, egli deve soprattutto guardarsi dall'accordare il differimento: nam si eam odio habet Aeneas, restat ut eius morte laetetur. Salvo dunque a voler considerare, come non teme di farlo M. Rat, che Enea accorderà il favore (dederit) e che Anna ne riceverà la ricompensa, i.e. la successione reale (tibi sottinteso a remittam), si viene ridotti a forzare il latino per estrarre da morte, che significa "con la morte" [16], il senso di "con il mio tipo di morte", i.e. "astenendomi dal maledirlo", o, peggio ancora, "astenendomi dal ricorrere contro di lui alle pratiche della magia distruttiva" [17]. D'altra parte, il latino, argomentiamo noi, costringe a separare cumulatam da ueniam perché è solo attraverso un abuso di linguaggio poco ammissibile che il poeta avrebbe potuto scrivere remittam per reddam o referam. Occorre dunque che remittam regga cumulatam con un te sottinteso: « Se tu accordi a me la tua indulgenza su questo punto, io in compenso perdonerò a te (sc. di aver causato la mia morte [18]: perché Didone conosce in anticipo la risposta, sebbene occorra comunque provare fino in fondo: cf. v. 415), te che questa morte condurrà in vetta, i.e. tu che mi succederai ». Virgilio, anche qui, ha sperimentato, ma, come sempre, lo ha fatto nel pieno rispetto della lingua, atteso che tra "rimandare" e "rimandare adempiuto" non v'è che un sol passo, te remittam suggerisce tibi culpam remittam. Ora, perché tanto mistero da parte della regina, se non per attenuare l'espressione di colpevolezza, renderla meno offensiva, ed avvolgerla in un alone di oscurità che la stessa interessata dissiperà? Cosa certa, Anna adempie con il più grande zelo alla propria missione presso il Troiano, iniziando così una redenzione che dovrà ancor passare per la terribile prova di dover erigere "con le sue stesse mani" il rogo ove s'immolerà sua sorella (v. 494 s., 675 s.). Dopo che l'ambasciata dell'estrema invocazione d'aiuto viene respinta come era scontato che fosse, e come Didone si aspettava, ad ella non resta che implorare la Morte (Mortem orat, 451). Enea è infatti molto peggio della Mors. Tanto egli era stato sordo a tutte le sue preghiere (oro, 431, oro, 435, orabat, 437), quanto questa saprà mostrarsi compassionevole [19]. La Morte, compassionevole? Il concetto potrebbe apparire beffardo e sicuramente lo sarebbe se la Morte fosse qui considerata in qualità di forza distruttrice. Ma non si tratta di ciò, ed è questo che implica il verbo orare, troppo rapidamente scambiato per un vago sinonimo di desiderare (Servio) e tradotto con "chiamare" (Rat) o "invocare" (Bellessort, Perret), mentre esso significa propriamente "implorare" (Villenave), come se la risposta della Mors non andasse da sé, come se questa non fosse scontata (Noctes atque dies patet atri ianua Ditis, VI, 127). Ora, cos'è che tratterrebbe Didone dal darsi la morte, se non lo scrupolo religioso? Servio lo aveva ben compreso, ma, offuscato dal proprio desiderio di dimostrare l'assimilazione di Didone alla moglie del sacerdote romano (cf. e.g. ad v. 29 e 646), egli va un po', se ci si permette l'espressione, a cercare mezzogiorno a ore quattordici : aut certe ideo orat, quia consecrata fuit. Ora, perché non accontentarsi di dire che la regina si comporta nella circostanza come qualsiasi essere umano cosciente del carattere sacro della vita e che non si riconosce il diritto di metter fine ai propri giorni ? Ella nondimeno sta per uccidersi, ma non senza che Virgilio, il poeta che condannava senza riserve il suicidio (cf. VI, 434-9), si sia preoccupato di trovarle tutte le giustificazioni possibili. Queste giustificazioni sono di tre specie: l'eccesso della sofferenza (euicta dolore, 474), il manifestarsi di certi presagi sovrannaturali, quali la trasformazione del vino in sangue o la voce del suo defunto marito [20] - e la formula Quo magis, 452, rivela bene l'intenzione virgiliana di salvare l'eroina [21] (merita nec morte, 696) -, infine il senso del dovere verso la propria città e verso sé medesima, che le impone di fare giustizia di sé stessa. Ci sembra che sia sul terzo punto che occorra soprattutto insistere, perché esso domina più o meno segretamente l'insieme di questo brano e permette tra l'altro di delucidare il problema testuale posto dal verso 464: Multaque praeterea vatum praedicta piorum Terribili monitu horrificant ove la maggior parte degli editori preferiscono priorum in luogo di piorum [22]. Si sostiene che piorum sarebbe "banale" (è il termine di R. Pichon; cf. R.G. Austin: « priorum has more point »), ma il suo concorrente, senza contare che esso esagera l'allitterazione, non si riconnette a nulla, tanto nel contesto immediato, quanto in quello generale. Quando Servio confronta i versi 65-66 - eco in effetti evidente, dal momento che furentem è presente in 465 come in 65 - egli non s'avvede che priorum sarebbe una maniera curiosa per un poeta di riferirsi ad un passaggio precedente (perché no una nota di rinvio?). Ora, non solamente l'epiteto pii ritorna in VI, 662 per qualificare il sostantivo vates nel senso di "poeti", ma si rileva pure che un termine come praedicta può significare "i comandamenti", "i precetti", almeno quanto "le predizioni". E se il lettore non può che domandarsi con perplessità da parte di chi sarebbero pervenute a Didone le predizioni di sventura, egli in compenso si rammenta, secondo I, 740 s., che i poeti godono di grande considerazione presso la reggia di Cartagine; egli si rammenta inoltre che la costruzione dei teatri costituisce una delle maggiori preoccupazioni degli architetti della nuova città (I, 427-9). Questo stridente anacronismo dovrebbe indurci ad accettare l'idea che Virgilio abbia inteso trasmettere alla propria eroina la conoscenza dei miti di Oreste e Penteo, o ancor meglio, che l'abbia supposta avvezza alla lettura dei grandi poeti tragici greci che detti miti hanno trasposto in scena (scaenis agitatus, 471) [23]. Sarebbe molto sciocco rimproverare all'autore la sua audacia. Le circostanze di tempo e di luogo non rappresentano agli occhi di chi è ispirato molto più del mero aspetto delle cose e non meritano dunque molto più di un trattamento di superficie: i miti, e non meno le grandi Tragedie, sono eterni ed universali. Cerchiamo dunque di apprezzare nel suo autentico valore l'affascinante contrasto dialettico che, in