"Non odio Enea, benché mediti il mio male"
Perché Ottaviano Augusto fece cancellare Ovidio e le opere di Ovidio dall'Impero e dalle biblioteche dell'Impero? Perché
Da lì, ogni giorno, guardava dalla riva verso l'orizzonte, sperando che arrivasse una nave con la moglie, rimasta a Roma e da lui divisa per decreto imperiale. Chi è? [ scoprilo ] Chi ha vinto? [ scoprilo ] Appartenente ai conquistatori, esiliato presso i conquistati, da questi eretto a Nume tutelare della propria emancipazione: mai scelta più saggia, mai uomo più degno di tale scelta. (Salvatore Conte) Una domanda (che gli sarebbe costata cara) di Roberto Mussapi ad Augusto: A che serve sostenere il sommo Virgilio e tutti gli altri fuoriclasse, se sotto il suo reame morirà in modo misterioso Lucrezio, il grande, religioso cantore dell'anima del mondo e degli elementi, e Ovidio, il poeta che scoprì un dio di metamorfosi più buono e potente di quelli cartapestacei del Pantheon, e di quello teatrale di Augusto, finirà la propria vita su una terra brutale, bagnata da un mare cupo e melanconico, lui, il poeta delle trasformazioni dell'acqua, della natura equorea e mercuriale del creato ? leggi il bellissimo seguito su: www.griseldaonline.it/percorsi/archivio/mussapi_3.htm La Didone di Ovidio è meraviglia autenticamente virgiliana. Ma a cosa varrebbe insistere ancora sul valore artistico di questa ineguagliabile pagina di poesia? Ci sembra più significativo invece sottolineare l'enorme valore filologico racchiuso nel testo ovidiano, benché a sua volta utilizzabile solo attraverso un'attenta interpretazione. Le difficoltà nel cogliere tale aspetto hanno così imbarazzato l'ermeneutica convenzionale da far "pensare talora a corruttele del testo o a fraintendimenti ovidiani delle fonti" (Emanuela Salvadori, per Garzanti): ipotesi incredibilmente irriverenti nei riguardi dell'Autore. Sotto il profilo generale, la Didone di Ovidio è lucida, vitale e determinata, ed al pari della Didone di Virgilio di En. IV, 651-658, non presenta traccia (eccetto qualche esteriore concessione patetica) di alcun concreto intento suicida, come meglio si arguirà più avanti. Tale fondamentale aspetto è affermato dall'eminente Alessandro Barchiesi (Narratività e convenzione nelle "Heroides", 1987), secondo cui, nonostante le immagini di morte che aprono e chiudono il monologo, "questa lettera non è in nessun modo l'annuncio di un suicidio: è invece, in ogni suo particolare, in ogni significativa declinazione e revisione del modello virgiliano, un tentativo di riconquistare Enea". Sebbene non si tratti di "revisione" bensì a nostro avviso di fedelissima interpretazione della doppia scrittura virgiliana, l'intuizione dell'illustre studioso appare formidabile, e non ci sembra per nulla inficiata dal prevedibile riferimento ad Enea, perché questo pare attribuito meccanicamente, con riguardo alla prima scrittura dell'Eneide: risulta invece a noi chiaro come Didone stia in realtà tentando di riconquistare sé stessa e Sicheo insieme. L'avversione di Ovidio al personaggio di Enea (cf. Fasti III, 545-654) risulta talmente viscerale e perentoria da rendere questo argomento lezioso; d'altra parte, l'adesione di Ovidio alla sontuosa Galatea di Virgilio è senza riserve, e gli è valsa il curioso appellativo di "fan of Dido" (il tifoso di Didone), attribuito dal Prof. D. Solomon della Vanderbilt University: espressione corretta (nell'accezione di più elevato valore), ma evidentemente resa in maniera sarcastica (PERCHE'?). Si consideri ora, sotto un profilo più circostanziato, l'esempio di analisi ermeneutica portato dal passaggio più noto del carme, ovvero la massima conclusiva espressa in maniera diretta ed impersonale da Didone ("Enea fornì il motivo della morte e la spada; Didone si tolse la vita con la sua stessa mano"): questa non va recepita affatto quale didascalica descrizione del suicidio, bensì come precisa affermazione del nesso teleologico esistente fra i tre elementi dell'azione (movente e volontà criminali di Enea; mera esecuzione di Didone), i quali configurano la morte di Didone come assassinio premeditato da parte di Enea (cf. F. De Vasquez, Dido's Murder, 2002). A questo riguardo il Maleuvre chiarisce in maniera agevole (si veda la sua Contro-Inchiesta) come la spada del delitto appartenesse in origine a Didone stessa. E poiché è nostro avviso che Ovidio, fine