Il Buono, il Brutto e la Cessa

L'Incassatrice

Addio calibro 38

Morte all'ombra del Faraone

Una pallottola per Layla

Caduta e ascesa di Fina

Mai mollare, anche se è finita

IL BUONO, IL BRUTTo E LA CESSA

di Salvatore Conte (2024)

Un cielo lattiginoso ricopriva l’arida spianata adattata a cimitero, nella quale migliaia di tumuli erano trafitti da misere croci di legno. La Morte era la Signora del luogo fino alle colline, che occultavano, agli umili paesi posti oltre, la vista della spettrale distesa di croci. Una polverosa piazza ellittica, delimitata da un muracciolo di pietra, costituiva il nucleo centrale del cimitero, dal quale si irradiavano a perdita d’occhio le pietose croci; un baraccato di legno fungeva da stazione per i carri e da tetto per gli occasionali visitatori.

Un cimitero dimenticato di poveri soldati spiantati, mandati al macello per ridefinire le forme di sfruttamento delle masse, era il luogo più sicuro per nascondere un tesoro, ma era anche una trappola senza scampo e un accesso diretto all’inferno. Lo sapeva bene il sergente Wallace, che aveva approfittato della mano pesante del fratello, rimasto caporale, per cavare il nome del cimitero al Brutto.

Piantata ai margini dell’ellisse in tutto il suo solido tronco di Cessa, Layla Wallace - anche se pronta a dare battaglia - si guardava intorno per scorgere una qualche via di fuga. La posta in gioco era alta e le possibilità ridotte a una su tre. All'esterno, la Cessa sfoderava il suo sorriso smargiasso, per alleggerire una figura fattasi pesante; ragionava ancora da bella donna, anche se non lo era più.

D'altra parte, la sua formosa bellezza le aveva sempre offerto un’arma in più: era raro che i suoi avversari non indugiassero al suo cospetto, e nel gioco mortale della colt .45, dove tutto è deciso da chi spara per primo, gli indugi si pagano con la vita.

Il tempo era giunto, l’occasione attesa per mettersi a riposo e vivere nell’oro i giorni che le restavano. Il tesoro era a portata di mano, non restava che eliminare i concorrenti.

La Cessa era sempre sicura di vincere, in un modo o nell’altro, ma quel giorno, contro Tuco e Clint, sapeva che sarebbe stata dura, perché per denaro, per tanto denaro, l’uomo scatena tutte le sue forze.

Lo sapeva e sudava. Il cuore pulsava incontrollabile, il seno si sollevava eccitato sotto la camicia azzurra, sbottonata fino allo stomaco.

Una strana passione la scuoteva, ma gli occhi erano duri e mobili, attenti a ogni mossa degli avversari.

Ciascuno aveva il suo posto all’interno dell’ellisse fatale.

L’estasi dell’oro si faceva musica per le orecchie.

Ma ormai il silenzio stava per essere rotto...

BANG BANG

Due spari simultanei.

Un’espressione di vago stupore sul volto di Layla.

Due macchie rossiccie sulla camicia blu.

Il Buono e il Brutto avevano lasciato il segno. Un doppio segno.

La Cessa digrignò i denti, si erano coalizzati contro di lei, ma non era tipo da rotolare nella fossa così su due piedi.

Per un attimo voltò le spalle a Tuco, poi con un guizzo viperino - BANG - lo sorprese con una palla in corpo, smorzandogli in gola il ghigno borioso.

Il Brutto reagì molto male, vomitandole addosso altro piombo.

BANG

BANG

BANG

Due pallottole si persero tra le croci del cimitero, ma una finì nella pancia di Layla. Era la terza.

Il brutto ghigno riprese forma.

BANG

Ma tramutò in meno di un istante in tuttaltro: Layla stavolta aveva centrato il brutto cuore. Tuco era impietrito, sbigottito, quella puttana l’aveva spedito all’inferno.

Per qualche secondo rimase in equilibrio.

Poi si schiantò esanime nella polvere.

Il respiro di Layla si fece affannato.

Aveva atterrato il Brutto, ma al prezzo di tre palle di piombo nella pancia.

Il Biondo era sulla sua tangente e aspettava le sue mosse.

Freddo e imperscrutabile, inutile sperare di commuoverlo.

Aveva già dimostrato di volerla morta, sparandole di prima mano, quando lei, invece, non aveva ancora calato le carte.

Tanto valeva rischiare il tutto per tutto. Giocarsi le ultime pallottole.

Anche se sapeva di essere in svantaggio.

La Cessa si guardò le ferite.

Erano gravi, ma forse non era ancora finita. E Tuco era fuori dal gioco.