virtù di questo anacronismo, viene ad essere raffigurato tra la letteratura e la vita (creata in larga misura a partire da suggestioni letterarie, Didone ritorna ogni volta ben viva ad arricchire del proprio sangue le figure della commedia umana) [24], tra la finzione e la realtà (doppio senso di agitatus: aut quia furuit... aut quia multae sunt de eo tragoediae: quasi frequenter actus, Servio), tra il sogno e la veglia (In somnis = "in sogno" o "nell'insonnia"; pro insomniis, id est uigiliis, Servio; cf. insomnia, 9). Ora dunque, « i terribili moniti degli eletti poeti » acquisiscono in pieno il loro significato proprio, apparendo essi come l'espressione più eloquente e, se si vuole, più profetica, della voce della Coscienza: « oh vendicatori delle virtù! », è così che l'autore dei Castighi (II, 6) saluta i poeti eletti, suoi pari, e nominatamente il vecchio Eschilo. Da un punto di vista oggettivo, l'errore di Didone, di certo, non ha nulla in comune con il sacrilegio di un Penteo o la macchia di un Oreste, nondimeno però, l'aver tradito un Sicheo per quel mostro che si è chiaramente rivelato nella persona di Enea, non è un delitto da poco e, agli occhi di una donna dalla coscienza morale così raffinata come a quelli di una regina capace di incarnare la Giustizia nella propria città (I, 507-8), e che sa fin dove è degradata (cf. in particolare v. 68-89), una tale mancanza alla parola data e poi rinnovata in termini definitivi in 24 s., non merita altro castigo che la morte (v. 547): Quin morere ut merita es... Perciò ella si rappresenta nel proprio teatro interiore sotto le sembianze del criminale perseguitato dal suo stesso crimine: Penteo dalle Eumenidi, Oreste da Clitennestra, sé medesima da Enea. Ciò che affermano i poeti, è che nessun colpevole può sfuggire al proprio delitto, e le Dirae, 473 non sono nient'altro che l'illustrazione poetica di questa grande lezione (ultrices, 473, 610). Armate di torce ardenti e di neri serpenti, le terribili divinità inseguono la loro preda senza tregua né indugio. Assise sulla soglia del tempio d'Apollo, esse attendono che Oreste esca per afferrarlo al varco (sedent in limine, 473). Ma del resto, non l'hanno costoro già afferrato dall'interno, nella misura in cui l'hanno reso pazzo furioso, (così Penteo demens, 469), cioè a dire che egli le ha interiorizzate, queste il cui altro nome è Furiae ? La formula del verso 474, concepit furias, esprime senza ambiguità proprio questo concetto [25], lo stesso del verso 532 che descrive Didone « vagante in un oceano di collera (ire) »: Saevit Amor magnoque irarum fluctuat aestu. Si sa infatti che il termine irae (o Irae) è da annoverare tra gli eteronomi di Dirae, ciò non soltanto per la testimonianza di Servio (ad v. 453: Dira enim, deorum ira est), ma soprattutto in virtù delle descrizioni di Dirae in VII, 324 s. (Alletto al servizio dell'Ira di Giunone), in XII, 845 s. (le gemelle al servizio dell'Ira di Giove), ed anche al libro III sotto avatar d'Arpie. Il poeta non ha dunque scelto per caso con riferimento ad Amor il verbo saevire, che evoca specificamente l'azione delle Furie: cf. ad esempio XII, 849, VII, 287, 329 e quel Saevit amor ferri, 461, curiosa eco del verso che qui ci intrattiene. Il crudele dio agisce nel cuore di Didone quale espressione delle Dirae, della cruda Giustizia divina (come la Venere di Tibullo I, 5, 57-8: sunt numina amanti, / Saevit et iniusta lege relicta Venus: tuttavia nessuna magia qui), e vi suscita una furiosa tempesta "d'ira" nella quale il senno della sventurata minaccia ad ogni istante di far naufragio. Questa "ira", questa collera che Amore, trasfigurato nelle tempestose onde marine (saeva ... / Aequora, 523 annuncia Saevit), ha scatenato in lei, viene fatta propria per intero dalla stessa regina (ambiguità del soggetto di fluctuat), cioè a dire che ella acconsente alla propria distruzione, ella è in collera contro sé medesima. E questa collera suicida, questo tormento dell'anima colpevole affezionata al suo stesso castigo (Quisque suos patimur manis), ciò è anche detto in linguaggio virgiliano curae, equivalenza garantita dal parallelismo tra il verso 532 e Lucrezio VI, 34 da una parte (curarum tristis in pectore fluctus), ed ancora Catullo 64, 62 dall'altra (et magnis curarum fluctuat undis). Si ha dunque torto, allorché il poeta introduce il verso 532 con questa espressione: ingeminant curae a tradurre con « i suoi dolori raddoppiano » (Bellessort) o « le sue pene raddoppiano » (Perret), come se il termine curae si situasse qui su di un semplice piano fisico e psicologico (sebbene questo sia forse vero nel caso di Catullo), quando invece esso afferisce a pieno titolo alla sfera spirituale e metafisica. Inoltre è a chi contestasse questa accezione di irarum [26], che incomberebbe di spiegare nel monologo dei versi da 534 a 552, l'affievolita, ben modesta velleità di vendetta contro i Troiani. Se è vero che la regina avrà più tardi un moto di collera nell'osservare la flotta troiana che fugge a vele spiegate nell'incerta luce dell'alba (v. 590-4), occorre tuttavia ben rimarcare come ella reprimerà prontamente questo impulso affermando di non riconoscere più sé stessa (v. 595): Quid loquor? aut ubi sum? quae mentem insania mutat? Le immagini fantasiose di un tempo già trascorso ove si proietta un rimpianto puramente gratuito (v. 600-6), non hanno certo il potere di caricare d'una qualsivoglia aggressività l'Inferar del v. 545, come tuttavia vorrebbero diversi esegeti, a dispetto del contesto («absurd in the context», R.G. Austin; «concetto... estraneo al contesto», J. Perret). Trascinata alla deriva dalle onde furiose delle Ire, la regina è riuscita ciò nonostante a riprendere il controllo di sé stessa, ed è questo che indica Sic adeo insistit, 533, ove Sic annuncia ciò che segue poiché insistit si oppone a fluctuat, 532 (adeo sottolinea questa relazione: "per reazione"). Questo spirito rifiuta di affondare, s'aggrappa al proprio ragionamento (insistit nel senso di "persistere") e alla propria decisione precedente (Decrevit, 475; insistit nel senso di "arrestarsi") come ad un salvagente, ad un'ancora, ed è solamente dopo che ella ha esaminato lucidamente tutte le vie di salvezza possibili che la propria conclusione cala come un verdetto: Quin morere ut merita es. La morte non è soltanto inevitabile, essa