conoscitore dell'Opera virgiliana, avesse ben presente questa circostanza (sfuggita invece a gran parte dell'ermeneutica più ostile a Didone), riteniamo che con ciò egli abbia voluto accentuare il valore teleologico della propria affermazione conclusiva. Ma c'è ancora di più: tutto lo splendido carme di Ovidio è pienamente compatibile con il nostro studio generale, Dido sine veste (ed in particolare con la tesi secondo cui non si ha suicidio nella fabula dell'Opera virgiliana, ovvero questo è solo immaginato da Enea e compagni, che sono il narratore interno di En. IV, 663 ss.; visione annunciata da Didone in IV, 661-662, grazie soprattutto ad hauriat, usato nello stesso contesto di hausit in X, 648 e XII, 946; ma soprattutto è importante l'hausit di I, 738, per la sua connessione a IV, 659, mediata da IV, 455), in quanto rappresenta, a ben vedere, un opportuno sviluppo di quegli estremi pensieri di En. IV, 649, la cui importanza è sottolineata dal valore rituale di incubuit (650; cf. VII, 88. Cf. anche, nel suo intento caricaturale, VIII, 30: procubuit). Siamo nel cruciale momento in cui realtà, incubo, e sogno, si compenetrano tra loro nello spirito di Didone. L'identificazione con l'Arianna di Catullo raggiunge qui il suo culmine. Era già successo a Tiro (quando a Didone apparve in sogno il marito Sicheo, da poco assassinato); era già successo in IV, 388-392 (si noti che lo svenimento di Didone è, a tutti gli effetti del caso, auto-procurato, e non accidentale come dovrebbe essere uno svenimento normale). Si può dunque affermare che Didone sia una e vera e propria "sensitiva", un'anima ardente (VI, 467) in grado di tentare una catabasi [*]. Premessa di questa è il contatto che si realizza con Giunone sul letto sormontante la pira. Tale circostanza non ci sembra affermata in maniera arbitraria; piuttosto appare arbitrario ritenere che Virgilio debba essere costretto ad esplicitare un avvenimento narrativo che, secondo il suo stile e la sua tecnica (e soprattutto il suo metodo della "doppia scrittura" - si veda la scuola Maleuvre - con il quale riuscì a sottrarre il proprio lavoro al controllo del suo imperiale aguzzino), è agevolmente ricostruibile in base ad altre parti dell'Opera. Nel caso di specie, X, 611 ss., ci indicano come Giunone, con tenerissimo e didoneo atteggiamento, tenti di salvare la vita a Turno, nonostante il Fato/Giove si opponga (mentre è noto come il Fato/Giove non prevedesse la morte di Didone, imputabile invece a Venere ed Enea). E' dunque assolutamente arbitrario ritenere che Giunone non intervenga a favore di Didone, che ne è figlia putativa nonché incarnazione terrena, e che soprattutto è leader insostituibile delle forze del Bene dirette dalla stessa Giunone. E' inoltre notevole (ma così ben spiegabile) che la Dea, nella sua vera e propria arringa difensiva per Turno davanti a Giove, non lamenti presso di lui la perdita di Didone, quale danno già subito per opera dei Troiani e quale utile e commovente argomento dialettico. Tanto più che la nota e molto discussa maledizione di Didone del Quarto Libro, ha proprio valore di disponibilità al sacrificio personale in nome della causa di Giunone. La Regina del Cielo avrebbe così potuto esigere da Giove che Enea pagasse a caro prezzo il proprio delitto (è appena il caso di ricordare che, come chiarisce Maleuvre, tutta la retorica su Annibale quale vendicatore è del tutto campata in aria: Virgilio non demanda ad alcun elemento esterno la funzione di consentire l'interpretazione della propria Opera; questa è un insieme chiuso, fuori dal tempo). Tuttavia Giunone sa bene che la vita di Didone vale molto di più della morte di Enea (o meglio del suo ritorno nel Tartaro), e rinuncia così all'atroce "baratto" (per la verità la Dea non avrebbe acconsentito in nessun caso: Virgilio è contro ogni ipotesi di suicidio, anche di tipo "kamikaze"; ritroviamo qui, una volta di più, la straordinaria modernità del suo pensiero). Dopo aver ricevuto il responso, Didone infatti conclude con tale massima: "moriremo invendicate" (Canali), che non è affatto un patetico ripensamento, ma la presa d'atto che la mortale insidia è respinta ed il proprio sacrificio è rifiutato. La lotta di Giunone, messo in fuga Enea, prosegue nel Lazio: "stant belli causae" (VII, 553: "salde le cause di guerra"), ma il carro della Dea rimane a Cartagine (I, 