Tra lei e l’oro c’era rimasto soltanto un sigaro.

Fece finta di crollare a terra e tentò il colpo.

BANG BANG

Due spari simultanei.

Una calibro 45 raggiunse il Biondo all’addome, l’altra centrò Layla nello stomaco.

Spalancò gli occhi e la bocca, incredula e sgomenta.

Annaspò alla ricerca d’aria.

Doveva riprendere il controllo della situazione.

Aveva beccato il Buono.

Ora doveva finirlo.

BANG

La pallottola raggiunse Clint al braccio. La mira del sergente cominciava a scarseggiare.

BANG

Non quella del Buono, che imbottì la Cessa con l’ennesimo proiettile nella pancia, facendola sobbalzare con gli occhi sbarrati dal terrore.

Erano cinque.

La colt di Layla divenne dannatamente pesante e le scivolò dalla mano come fosse una saponetta.

Stava ansando.

Si portò entrambe le mani sulla pancia e si ingobbì in avanti.

Era ancora in piedi.

Con la bocca aperta e gli oscillanti movimenti del corpo, cercava in qualche modo di irretire il Biondo.

Ma Clint aveva spianato la colt. E armato il cane.

Il dito era sul grilletto. E la guardava fisso.

Era risentito soprattutto per quella palla nel fianco.

Layla staccò una mano dall’addome e la sollevò sanguinante verso il Biondo, scuotendo leggermente il capo.

Gli chiedeva di risparmiarla, aveva ricevuto abbastanza guai, cinque grossi guai calibro 45, e aveva offerto un bel bersaglio al Brutto, non poteva negarlo.

Il Buono si guardò il buco nella pancia e rialzò gli occhi verso la Cessa, mostrandosi molto contrariato.

Anche lui scosse il capo. E le sventagliò contro la colt.

La mano protesa di Layla si ritrasse. Lo sguardo si indurì, pronto al peggio.

Il Biondo non voleva saperne e per lei era finita.

«BANG».

Con un ghigno beffardo il Buono accompagnò il cane a riposo e la colt nella fondina, mentre scrutava incuriosito lo sguardo incredulo di Layla, nel quale, repentino, si accese un lampo di trionfante cattiveria.

Ciò nondimeno, la figura della Cessa - piegata in avanti, con la camicia piena di buchi - risultava patetica.

Cosa sperava di fare?

Ma per Layla quello era un risultato, perché non era facile ottenere qualcosa dal Biondo.

Sotto gli occhi del Buono, la Cessa prese a barcollare in direzione del baraccato, con le gambe larghe e gli avambracci a reggersi le ferite in pancia, esaltata dalla sua capacità di rimanere in piedi, come se avesse la vita ancora in suo potere.

Il Biondo la osservava incuriosito. Mentre camminava, si sentiva i suoi occhi addosso.

Ma lei andava troppo piano e l’oro era ancora da scavare.

Clint si avviò verso il tumulo che dava sepoltura all’oro, lasciando la Cessa al suo destino.

Tanto non poteva andare da nessuna parte, né avrebbe potuto eliminarla a sangue freddo. Lui era il Buono.

L’estasi del gran colpo fu tale che Clint, nonostante le ferite, impiegò pochi minuti a mettere le mani su due sacche strapiene di dollari d’oro.

Era fatta.

Ritornò verso l’ellisse.

Era vuota. Si guardò intorno e cercò di capire dove fosse finita Layla.

Non si vedeva da nessuna parte.

Per quanto pericolosa fosse, non poteva essere andata lontano con tutto quel piombo in corpo.

Più tardi avrebbe cercato nelle baracche, ma adesso aveva sete; doveva esserci un abbeveratoio.

Lo vide e si avvicinò; e fino all'ultimo non notò niente di strano; solo quando azionò la pompa, la vide...

Effettivamente tutti gli animali vanno all'acqua, specialmente le bestie ferite.

Era piegata su un fianco, quasi di spalle, contro la sponda interna dell'abbeveratoio.

Con l’avambraccio sinistro si reggeva la pancia. Quello destro era occultato dal corpo.

Il Biondo era stupito di vederla ancora penare, in quella strana posizione.

Un lieve sorriso si delineò sul suo volto.

Ma si spense subito dopo…

Layla si era voltata e la sua mano stringeva una colt .45, con la canna puntata contro di lui.

Lo stava aspettando.

In un sol momento, il Buono ricostruì cos’era avvenuto: Layla era passata accanto al brutto cadavere, si era impossessata della sua colt, c’erano due colpi ancora da sparare; poi era andata ad aspettarlo.

Che fottuta puttana!