è, a suo giudizio, meritata, e le permetterà in una volta sola di rendere un servizio al proprio popolo e di far giustizia di sé stessa. Questo merita es garantisce la transizione verso il movimento finale ove ella in apparenza se la prende con la sorella Anna, tuttavia, come si è detto, non per trovarsi delle molli giustificazioni, bensì, secondo l'interpretazione di Plessis-Lejay, sull'onda del rimpianto, dell'immensa tristezza provata di fronte al destino che ha voluto che il tradimento le fosse consegnato da un essere così caro (tu...tu: "questo ha voluto che fosti proprio tu..."), persuaso di salvarla quando invece ne decretava la rovina (lacrimis evicta tuis racchiude in sé il perdono). Il suo Non licuit (v. 550-1): Non licuit thalami expertem sine crimine vitam Degere more ferae talis nec tangere curas è con tutta dolcezza che ella lo mormora alla sorella, mentre è con tutta severità che ella lo pronuncia a sé stessa. Da questa doppia destinazione scaturisce senza dubbio l'enigma di ferae, sul quale si disputa aspramente per determinare se occorra prenderlo in buona o cattiva accezione, come nostalgia o come ingiuria. Poiché lo stesso tipo di ambiguità risiede nell'espressione Non licuit, atto a significare tanto "quello non m'è stato concesso" che "io non avevo il diritto": «Io non potevo senza macchia, quindi senza castigo, lasciarmi andare ai miei istinti». Una volta di più, benché velata sotto una differente formula sintattica (letteralmente: "senza macchia e senza subire tale castigo"), compare la relazione tra crimen e curae [27]. L'uomo si distingue dalla bestia per la capacità di soffrire per le proprie colpe, ed è d'altronde per questo che curae in tutto questo passaggio è così fortemente intriso di valore spirituale rispetto al verso 528 (Lenibant curas et corda oblita laborum) con il quale si confronta [28]. Si deve dunque pensare che Didone si rimproveri di «essersi comportata come un animale» nel cedere alla propria passione per Enea? E' proprio così, ed il verso seguente, che prorompe come un grido a lungo trattenuto, ce lo conferma: Non servata fides cineri promissa Sychaeo. «Benché fossi vedova, e sventurata d'esserlo, io non avevo il diritto... » (oppure, più semplicemente: « La vedova che io ero non aveva il diritto...») [29]. Didone ha valutato l'abisso che la separa da "l'altra metà della sua anima", unanimam... sororem, 8. Anna non è fatta della medesima pasta con la quale si fabbricano gli eroi e i santi; tra le due sorelle c'è la stessa differenza di razza che intercorre tra Fedra e la Nutrice nella pièce di Euripide. Quindi la regina non ha alcuna remora nel ricambiarla quando, avendo deciso di morire, ella maschera i preparativi del suicidio con l'espediente del cerimoniale magico (v. 500-3): Non tamen Anna nouis praetexere funera sacris Germanam credit nec tantos mente furores Concipit aut grauiora timet quam morte Sychaei. Ergo iussa parat. I commentatori rimproverano ad Anna di mancare di psicologia, assumendo che ella avrebbe dovuto rendersi conto di come fosse più grave l'essere abbandonata da un perfido amante rispetto all'aver visto assassinare un marito molto amato. Strano processo questo che le si fa qua. Anna ha ancora ben presenti davanti ai propri occhi i terribili eventi che provocarono il loro esilio da Tiro, ella sente ancora risuonare negli orecchi i lamenti di Didone (Postquam primus amor deceptam..., 17; Anna, fatebor enim..., 20 s.) ed ella sa del resto con quale amore sua sorella coltivasse la memoria del defunto, miro...honore, ci dice il poeta (v. 458), ovvero come se il morto non fosse invero morto (exhibendo ea (mortuo: Servio D.) quae circa uiuos solent fieri, Servio), così come indicano le parole niveis e festa, 459. Senza alcun dubbio, Sicheo è stato più amato di Enea - che, dopo tutto, ora non è niente di più di un "nemico" (hostem, 424, hosti, 549) -, e lo choc prodotto dalla sua scomparsa dovette essere più grave della disillusione causata dal tradimento dell'altro. No, Anna non è una cattiva psicologa, il suo unico torto è proprio quello di affidarsi alla psicologia e, errore che si potrebbe ritenere tipicamente moderno, di confondere lo spirituale con lo psichico. Si dice che ella abbia il torto di sottovalutare l'aspetto dell'orgoglio ferito, dell'affronto [30]. Ma se si trattasse solo di questo, Didone attingerebbe dalla disgrazia stessa il coraggio per superare la prova. Lo si vide bene al momento della morte di Sicheo quando, animata dall'intento di vendicarsi, per sé stessa e per il proprio marito (Ulta virum, 656), dell'abominevole Pigmalione, questa donna così duramente colpita seppe comportarsi "da condottiero" (I, 364): dux femina facti. Ma la molla che la faceva agire, oggi si è rotta. La vita le è divenuta un peso (taedet, 451) da quando ella ha perduto la stima di sé stessa [31]. Contro la tentazione di cedere alla disperazione, ella era stata sostenuta a quel tempo, dalla consapevolezza del proprio dovere, a lei indicato sotto le sembianze di Sicheo, apparsole in sogno per incitarla a vivere (I, 353 s.): questa volta, la medesima voce opera in senso contrario, comandandole, questo è ciò che lei crede, di morire (v. 460-1): Hinc exaudiri uoces et uerba uocantis Visa uiri E nulla mostra con più amara ironia la differenza tra le due situazioni che la ricostruzione che ella svolge ai versi 544-6 della sua partenza da Tiro. Riprendere il mare con i Tiri, sradicarsi da questa nuova patria, ma questa volta non per sfuggire ad un tiranno, bensì per seguirlo ! Ci sarebbe pur certo la possibilità, non esclusa dalla formulazione di questi versi, che i Tiri vadano a stabilirsi altrove che in Italia, quindi lontano da questi infidi Troiani come da Pigmalione o da Iarba. Ma occorrerebbe affinché ciò potesse avvenire che essi avessero conservato intatta la fiducia nella loro sovrana; ma questa fiducia, l'ha persa lei per prima, ed è per questo che ella si immagina, a torto o a ragione, che essi le siano divenuti ostili (infensi Tyrii, 321). Unico ostacolo al benessere del proprio popolo, attrattiva irresistibile per Iarba e gli altri monarchi suoi vicini, ella deve scomparire. Questa risoluzione, viene da lei presa con piena cognizione di causa (Decrevit, 475 ha un colore politico ancor più che stoico) e, avendola presa, ella ne fissa con accuratezza