17), sotto la pia custodia di Didone. La terribile maledizione di quest'ultima è così in linea con l'espressione ovidiana qui utilizzata ad incipit: tale maledizione non è infatti invocata a titolo personale né per sentimento d'odio; Didone parla da regina del suo popolo ed esprime in questa forma la necessità di un impegno irrevocabile contro il Male. Altra fondamentale esplicazione virgiliana ci viene offerta da X, 680 ss.: qui la sovrapposizione con Didone è assoluta. E benché Turno sia davvero votato a morte (a differenza di Didone), Giunone non esita a trattenerlo dal suicidio e dall'impari combattimento con Enea (costui infatti è una creatura mostruosa vomitata dal Tartaro: si veda ad es. la guarigione non naturale di XII, 411 ss.) [**]. La Dea Caelestis mostra a Turno un simulacro di Enea, ma con Didone, Giunone non ha bisogno di controfigure: le basta mostrarle per un attimo l'autentica immagine del marito Sicheo che si strugge per lei nei Campi del Pianto, disperato per l'iniqua, imminente morte dell'amata moglie (immagine corrispondente alla verità narrativa: VI, 473-474). Ma la parola di Virgilio è ancora più profonda: Didone non desidera vivere oltre. Ella spera che Giunone le conceda di poter morire. Ed allora la Massima Dea non le offre solo un'effimera salvezza, ma un motivo per vivere ancora, lo stesso che portò Didone a fondare Cartagine tra mille peripezie: l'amore di Sicheo, l'uomo che l'ha amata veramente e che continua a soffrire per lei. Dunque ecco presentarsi anche una ragione personale per la catabasi del Sesto Libro (ma nella fabula dell'Opera, contestuale alle fiamme della pira osservate da Enea e compagni): stavolta sarà Didone ad apparire al marito (neppure la morte li tiene lontani), e sarà lei a chiedergli se la missione affidatale a Tiro è ancora valida. E che risposta si può dare a Didone? La forma è intima; l'esito, come diceva Oscar Wilde, è indiscreto. Ancora una volta, destino personale di Didone, destino collettivo dell'Umanità, e disegni divini di Giunone, coincidono tra loro. Salvatore Conte [*] Così Busenello ne La Didone (II, 3; Didone ad Anna):
Inteso hò molte volte in gravi accenti E' appena il caso di ricordare che è giusto l'alba quando Didone sale sul rogo. Si veda peraltro tutta la mirabile Terza scena del Secondo atto, interamente dedicata al tema del sogno. Didone vede perfino la propria morte sulla spada, esattamente come nella notte virgiliana dei presagi. Tutta l'Opera di Busenello è infatti raffinato lavoro filologico, oltre che virgiliana poesia. Infine ci si soffermi sull'uso di moritura in IV, 514 e XII, 602, che in entrambe le occasioni è usato in relazione alle vesti del soggetto (quelle discinte di Didone o quelle lacere di Amata): la connessione con il tipo di uso della propria veste chiarisce molto bene il rispettivo senso del termine. Nel primo caso, Didone si spoglia parzialmente delle vesti per preparare la catabasi secondo un preciso rituale diretto dalla "Sibilla numida": qui moritura indica il distacco temporaneo dal corpo, doppio senso che tornerà in IV, 660. Nel secondo caso, Amata si lacera le vesti per farne un laccio ed impiccarsi tragicamente: qui moritura indica la morte effettiva. [**] Un'ulteriore affermazione del concetto è resa da Giunone in XII, 808 ss., dove ella si dichiara pronta a combattere in prima persona "cinta di fiamme" (Canali), a favore del giusto e contro l'ingiusto. E benché Giove sostenga fino in fondo la necessità di veder soccombere il prode Turno (mentre a Cartagine, il re dell'Olimpo non solo è indifferente alla sorte di Didone, ma a ben vedere, propende per la sua salvezza, visto che in tal senso era supplicato dal figlio Iarba), Giunone pretende che la vittoria dei Troiani sia effimera, e mantiene Giuturna a estrema difesa di Turno, dopo che la sua divina seguace era già pesantemente intervenuta nel conflitto ed aveva "osato" ferire lo stesso Enea. Da notare che la difesa della valorosa Giuturna sarebbe stata sufficiente, perché Giove riesce a prevalere solo grazie all'ennesimo inganno delle pesti gemelle (XII, 845). Dunque, a meno di non correre il rischio di sottovalutare la raffinatezza estetica e la logica geometrica dell'architettura del Massimo Vate, sembra di poter ribadire che l'intervento di Giunone a favore di Didone è teleologicamente ben motivato e narrativamente ben definito.
Dardanian, receive this song of dying Elissa:
I do not speak because I hope to move you with prayers:
gave me hope he’d be a true husband to me. (A.S. Kline)
Accogli, discendente di Dardano, il carme di Elissa che sta per morire: quelle che leggi sono le ultime parole che ti vengono da me. Così canta il bianco cigno presso gli acquitrini del Meandro, mentre langue sull'umida erba, quando il destino lo chiama. E non mi rivolgo a te nella speranza di poterti commuovere con la mia preghiera: questa iniziativa è contro il volere del dio. Ma, avendo gettato via con disonore la mia buona reputazione dovuta ai meriti e la purezza del corpo e dell'anima, è cosa da poco sprecare delle parole. Ormai sei deciso, Enea, ad andartene e ad abbandonare l'infelice Didone. I medesimi venti porteranno lontano le tue vele e le tue promesse. Sei deciso, Enea, a sciogliere le navi e i tuoi patti e a raggiungere i regni d'Italia, che non sai dove siano. Non ti interessano né Cartagine fondata di recente, né le mura che stanno crescendo, né il potere supremo affidato al tuo scettro. Fuggi ciò che è fatto e desideri ciò che è da farsi. Senti di dover cercare un'altra terra nel mondo, dopo averne già cercata una. Anche se la trovi questa terra, chi te ne darà possesso, chi consegnerà a degli sconosciuti i propri terreni da occupare? Un altro amore... un'altra Didone e altre promesse dovrai fare, per poter tradire di nuovo. Quando avverrà che tu fondi una città simile a Cartagine e che tu possa guardare il tuo popolo dall'alto della rocca? Anche se tutto ciò si avverasse e gli dèi non ritardassero il tuo desiderio, dove troverai una moglie che ti ami così? Brucio come le fiaccole di cera impregnate di zolfo, come l'incenso delle devozioni versato sui roghi fumanti. Enea resta sempre impresso nei miei occhi insonni, Enea ho nella mente, notte e giorno. Ma lui è ingrato e sordo alle mie offerte generose e, se non fossi insensata, vorrei fare a meno di lui. Tuttavia non odio Enea, benché mediti il mio male, ma lamento la sua slealtà e, pur lamentandomi, lo amo di più. Venere, abbi pietà di tua nuora e tu, fratello Amore, abbraccia il tuo crudele fratello; che egli militi nelle tue schiere;... l'uomo che per prima ho cominciato ad amare - e non me ne vergogno - offra materia al mio tormento d'amore. Mi inganno, e questa sua immagine che mi si agita dinanzi è illusoria: la sua indole è diversa da quella di sua madre. La pietra e le montagne e le querce che nascono spontanee sulle alte rupi e le belve feroci ti hanno generato, oppure il mare, come lo vedi anche ora, sconvolto dai venti e che tuttavia ti accingi ad attraversare, nonostante le onde avverse. Dove scappi? Ti si oppone la tempesta: possa aiutarmi il favore della tempesta! Guarda come Euro agita e sconvolge le acque. Ciò che avrei preferito dovere a te, lascia che lo debba alle tempeste. Il vento e le onde sono più giusti del tuo cuore. Io non sono così importante che tu, malvagio - ti valuto forse ingiustamente? -, debba morire, mentre mi sfuggi sul vasto mare. Tu nutri a caro prezzo un odio costoso e pervicace, se, pur di liberarti di me, poco ti importa di morire. Ormai i venti caleranno e Tritone correrà sulla piana superficie delle acque, con i suoi cavalli cerulei. Oh, se anche tu potessi cambiare con i venti! E cambierai, se non superi le querce in durezza. Cosa faresti, se non conoscessi il potere del mare infuriato? Così avventatamente ti affidi alle acque che hai sperimentato tante volte? Anche se tu sciogliessi gli ormeggi con un mare invitante, molte sono le sciagure che riserva la vasta distesa del mare. E certo non giova, a chi si avventura nellle acque, aver violato giuramenti: quel luogo esige che si paghi il fio del tradimento, soprattutto quando si è offeso l'amore, poiché si