le modalità d'esecuzione, come se si trattasse di un'altra persona (v. 475-6): tempus secum ipsa modumque / Exigit... La regina di Cartagine, a differenza di Amata, non si impiccherà ad una trave della propria camera. Ciò si deve forse non tanto al fatto che ella ripugni un tipo di morte sordida e che preferisca, secondo l'espressione di Cartault, morire "in maestà". Piuttosto, nelle sue intenzioni, questo sacrificio avrà un valore purificatore, tanto a titolo privato, per lavarla dalla propria colpa verso Sicheo, tanto a titolo pubblico, per consentire alla collettività di ritrovare la pace con sé stessa e con i propri vicini (Iarba non avrà più un pretesto per intervenire): doppio aspetto espresso dal fatto che Anna nei suoi preparativi dovrà procedere "in segreto" (secreta, 494), che però naturalmente tutto il palazzo conoscerà, e che le fiamme vendicatrici sembreranno abbracciare l'intera Cartagine (v. 670-1; V, 3-4). Ma per ottenere la collaborazione della propria sorella, va da sé che Didone doveva utilizzare uno stratagemma, ed è qui che interviene la sacerdotessa numida. In verità, una tale messa in scena era davvero indispensabile? la regina non poteva molto semplicemente sostenere, come nella tradizione, che ella desiderava placare l'ombra di Sicheo, stante la sola differenza che nella tradizione si trattava di chiedere al defunto il permesso di mancargli di parola quando invece qui occorre implorare il suo perdono? Cominceremo ad osservare che Virgilio è meno lontano dalla tradizione di quanto non sembri ad un primo sguardo, poiché le apparenze dei versi 478-9 sono ingannevoli. Dopo aver ricomposto il proprio viso e "dispiegata la speranza nel proprio sguardo", spem fronte serenat, 477, Didone "affronta" la sorella in questi termini (adgressa, 476): Inueni, germana, uiam, gratare sorori, Quae mihi reddat eum uel eo me soluat amantem Conoscendo le vere intenzioni dell'enunciatrice, il lettore non ha alcun merito a percepire il funebre equivoco contenuto in parole come uiam, reddat, soluat [32]. Ma quando si tratta di precisare il vero senso di queste parole, le sue idee si ingarbugliano un bel po', poiché egli si accorge che in realtà il verbo reddere resiste all'ambiguità stante il fatto che sarebbe assurdo che suicidandosi, Didone speri di ritrovare Enea nell'aldilà ! Se dunque si vuole che il verso 479 funzioni in un doppio senso, occorre che almeno nello spirito di Didone eum rappresenti Sicheo e non Enea (cf. d'altra parte VI, 473-4), mentre, a pena di contraddizione, eo si riferirebbe necessariamente a quest'ultimo, non potendo Didone considerare come desiderabile l'essere liberata dal proprio amore per Sicheo [33]. Alla particella uel, l'esegesi classica impone un senso disgiuntivo (« che mi renderà l'amato o che me ne libererà », J. Perret), in virtù del quale così suonerebbe per noi: « che sia mi renderà Sicheo, sia (in tutti i casi) mi libererà dalla mia maledetta passione per Enea »; sarebbe allora impossibile stabilire se Didone dubiti di ottenere il perdono di Sicheo o piuttosto se ella intenda esprimere il proprio scetticismo sull'immortalità dell'anima. Ma avvalorare una tale incertezza sarebbe come farle un'enorme ingiuria e non rimane al lettore che dissiparla restituendo a uel il suo valore di equivalenza (= "in altri termini"): « Ho trovato il rimedio che mi renderà Sicheo liberandomi dall'altro » [34]. Non percepiamo da parte nostra alcuna valida ragione per pensare che Anna abbia compreso questa frase in maniera differente, o che il suo errore sia riferito ad altro che non sia la natura del rimedio in questione. Oltre in effetti al fatto che ella è ben piazzata, dopo i suoi ultimi tentativi presso Enea (v. 437 s.), per sapere che i ponti tra lui e sua sorella sono definitivamente tagliati, ci sono almeno due dettagli che mostrano molto bene come ella concepisca la cerimonia addotta a pretesto da Didone per una distruzione simbolica di Enea attraverso gli oggetti personali che egli aveva lasciato partendo. Si tratta da una parte del confronto con il verso 502, dove il quam morte Sychaei ha per corrispondente implicito e naturale l'idea di una "morte" di Enea, dall'altra dei termini con i quali Didone si rivolgerà a Barce in 634 s., termini in cui viene chiarito come la partenza della flotta troiana non abbia per nulla cambiato lo scopo e lo svolgimento della cerimonia prevista, né ai suoi occhi né a quelli di Anna. E abolere, 497 (proprio la ripresa di abolere Sychaeum, I, 720) non è forse di una perfetta chiarezza, dal momento che la distruzione delle exuuiae esclude che il ritorno dell'infedele sia desiderabile (cf. Ecl. VIII, 91-3)? Osserviamo infine che un rogo, monumentale come nessun altro (ingenti, 505), non ha alcuna apparenza di riconnettersi ad una cerimonia magica [35] - è infatti a titolo di sacerdotessa, sacerdos, 498, e non di maga, che la Numida dispone la sua costruzione -, e che di conseguenza bisogna per forza che Anna gli attribuisca, al pari di Didone, una funzione purificatrice del tutto indipendente dalla magia. Oppure, si avrà una contraddizione insanabile tra la volontà di purificarsi ed il desiderio di ricondurre a sé l'agente della contaminazione. Noi torniamo così sulla questione di fondo concernente l'utilità della messa in scena magica, ma dopo tutto, se Didone ha ritenuto che una semplice cremazione di oggetti era insufficiente a garantire la purificazione desiderata, non è forse naturale che, nel timore che Anna fosse dello stesso avviso, ella abbia voluto distogliere i suoi sospetti nel solo modo che le permetteva di ostentare grandi speranze? Sottolineando che la Numida è capace di scongiurare gli inferi e di evocare i morti (v. 490-1), ella lascia sua sorella libera di immaginare che l'ombra di Sicheo sarà invocata affinché venga a suggellare la riconciliazione, ed inoltre lascia così dispiegare su Enea tutte le minacce della magia di distruzione (cf. dirumque nefas, 563). La commedia è ben condotta, ma, ancora una volta, non è che una commedia (praetexere, 500), e ci si stupisce che ottimi critici abbiano ritenuto possibile negarlo, trasformando in un colpo solo la regina di Cartagine in un'abominevole strega [36] che, avendo concluso un patto con le potenze infernali per distruggere Enea, e l'impero romano per giunta, immolerebbe sé stessa in guisa di