dice che la madre degli Amori sia nata nuda dalle acque di Citera. Rovinata, temo di mandare in rovina, o di fare del male a chi me ne fa o che il mio nemico, naufragando, beva le acque del mare. Vivi, ti prego! Preferisco perderti così, piuttosto che vederti morto - tu piuttosto, sarai considerato responsabile della mia morte. Prova a immaginare di essere preso da un turbine impetuoso - che il mio presagio sia vano! - cosa penserai? Ti verranno subito in mente i falsi giuramenti della tua lingua menzognera e Didone, costretta a morire per la perfidia di un frigio; ti starà davanti agli occhi l'immagine di tua moglie, che hai ingannata, triste, insanguinata, con i capelli scomposti. «Qualunque cosa sia», dirai, «tanto ho meritato, perdono!», e tutti i fulmini che cadranno penserai che siano scagliati contro di te! Concedi una piccola tregua alla tua crudeltà e al mare; la grande ricompensa al tuo indugio sarà un viaggio sicuro. E non mi preoccupo solo per te: abbi almeno riguardo per il piccolo Iulo! È sufficiente per te avere la gloria della mia morte. Quale colpa può avere Ascanio, che è un fanciullo, quale i Penati? Gli dèi sottratti all'incendio dovranno essere sommersi dalle onde? Ma non li porti con te e tutte le cose di cui, spergiuro, ti vanti con me, gli oggetti sacri e tuo padre, non gravarono le tue spalle. Menti su tutto; e veramente non sono io la prima ad essere ingannata dalla tua lingua, né io per prima ne pago le conseguenze: se chiedi dove sia la madre del bel Iulo, ella è morta in solitudine, abbandonata da un marito crudele. Questo mi hai raccontato... La punizione sarà sempre inferiore alla tua colpa. E ho l'intima certezza che i tuoi dei ti condannino: sono sette inverni che sei sballottato per mare e per terra; rigettato dai flutti ti ho accolto in un luogo sicuro, e avevo ascoltato a malapena il tuo nome che ti ho consegnato il mio regno. Se almeno mi fossi limitata a questi favori e il mio buon nome non fosse stato sepolto dalla nostra unione! Ha segnato la mia rovina quel giorno in cui un grigio temporale ci spinse, per un acquazzone improvviso, nella cavità di una grotta. Avevo udito delle voci, credetti che fossero ululati delle ninfe: erano invece le Eumenidi che davano il segnale del mio destino. Esigi una punizione, o pudore offeso, e voi sacre leggi del matrimonio profanate e tu, mio buon nome, che non ho conservato fino alla morte e anche voi, miei Mani, e tu anima e cenere di Sicheo, cui sventurata vado incontro piena di vergogna. In un tempio di marmo ho consacrato la sacra effige di Sicheo: la ricoprono sul davanti fronde e bianchi velli. Di lì io mi sono sentita chiamare per quattro volte dalla ben nota voce; proprio lui, con voce sommessa, mi disse: «Elissa, vieni!». Non c'è da aspettare: vengo, vengo, io, la tua sposa legittima. Giungo tardi, tuttavia, ora che ho perso il mio onore! Perdona la mia colpa: chi mi ha ingannata dava tutte le garanzie; egli rende meno riprovevole la mia colpa. Una dea per madre, l'anziano padre, pio fardello del figlio, mi diedero ragionevole speranza di un marito che sarebbe rimasto. Se era destino che sbagliassi, il mio errore ha cause oneste; aggiungigli la fedeltà, non sarebbe spregevole sotto nessun aspetto. Il destino, che ho sempre avuto in passato, persiste sino alla fine e accompagna gli ultimi momenti della mia vita. Il mio sposo è morto, assassinato presso l'altare di Tiro e mio fratello si gode la ricompensa di un delitto così grande. Vengo costretta all'esilio e abbandono le ceneri di mio marito e la patria; sotto l'inseguimento nemico, sono spinta in un pericoloso cammino. Sfuggita al fratello e al mare, approdo tra gente sconosciuta e acquisto quella terra che ti ho donato, traditore. Fondai una città ed eressi mura che si estendono per lungo tratto e destano l'invidia delle regioni vicine. Ci sono guerre in fermento: straniera e donna sono provocata a combattere e, inesperta, allestisco con difficoltà le porte per la città e gli armamenti. Piacqui a mille pretendenti che si allearono, scontenti che io avessi preferito ai loro talami uno sconosciuto. Perché esiti a consegnarmi in catene al getulo Iarba? Offrirei le mie braccia al tuo misfatto. Ho anche un fratello, la cui mano sacrilega, bagnata del sangue di mio marito, chiede di essere macchiata del mio. Deponi le statue degli dèi e i sacri oggetti che profani col tuo contatto! Non è bene che una mano impura renda onore agli dèi. Se dovevi essere tu a venerare gli dèi scampati all'incendio, quegli dèi rimpiangono di essere sfuggiti alle fiamme. Forse, disgraziato, tu abbandoni Didone anche incinta e una parte di te è racchiusa e nascosta nel mio corpo. La sventurata creatura condividerà il destino della madre e tu sarai colpevole della morte di un essere non ancora nato. E il fratello di Iulo morirà insieme a sua madre e un unico destino ci porterà via uniti. «Ma un dio mi ordina di partire!». Vorrei che ti avesse impedito di venire e che il territorio cartaginese non fosse stato calpestato dai Troiani. È certamente con la guida di questo dio che sei sbattuto da venti ostili e consumi lungo tempo trascinato dalle onde! Così grande fatica da parte tua sarebbe valsa appena per cercare di tornare a Pergamo, se fosse nelle condizioni di quando Ettore era ancora vivo. Tu non cerchi il paterno Simoenta, ma le acque del Tevere; certo, anche se giungi dove desideri, sarai uno straniero. E dal momento che la terra che tu cerchi se ne sta ben nascosta, restando fuori dalla vista, ed evita le tue navi, questa terra agognata la raggiungerai a malapena da vecchio. Lascia il tuo peregrinare e accetta piuttosto in dote, questo popolo e le ricchezze di Pigmalione che ho portato con me. Trasporta più opportunamente Ilio nella città tiria e prendi infine il posto e lo scettro sacro di re! Se il tuo animo è avido di guerra, se Iulo cerca da dove poter trarre trionfi con il suo impeto guerriero, gli procureremo un nemico da battere, perché non gli manchi nulla: questo luogo dà spazio a leggi di pace, ma anche alle armi. Solo ti prego, per tua madre e per le armi di tuo fratello, le frecce, e per gli dèi che ti hanno accompagnato nella fuga, sacre divinità troiane - così sopravvivano quanti della tua gente porti con te e la crudele guerra troiana segni il termine delle tue sventure e Ascanio porti felicemente a compimento i suoi anni e le ossa del vecchio Anchise riposino in pace! -, abbi pietà della casa che si affida a te. Di quale colpa mi accusi, se non di averti amato? Io non vengo da Ftia o dalla potente Micene; mio marito e mio padre non furono mai contro di te. Se ti vergogni di avermi in moglie, che non mi si chiami tua sposa, ma ospite; pur di essere tua, Didone accetterà di essere qualunque cosa. Conosco bene i flutti che squassano il litorale africano: in determinati periodi consentono o impediscono la partenza. Quando il vento consentirà di partire, darai le vele ai venti; ora le alghe filacciose trattengono la nave gettata qui. Affida a me l'incarico di osservare il tempo: partirai più sicuro, e, anche se tu lo volessi, non ti permetterò di restare. Anche i tuoi compagni chiedono riposo e le navi squarciate, finora riparate a metà, esigono una breve sosta. Per i miei meriti, e per quello che forse ancora ti dovrò, per la mia speranza di nozze, ti chiedo un po' di tempo, finché si calmino il mare e il mio amore, finché con il tempo e l'abitudine io sappia trovare la forza per sopportare i dispiaceri. Se no, intendo abbandonare la vita: non puoi infierire su di me ancora a lungo. Oh, se tu vedessi l'immagine di