vittima su tale malefico altare. La devozione religiosa di Didone è tuttavia perentoriamente attestata ai versi 517-521 attraverso espressioni quali manibusque piis o Testatur moritura deos et conscia fati/Sidera [37] (dove sono qui le potenze infernali?), come pure con riferimento a questa invocazione a Giunone, protettrice delle unioni legittime (v. 520-1): tum si quod non aequo foedere amantis Curae numen habet iustumque memorque precatur. Il letto di Sicheo, la sua spada, i suoi vestiti [38] sono stati posseduti da uno straniero "innominabile" (nefandi), ed è per questo che ella piange (cf. lacrimis ... obortis, del v. 30), ed è per questo che ella muore. Per purificare questo gladio è neccessario che esso trapassi il suo corpo profanato, così come è necessario che le sue memorie più sacre si presentino alle fiamme insieme al dolore per la sozzura da cui esse devono liberarsi. La messa in scena inventata da Didone ha funzionato perfettamente, rassicurando Anna e spaventando Enea. La vedova di Sicheo ottiene senza alcun dubbio una sorta di rivincita costringendo i Troiani a fuggire precipitosamente, come dei codardi e dei banditi quali essi sono. Eloquente a questo riguardo il senso comico del verso 581: Idem omnis simul ardor habet rapiuntque ruontque con la sua successione di cinque bisillabi atti a dipingere la fretta febbrile, ed i suoi due verbi tanto energicamente allitteranti quanto vaghi nel loro significato (cf. le formiche, 401 s.). Ma la vera vendetta, quella che consisterebbe nel far provare al perfido straniero quanto costi caro il beffarsi di una regina (v. 591): et nostris inluserit aduena regnis? questa vendetta qui le è proibita dalla sua stessa coscienza, perché ella si ritiene, lei per prima, troppo colpevole per meritarla (v. 596-7): Infelix Dido, nunc te facta impia tangunt? Tum decuit cum sceptra dabas. Tum...cum sceptra dabas, vuol dire infatti "anziché porgergli lo scettro" e, in definitiva, "anziché sposarlo" (cf. seruire marito, 103): pudore di linguaggio del tutto proprio del personaggio di Didone, e di Virgilio medesimo. Ma questo Tum rinvia più ancora che su tale aspetto, al periodo che era immediatamente intercorso (cf. v. 74-5), esso evoca il primo momento del loro incontro, quando la Fenicia offriva ai Troiani di associarsi a Cartagine con pari dignità (I, 572-3), e quando ella tendeva la mano al loro capo di cui non ignorava la detestabile reputazione (Non ignara mali, I, 630: assumendo mali nel senso proprio di "male", "malvagità umana"). No, non è da oggi che ella conosce questo miserabile (Nunc te...? ) - cf. l'inquietante principibus permixtum ... Achiuis, I, 488 - ed ella avrebbe dovuto infliggergli senza indugio il trattamento che egli meritava per le proprie empie azioni (facta impia) [39]. Ma fare a pezzi Ascanio? Questa spaventosa barbarie incontrerà tuttavia la piena comprensione del lettore se questi si riporterà col pensiero al banchetto di benvenuto, come invita a fare l'eco tra 602 (epulandum ponere mensis) e I, 723 (epulis mensaeque). Allora, non è affatto un ragazzo innocente quello che Didone avrebbe sacrificato, bensì una falsa immagine posseduta dalla più scellerata delle divinità; e non è forse naturale che il castigo immaginato sia nella misura del giusto accordato? Per lei, era ormai troppo tardi, perché il veleno era già stato ingurgitato e la resistenza all'Amore non poteva farsi che a prezzo della vita (moritura, 604), ma almeno ella si sarebbe risparmiata l'onta d'aver ceduto all'ipocrita nemico. Tum decuit, iam non decet: così ella reprime l'impulso del proprio orgoglio ferito e si rassegna a morire invendicata (v. 659): Moriemur inultae Questo sacrificio, afferma lei stessa, è ben accettato (660): Sic, sic iuuat ire sub umbras [40] e se ella lo accetta con gioia, è perché, tanto quanto quello della propria persona fisica, esso contribuisce alla sua redenzione spirituale. Pur tuttavia il colpevole non potrà sfuggire dalle responsabilità dei propri crimini. Prima di morire, e come elevata al di sopra della condizione umana per l'imminenza del trapasso, Didone gli profetizza un avvenire molto differente dai gloriosi giorni sui quali egli confida (v. 612-620). E, non contenta di tutto ciò, ella affida alle generazioni future la missione di lottare senza tregua contro l'odiosa specie degli Eneadi: ferro, 601 riprende ferro, 626, in risposta a ferro, 580. Salvo Donato [41], non si intravede alcun commentatore disposto a rifiutare l'identificazione di Annibale con l'aliquis del verso 625: Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor. Tuttavia, questa identificazione solleva delle forti perplessità. Sin da subito, si fa fatica a credere che il poeta, dopo aver dedicato tanta cura a costruire una grande e bella immagine di eroina, abbia poi avuto l'intenzione di lasciarci con l'ultima impressione di una gola assetata di sangue, impaziente di reincarnarsi nel personaggio del "sinistro Annibale", come dice Orazio (C. II, 12, 2; III, 6, 36; IV, 4, 42). Se poi questo desolante tradimento letterario giovasse in qualche maniera ad Enea, i suoi partigiani potrebbero forse rallegrarsene, ma a lui imputando la responsabilità ultima delle guerre che conducono Roma ad un sol passo dalla rovina, Virgilio non gli rende certo un buon servizio. A questo s'aggiunga che le guerre puniche non dovevano estendersi che su un secolo, mentre Didone prevede un conflitto per così dire eterno (v. 627): Nunc, olim, quocumque dabunt se tempore uires concetto ribadito due versi più avanti con particolare forza grazie all'ipermetro che obbliga a conferire duplice accentazione a nepotes (v. 629): pugnent ipsique nepotesque. Quando R. Pichon osserva che il termine ipsi può difficilmente designare un generazione diversa da quella dei contemporanei di Didone [42], egli non sembra misurare tutta la portata della propria osservazione. Infatti, giacché i Cartaginesi sono fuori causa per diversi secoli ancora, è necessario rapportare questo ipsi al verso 615: At bello audacis populi uexatus et armis. Ciò significa che la regina non ragiona in termini etnici bensì morali, e che i suoi veri successori sono da ricercare da subito e innanzitutto all'interno del Lazio, ovvero, poiché nessuno nega che la guerra del Lazio nell'Eneide rappresenti ampiamente la metafora delle guerre civili, all'interno