chi ti scrive! Scrivo e tengo in grembo la spada troiana; lungo le guance le lacrime scivolano giù sulla spada sguainata, che fra poco sarà bagnata di sangue, anziché di lacrime. Come si adattano bene al mio destino i tuoi doni! Con poca spesa prepari il mio sepolcro. E non è ora la prima volta che il mio petto è ferito da un'arma: vi è già la ferita di un amore crudele. Anna sorella, sorella Anna, consapevole, purtroppo, della mia colpa, fra poco porgerai gli ultimi onori alle mie ceneri. E, una volta divorata dal fuoco, non sarò più indicata come Elissa, moglie di Sicheo, ci saranno soltanto questi versi incisi nel marmo del sepolcro: «Enea fornì il motivo della morte e la spada; Didone si tolse la vita con la sua stessa mano». (Emanuela Salvadori) (o meglio, come ricomincia, con la tecnica dei paradossi ovidiani) la storia di Didone: I Fasti, Terzo Libro (545-654) (in rosso bruno i passi di Ovidio da riferire alla doppia scrittura virgiliana) L'infelice Didone s'era accesa d'amore per Enea: era poi arsa fra il rogo eretto contro il suo destino: e raccolte le sue ceneri, e sulla pietra della tomba veniva scritta questa breve iscrizione, che ella stessa aveva lasciata morendo: Enea offerse e la cagione della morte e la spada; ma Didone si uccise adoperando la stessa sua mano. [550] Tosto invadono i Numidi il regno senza difesa: e il Mauro Iarba si insedia sulla conquistata reggia: e memore del disprezzo subito, "ecco dunque, disse, del talamo di Elissa io, che tante volte ella respinse, posso godere". Fuggono in disordine i Tirii, e lo scompiglio preme ognuno dovunque, come si sperdono le api incerte allorché hanno perduto la regina. Tre volte l'aia aveva raccolto le messi tolte dalle spiche; e tre volte il mosto era colato nei concavi tini: Anna viene scacciata dalla reggia: e piangendo abbandona le mura fraterne. Prima celebra le esequie alla sorella sua. [560] Le molli fiamme bevono gli unguenti misti alle lagrime: e ricevono le chiome recise dal capo: e per tre volte, addio, disse: e per tre volte baciò le ceneri portate alla bocca, e le sembrò che in quelle rivivesse la sorella. Trovatasi una navicella e compagne per la fuga, si allontana a lenti passi, rivolgendosi a guardar le mura, cara opera della sorella. Vicino alla sterile Cosira vi è la fertile isola di Malta, che l'onda del mare Libico percuote. Questa prescelse, fiduciosa nell'antica ospitalità del Re. L'ospite colà era il Re Batto ricco di potenza. [570] Questi dopoché ebbe udito le sorti d'entrambe le sorelle: "Questa terra, disse, per quanto piccola è tua". Ed avrebbe osservato sino alla morte i doveri dell'ospitalità, ma tuttavia temette la grande potenza di Pigmalione. Il Sole aveva percorso due volte le sue costellazioni: si avvicinava il terzo anno: e agli esuli era necessario cercarsi nuovi asili. Giunge il fratello e la reclama con le armi. Il Re, temendo la guerra, "Noi siamo imbelli, disse, tu fuggi in salvo". Eseguisce ella i comandi, ed affida la nave al vento ed alle onde. Il fratello era più terribile di qualsiasi burrasca. [580] Lungo le pescose rive del sassoso Cratide si stende una piccola pianura: la gente che vi abita la chiama Cameria. Quivi era diretto il corso. Né di là distava più che quanto una fionda può scagliare in nove volte. Dapprima cadono le vele, e si agitano per venti pericolosi. "Fendete coi remi le acque", disse il nocchiero. E mentre si apprestano ad ammainare le vele di ritorto canape, l'uncinata poppa viene percossa da una raffica di vento: e viene portata in mare aperto, nonostante la resistenza del pilota: e la terra veduta sparve dagli occhi. [590] Si gonfiano le onde, e dal profondo gorgo ribolle il mare, e la nave incomincia ad imbarcare le acque spumeggianti. L'abilità viene sopraffatta dal vento: né il nocchiero