dell'impero romano stesso. No, l'Eneide non si conclude affatto con la morte di Turno: Turno a sua volta susciterà un vendicatore, e così via, di modo che l'epopea ricominci ogni volta "da capo", eterna e perpetuamente rinnovata ed attualizzata. Ciascuna generazione, ciascun popolo senza dubbio, produce i propri Enea, i propri Cesari; e ciascuna generazione, ciascun popolo è chiamato a rinnovare la sfida, a dare un ideale cambio a coloro che hanno montato la guardia in precedenza, a produrre i propri Turno, o meglio, i propri Virgilio ed i propri Orazio. E quanto al "sinistro Annibale", non è Didone che egli incarnerà, ma con tutta evidenza Enea, questo prototipo di tutti i grandi flagelli di Dio. Didone assume così - come l'Eneide tutta - la propria autentica dimensione, nel contesto di una lotta universale tra le forze del bene e del male. Nessuna pace è possibile con la violenza, l'inganno, il sacrilegio, questo quarto libro ne ha fornito la tragica illustrazione, e se, nell'epilogo del poema, Giunone addiviene comunque, pur contrariata e costretta, a siglare le clausole di un trattato tra Latini e Troiani (si noti l'eco di 624 in XII, 821-2), ella non rinuncia tuttavia ad imporre come condizione la scomparsa dei vincitori in termini di razza separata (XII, 828): Occidit occideritque sinas cum nomine Troia ciò che equivale a riservarsi il diritto di riprendere le armi ad ogni risorgenza di "Troia" all'interno di "Roma", l'ultima delle quali coincidendo in tutta evidenza, al momento in cui scrive Virgilio, con il fenomeno del cesarismo (cf. Hor. C. III, 3) [43]. Quanto al verso 611: Accipite haec, meritumque malis aduertite numen si traduce troppo rapidamente Accipite haec con "ascoltate questo" (Bellessort), a dispetto della tautologia così prodotta con nostras audite preces al verso seguente. Lasciamo piuttosto al verbo accipere la sua accezione più ordinaria (cf. v. 652) e cerchiamo di comprendere come Didone chieda ai "propri dei" di accettare il proprio sacrificio (della propria vita e della propria vendetta) ad espiazione delle proprie colpe e, attraverso questa, a pegno del castigo che ella invoca su "l'abominevole testa", Infandum caput, 613: « O mie divinità, il vostro numen che è andato perduto (primo senso di meritum), volgetelo ora contro i malvagi che lo meritano (secondo senso di meritum) [44] ». Nessuna magia in tutto questo, una volta di più, nessuna stregoneria [45] - l'omina, 662 basterebbe a mostrarlo -, ma la pura e semplice giustizia, l'espressione delle leggi eterne ed inviolabili dello Spirito. Questa è, secondo noi, la vera grandezza della regina di Cartagine, o piuttosto questa è la vera grandezza del suo creatore. Perché ogni incursione un poco spinta nella "doppia scrittura" virgiliana, pur con i rischi che questa comporta, ha per risultato di rivelarci un genio ancora più immenso di quanto si potesse concepire. Aggiungiamo che ogni inchiesta approfondita su Didone conduce necessariamente ad un'inchiesta su Virgilio [46] e - come non dirlo? - sulla morte di Virgilio [47]. NOTE (cliccare su R per ritornare nel corpo del testo) 1- Il testo sarà, salvo indicazione contraria, quello sistemato da J. Perret per la C.U.F. (Parigi, 1977). Le altre edizioni e commentari citati sono quelli di G. P. E. Wagner, 1830-3 (ris. Hildesheim, 1968), P. H. Peerlkamp, 1843, F. Dubner, 1858, J. Conington, ediz. riveduta di H. Nettleship, Hildesheim, 1963 (ris. de l'ed. di Londra, 1883-4), T. E. Page, 1894, O. Ribbeck, 1894-5, F. Plessis - P. Lejay, 1913, E. Cartault, 1926, J. W. Mackail, 1930, A. S. Pease, 1935, R. Pichon, 1948 (4a ed.), M. Rat, 1955, R. G. Austin, 1985 (1a ed. 1964), R. D. Williams, 1982 (1a ed. 1972). R 2- « Enquête sur la mort de Didon », LEC 66 (1998), p. 245-258. R 3- Come osserva l'autore, questa interpretazione, adottata in particolare da J. Perret, era già quella del Bellay. Quanto a l'invocazione di Aiace, tutti i commentatori la sottolineano. R 4- Cf. A.-M. Guillemin, L'originalité de Virgile. Etude sur la méthode littéraire antique, Parigi, 1931, p. 114. J.-M. Fontanier, p. 255, ritiene tuttavia che questo sia fare troppo onore alla regina (dello stesso avviso ad esempio W. S. Anderson, « Servius and the "comic style" of Aeneid 4 », Arethusa 14 (1981), p. 117-8), dal momento che « Didone non è più padrona di sé stessa poiché ella ha deciso di lasciarsi andare alle conseguenze estreme di questo dolore » (p. 250). Non si dovrebbe tuttavia perdere di vista che furentem, 465 (agit ipse furentem / In somnis ferus Aeneas) qualifica Didone per quello che ella si riconosce in sogno, un sogno che la rimanda al tempo in cui, la sua colpa non ancora consumata, ella era veramente furens, 69, cerva inseguita e trafitta dal pastor Enea (agens, 71). E' allora che ella è stregata (dalla malefica Venere), è adesso che ella vede chiaro e che assume la sua colpa e la sua punizione (Concepit furias). R 5- J.-M. Fontanier mette in dubbio la piena padronanza del poeta sulla propria arte (« volontariamente o non », p. 258). E' il caso di citare J. Conington (cf. G. Doig, « Vergil's art and the Greek language », CJ 64 (1968), p. 6): « with Vergil it is far less rash to suppose that he realized any possible meaning for a passage than that he did not. » R 6- Se non è che legittimo il provare ad arricchire la nostra percezione dell'opera grazie alle luci della psicoanalisi (cf. J.-M. Fontanier, pp. 247 e 248), il pericolo sarebbe quello di voler ricorrere a Freud piuttosto che a Virgilio per spiegare Virgilio. R 7- Sulla relazione fata / fari, cf. S. Commager, « Fateful words: some conversations in Aeneid 4 », Arethusa 14 (1981), p. 101-114. Sembrerebbe dunque che J.-M. Fontanier abbia torto di scrivere, p. 252, che « A. S. Pease ha torto di scrivere che fino allo smacco dell'ambasciata di Anna, Didone non desidera morire ». Niente in ogni caso consente di pretendere che il suo suicidio fosse « già progettato, o almeno premeditato ». R 8- Cf. l'eco di ferro / ... ensemque cruore / Spumantem, 663-5 in ensem / ... ferro, 579 s. e torquent spumas, 583). R 9- S. F. Wiltshire, Public and private in Vergil's Aeneid, Amherst, 1989, p. 114, confrontando III, 8-9, ricorda che Enea aveva ben atteso la bella stagione per lasciare Troia. R 10- L'ossimoro è espressivo, noi lo attingiamo da J.-M. Fontanier (p. 246, 251). R 11- Si veda il sito di Salvatore Conte: www.queendido.org. R 12- E' il noto pius del verso 393. I difensori della pietà eneica si battono qui con la forza della disperazione: si vedano ad esempio R. G. Austin e R. D. Williams. E' sintomatico rilevare come W. S. Anderson, The art of the Aeneid, Englewood Cliffs, N. J., 1969, p. 114-5 n. 8, arretri di fronte all'impensabile: « [pius] might be considered sardonic...but that, I believe, would be an act of "modern" cynical criticism ». Secondo W. R. Johnson, Darkness visible. A study of Vergil's Aeneid, Berkeley, 1976, p. 168 n. 71, Enea sarebbe perfino due volte pio piuttosto che una (« Pius expresses both his [sc. di Enea] compassion for Dido and his patriotism »). T. E. Page vedeva più chiaro, considerando come "un enigma della letteratura" (« one of the puzzles of literature ») che Virgilio avesse potuto impiegare una tal parola tanto platealmente in senso opposto. R 13- J.-M. Fontanier, p. 246, presenta nondimeno Didone come « frustrata da una vendetta diretta per la fuga dell'amante nemico ». R 14- « Well known as the most difficult in Virgil », J. Conington, ad loc. R 15- Difesa da G. P. E. Wagner e P. H. Peerlkamp, la declinazione dederis è presa in considerazione anche da F. Dubner e (almeno in nota) da Plessis-Lejay. R 16- Il senso locativo è escluso dalla solidità del legame che unisce morte a cumulatam, legame concretizzato dal raddoppio della labbiale tra un termine e l'altro. R 17- Questa è in sostanza l'interpretazione di A.-M. Tupet, «Didone, la strega», REL 48 (1970), p. 257. Alcuni detrattori della regina erano perfino giunti, secondo D. Servio, ad attribuirle qui l'intenzione non di uccidersi ma di uccidere Enea, attirandolo in una trappola (J.-M. Fontanier, p. 252, resuscitando l'ipotesi, ritiene che le due cose non siano incompatibili): idea contraddetta tanto dai versi 600 s. quanto da tutto il senso della tirata e dalla sua stessa tonalità. R 18- Per i suoi cattivi consigli all'inizio (cf. v. 31-53), ma anche forse per esser stata sua rivale in amore: cf. R. Heinze, Virgils epische Technik (3a ed.), Leipzig, 1915 (ris. Stuttgart, 1965), p. 135 n. 1, 393 s.; F. Ahl, Metaformations..., Ithaca and London, 1985, p. 309-315. R 19- La prima sillaba di Mortem acquisisce un accento enfatico in forza dell'elisione e della forte puntualizzazione: « Avendola respinta Amor, è a Mors che ella si rivolge ». R 20- Il carattere allucinatorio di questi presagi si desume da Hoc uisum nulli, 456 e da Visa, 461. Si ha l'impressione che, per i sensi alterati di Didone, la voce del gufo sia scambiata per quella di Sicheo come il vino per sangue. R 21- Ella si trova così ad essere incoraggiata nella sua decisione. Tuttavia non ne deriva affatto, nonostante J.-M. Fontanier, p. 252 n. 36, che questa qui fosse anteriore al fallimento dell'ambasciata di Anna. R 22- F. Dubner e M. Rat, al seguito di O. Ribbeck, fanno eccezione; lo stesso dicasi per T. E. Page e J. W. Mackail. R 23- Questo verso è evidentemente da rapportare a I, 427-9 (cf. F. Dubner: denique theatra novae urbis memorari ab ipso poeta); ma cf. altresì scaena, I, 164: si veda D. Clay, « The archeology of the temple to Juno in Carthage (Aen. 1. 446-93) », CP 83 (1988), p. 196. L'influenza della tragedia sull'Eneide è spesso sottolineata da V. Pöschl, Die Dichkunst Virgils, 1950, e M. C. J. Putnam, The poetry of the Aeneid, Cambridge, Mass., 1965; cf. inoltre la monografia curata da A. Koenig, Die Aeneis und die grieschische Tragödie, Berlin, 1970; W. S. Maguiness, « L'inspiration tragique de l'Enéide », AC 32 (1963), 477-90; J. Perret, « Optimisme et tragédie dans l'Enéide », REL 45 (1967), p. 342-362; F. Muecke, « Foreshadowing and dramatic irony in the story of Dido », AJP 104 (1983), p. 134-155; M. Bonfanti, Punto di vista e modi della narrazione nell'Aeneide, Pisa, 1985 (bibliografia p. 85 n. 1); F. Cairns, Virgil's Augustan epic, Cambridge, 1989, p. 44, 135, 150 e n. 86; P. Marchetti e V. Marin, « Le chant IV de l'Enéide ou Virgile poète tragique », LEC 59 (1991), p. 247-265; A. Rossi, « Reversal of fortune and change in genre in Aeneid 10 », Vergilius 43 (1997), p. 31-44. R 24- Ella è Penteo, ella è Oreste. Se il poeta non ha detto Fedra, quella Fedra che troveremo insieme a lei negli inferi (Nec procul hinc, VI, 440), è senza dubbio perché queste si avvicinano troppo, ed inoltre egli era qui interessato essenzialmente alla raffigurazione delle Furie. R 25- J.-M. Fontanier, p. 249-50, mette bene in evidenza la forza di questo concepit, allorché viene inteso nella sua accezione più fisiologica (evocazione di donna resa feconda). Così R. O. A. M. Lyne, Words and the poet. Characteristic techniques of style in Vergil's Aeneid, Oxford, 1989, p. 24-28. R 26- Naturalmente, l'infido Mercurio non si fa scrupolo di orientare irarum nel senso sbagliato (variosque irarum concitat aestus, 564); e la pira viene ritenuta lo strumento primo della vendetta e dell'inganno: così, occorre pur dirlo, A.-M. Tupet (supra n. 17), p. 249, che non si sforza molto per individuare qual è il "crimine abominevole", dirumque nefas, 563, di cui Didone si renderebbe, secondo lei, colpevole. R 27- Crimen, prima di essere il crimine propriamente detto, è anzitutto il biasimo che Anna avrebbe dovuto indirizzarle e che tuttavia non le ha indirizzato. R 28- Mentre in altro contesto (IX, 225) esso è non meno adeguato. A ciò s'aggiunga la ridondanza che questo verso conferirebbe ad At non infelix animi Phoenissa obbligando a sottintendere lenibat curas e cor oblitum laborum, visto che curae è ripreso da 531. R 29- R. G. Austin, che intende bene thalami expertem in questo senso di "vedova", ritiene tuttavia di dover collocare l'espressione in posizione di complemento piuttosto che di soggetto, addivenendo così, come molti altri, a raffigurare il cliché dell'animale in astinenza sessuale: «You would not let me live my life in widowhood, innocently, like a woodland creature». Così R. D. Williams, ma l'errore risale a Servio. R 30- Così J. Perret, ad loc.: « Anna non è forse una gran psicologa: è tuttavia evidente che una rottura volontaria è più scortese di un decesso ». R 31- Ella non è tuttavia, argomenta J.