si serve più delle scotte, e anch'esso chiede aiuto con le preghiere. L'esule fenicia viene sbattuta dalle onde infuriate: e copre gli umidi occhi con la veste portata innanzi. Allora per la prima volta fu detta felice dalla sorella Didone, e chiunque preme col corpo una terra qualsiasi. La nave viene gettata da potente vento sul lido di Laurento, e, dopoché tutti furono sbarcati, scomparve inghiottita dalle acque. [600] Già il pio Enea aveva conquistato il regno e la figlia di Latino; e aveva fuso due popoli. Accompagnato soltanto da Acate, mentre a piedi ignudi se ne andava solitario lungo la spiaggia che gli aveva procurato il matrimonio, scorse quella che andava vagando, né riusciva a persuadersi che fosse Anna: "Perché mai sarebbe venuta essa nelle terre Latine?"; mentre fra sé Enea così pensava: "Ma è Anna!", esclama Acate. A quel nome essa alzò il suo volto. Dove fuggire? Che fare? In quale abisso della terra rifugiarsi? Dinanzi agli occhi stavano i destini dell'infelice sorella. [610] Lo comprese, il figlio di Citerea, e si rivolse alla timorosa: piange tuttavia commosso al tuo ricordo, o Elissa. "O Anna, io giuro per questa terra, che eri solita udire un tempo essermi stata promessa da un destino più favorevole: e per quegli Dei che mi furono compagni, e testé trasportati in questa sede; che spesso rimproverarono i miei indugi! Io non temei tuttavia della sua morte: questa paura era ben lontana! Ahimè! Ella fu più coraggiosa di quanto potessi credere. Non dirmi nulla! Io stesso scorsi su quel petto le ferite non meritate, quando osai visitare i regni Tartarei. [620] Ma tu, sia che ti abbia spinto alle mie terre la volontà, sia il volere divino: accetta l'ospitalità del mio regno. Molta riconoscenza noi dobbiamo a te, non poca ad Elissa. Tu mi sarai cara per te stessa, cara per la sorella". Ella credette queste cose a lui che le diceva (né infatti rimane a lei altra speranza) ed espose le sue peregrinazioni. E come potè entrare nella reggia vestita alla foggia dei Tirii; Enea prese a parlare: tutta la folla taceva: "Una pia ragione mi costringe ad affidarti costei, o sposa Lavinia; io naufrago potei godere dell'ospitalità di costei: [630] Nacque in Tiro: ella possiede un regno sulla spiaggia Libica: ti scongiuro di amarla come una diletta sorella". Essa promette ogni cosa: e rinchiude nel segreto cuore una ingiusta gelosia, ma ne dissimula il timore: e come vide che sotto ai suoi occhi le venivano portati palesamente molti regali, reputa che molti altri le venissero offerti di nascosto. Non sa esattamente quello che farà. Odia ferocemente: ed appresta insidie, e spera di morire vendicata. Era la notte: dinanzi al letto della sorella Didone fu vista apparire con le chiome scompigliate ed insanguinate, [640] e dirle, "fuggi, non indugiare, fuggi questo tragico tetto". Subito dopo quelle parole il vento spinse le porte cigolanti. Balzò fuori dal letto e veloce si gettò da una bassa finestra sui prati. Il timore stesso l'aveva resa audace. E vaga per dove vien portata dalla paura, velata da una discinta tunica, come fugge una cerbiatta spaurita dall'aver inteso i lupi. Si ritiene che il cornuto Numicio l'abbia rapita fra le sue onde impetuose, e l'abbia occultata fra i suoi stagni. Frattanto si fanno ricerche della Sidonia fra le valli con grande frastuono. Sono evidenti le orme e le impronte dei piedi. [650] Si era pervenuti sino alla riva: anche sulle sponde si notavano le impronte. Il fiume consapevole trattenne silenziose le sue acque. Sembrò che essa mormorasse: "Io sono Ninfa del placido Numicio: nascosta in questo fiume perenne, mi chiamo Anna Perenna". (Pietro D'Alvise)
At base: "Salvatore Asdrubale Bomilcare Conte" by Phoenician alphabet Salim George Khalaf's original design ~ Copyright © QueenDido.org |
|