-M. Fontanier, "infedele che ad un morto", e non ha commesso che uno "pseudo-adulterio" (p. 255). Ma per lei Sicheo non è morto, ed abbiamo noi il diritto allora di fare la morale alla regina grazie al fatto che la nostra coscienza è più lassista o meno delicata della sua? Se si tratta di esprimere un giudizio su di lei, non dovremmo piuttosto rivolgerci a Virgilio stesso, anziché imporle dei valori che non sono necessariamente i suoi, o che addirittura si collocano ai suoi antipodi (cf. supra n. 6)? R 32- Cf. K. Quinn, Virgil's Aeneid: A critical description, London, 1968, p. 334 n. 1: « The ambiguity is achieved by reddat and soluat, each of which is to be taken in two ways... Two pun ambiguities therefore and one syntactical ambiguity in this line ». R 33- La notra interpretazione consente di render conto dell'estrema bizzarria di questo verso alla luce del doppio impiego dello scialbo is accuratamente evitato altrove da Virgilio (solamente quattro ricorrenze nell'Eneide tutta). Si confronti hoc ... hoc nell'Epigramma XXXV di Ausonio, citato da P. Marchetti e V. Marin (supra n. 23), p. 265 (Infelix Dido, nulli bene nupta marito / Hoc pereunte, fugis; hoc fugiente, peris). R 34- J.-M. Fontanier, p. 253 n. 41, individua perfettamente bene questa accezione di uel, ma pretende di imporre a reddere un senso poco plausibile: Didone vorrebbe riappropriarsi di Enea per "tormentarlo crudelmente". R 35- A.-M. Tupet (supra n. 17), p. 231. R 36- A.-M. Tupet, p. 255, scrive per esempio che, per evitare alla sua eroina « di apparire come un'abominevole strega », Virgilio si è preso cura di « sfumare la sua psicologia e attenuare la sua responsabilità in ordine al peso del crimine di cui egli la caricava ». Ma questa sorta di sfumature o di correzioni può cancellare il fatto che questa donna sarebbe « posseduta dal demone del male » (235), che ella commetterebbe un "sacrilegio" (ibid.), in breve, che ella sarebbe il "negativo" di Enea (255)? S. Eitrem, « Das Ende Didos in Vergils Aeneis », in Festskrift til Halvdan Koht, Oslo, 1933 (p. 29-41), aveva già dimostrato che la magia di Didone non aveva alcuna possibilità di funzionare e non era concepita per quello. R 37- Servio D. si domanda se conscia debba riferirsi a Didone o agli astri. Questa ambiguità sintattica interpreta molto bene, a noi sembra, l'ambiguità della responsabilità di Didone: merita, 547 - merita nec morte, 696. R 38- Inseparabili dalla spada (cf. 495-6, 507), le exuuiae devono dunque al pari di quella essere considerate come originariamente appartenute a Sicheo (Dardanium, 647 non è che un termine patetico; cf. anche Iliacas, 648): d'altra parte, se Impius, 496 designava la stessa persona di uiri (arma uiri thalamo quae fixa reliquit / Impius), quest'ultima parola funzionerebbe in qualche modo da caviglia. J. Ferguson, « Fire and wound: The imagery of Aeneid IV, 1 ff.», PVS 10 (1970-1), p. 60 parla, senza dubbio troppo timidamente, di "moving ambiguity" a proposito di uiri, thalamo e, al verso seguente, lectum iugalem. Quanto all'effigies del v. 508, perché questa non potrebbe essere un ritratto di Sicheo? R 39- E' in un certo qual modo troppo alla leggera che si riferisce normalmente impia facta al tradimento dell'amante, stante il fatto che quando ella "gli consegnava lo scettro", lui non poteva ancora averla tradita. R. G. Austin e R. D. Williams non mancano di denunciare questa assurdità, ma cercano di rimediarvi con un'assurdità non meno grande, riferendo facta impia all'empietà... di Didone (così e.g. P. Grimal, « Les amours de Didon ou les limites de la liberté », in The two worlds of the poet: New perspectives on Vergil, Detroit, 1992, p. 59 e n. 26; contra R. Monti, « The Dido episode in the Aeneid », Leiden, 1981, p. 62-68; S. Farron, « Pius Aeneas in Aeneid 4. 393-6», SLLRH VI, 1992, p. 271). Il commentario di Servio riferisce logicamente cum sceptra a IV, 214 (dominum Aenean in regna recepit), ed inoltre, in maniera forse più opinabile, a I, 572 (Voltis et his mecum pariter considere regnis). Ma i versi 597-9 (En dextra fidesque, / Quem secum patrios aiunt portare penatis...) non sono forse là proprio ad esplicitare il senso di impia facta ? Tutto è dentro quell'aiunt: la pietà di Enea non è che ipocrisia, non è che un soffio d'aria. R 40- L'errore interpretativo commesso da A.-M. Tupet prorompe qui tragicamente: « Dal momento che io ho già pronunciato le parole della maledizione, ed avendo concluso un patto con le potenze infernali, viste queste condizioni, mi piace andare tra le ombre » (p. 252-4). R 41- E' pur vero che Donato è qui guidato da una comune malafede, rifiutando di associare Annibale all'aliquis, 625 con il pretesto che non si è mai visto nascere un uomo da un cumulo d'ossa. Didone è dunque folle: rem locuta est impossibilem, utpote quae non esset suae mentis suique consilii... R 42- Cf. così F. Dubner: "Ipsi", Aeneas cum sociis; "nepotes", omnis posteritas eius. Quae postrema uerba referenda sunt ad perpetua bella Romanorum. R 43- Dopo Servio (ad 629: potest et ad ciuile bellum referri), R. G. Austin ammette che il lettore romano doveva pensare leggendo 628-9 a « that other struggle, the Civil War ». Ad ogni modo, come osserva H. H. Bacon, « The Aeneid as a drama of election », TAPhA 116 (1986), p. 320: « Rome must be founded in each generation ». R 44- J. Perret propone inoltre questo terzo senso: « rivolgete verso di me una compassione che le mie disgrazie hanno ben meritato ». Malis è non meno sfaccettato di meritum: "le mie disgrazie", "le mie colpe", "i malvagi" (cf. supra per l'ambiguità di mali, I, 630). R 45- E nessuna, senza dubbio, volontà "kamikaze", pace J.-M. Fontanier, p. 257. R 46- Ciò nella misura in cui nel quarto libro più che altrove si manifesta quello che E. Cartault, p. 338, chiama la "colpa" di Virgilio (così pure, p. 689, a proposito di Turno nel libro IX), quella di accordare la più bella parte ad un avversario di Enea a spese di quest'ultimo. Colpa letteraria, certamente, agli occhi del dotto francese; colpa politica non meno, ai nostri occhi, nella misura in cui Augusto si profila costantemente sotto le spoglie di Enea. J.-M. Fontanier osserva egli stesso molto bene (p. 258) che Enea « sembra spesso derogare da quello statuto epico che gli è in linea di principio proprio ». Ma perché "sembra", giacché proprio le apparenze vanno piuttosto nell'altro senso? R 47- Cf. J.-Y. Maleuvre, La mort de Virgile d'après Horace et Ovide, 2a ed., Parigi, 1999. R |