E adesso era lì, con la camicia sbottonata, ansiosa di mettere in atto il suo piano: «Potrei… fotterti... come un cane… cough... ma... non… ci guadagno niente… cough... voglio metà… dell’oro… e un dottore…».

L’espressione tirata del Biondo si allentò: non voleva portarlo con sé all’inferno, almeno per il momento.

La situazione ora quasi lo divertiva: «Non dimenticare che ti ho permesso io di arrivare a questa fottuta tinozza...».

«Allora… ci stai…?», Layla non aveva tempo per discutere.

«D’accordo, hai la mia parola. Ma non sono un dottore. Come pensi di trattare quei buchetti nella pancia?».

«C’è un villaggio… di peones… cough... a un’ora…», gli rispose Layla.

«Un villaggio di peones…? Vuoi che ti porti laggiù?».

Il Buono poteva facilmente fregarla, ma per lei non sarebbe cambiato niente. Non poteva ottenere altre garanzie, doveva fidarsi per forza. Non aveva nulla da perdere. Accopparlo non le sarebbe servito a nulla. Aveva poco da vivere. Senza aiuto non aveva scampo.

Layla abbassò la colt, lui la tirò fuori da lì e la trasportò all’interno della stazione.

Aprì la porta con un calcio e cercò con lo sguardo una superficie su cui distenderla. Non c’era niente di meglio di un tavolaccio scorticato occupato da cianfrusaglie: con un braccio sgomberò il piano, distese Layla e le aprì la camicia.

Era peggio di quanto pensasse. La pancia era maciullata dalle pallottole: carne scoperta, pulsante, grumi di materia e sangue.

Il Biondo non batté ciglio: lei lo fissava, attenta alle sue reazioni. Lui non faceva trapelare alcuna emozione.

Si guardò intorno: in un angolo erano ammucchiati dei lenzuoli, destinati probabilmente ad avvolgere i cadaveri. Con queste bende improvvisate, imbevute d’alcool, le fasciò le ferite; poi le abbottonò la camicia, le sollevò la testa e la fece bere.

Le stava dimostrando che non aveva intenzione di fregarla, almeno per il momento.

Lei non perse l’occasione di farselo amico: dopo aver bevuto, gli prese una mano e se la piantò sul seno. Lui la baciò in bocca e sul collo, era grassa ma ben fatta, ancora attraente.

Allestito alla meno peggio un carro, vi sistemò sopra la Cessa, distendendola sul pianale di carico.

Mentre la pista si snodava, quasi indistinta dal desolato contesto, il Biondo si interrogava sul villaggio di peones verso il quale stava conducendo la sua compagna di viaggio.

Che cosa poteva aspettarsi da quella gente? Layla sapeva di avere poco da vivere. Se aveva pensato a quel posto, un motivo doveva esserci.

D'altronde lui aveva più tempo per trovarsi un dottore.

Il Buono stava trascurando il fatto che, a dispetto della loro misera condizione, i peones di certi villaggi disponevano di droghe molto potenti, che usavano secondo i consigli degli sciamani.

Forse Layla cullava quest’ultima illusione.

Trascorsa la prima mezzora di viaggio, la Cessa cominciò a lamentarsi insistentemente.

Il Biondo fu costretto a fermarsi e a passare dietro, sul pianale del carro ove giaceva Layla.

«Allora… cosa c’è che non va…?».

«Ho paura… Biondo…».

Il Buono la fece bere.

«Non sei una donna di primo pelo, Layla. Sappiamo che sei messa male…», Il Biondo preferiva che non si facesse troppe illusioni.

«Non sai… dire altro…?», lo fissò, rimanendo in attesa.

Le palpeggiò il seno e la baciò in bocca, come se fosse sbronzo.

«Io… io… non posso… morire… cough...», protestò ostinata Layla, pressando le mani sulle ferite.

«Premi forte, cara... voglio arrivare in tempo...».

Clint tornò a cassetta e riprese la marcia, spronando i cavalli.

Il Biondo si augurava di non assistere a inutili scene di disperazione: al culmine della tragedia, Layla avrebbe potuto reagire in qualunque maniera, ma ciò non le avrebbe allungato la vita.

La Cessa si consumava inquieta, cambiando ripetutamente postura e sfregando gli stivali sul pianale del carro.

Non riusciva a stare ferma, perché non sapeva come placare la paura di morire, che le metteva in corpo un’innaturale frenesia.

E non le giovava a nulla la vista dei sacchetti con l'oro, beffardamente coricati accanto a lei, che tintinnavano a ogni sobbalzo del carro.

Passato un altro quarto d’ora, sentì arrivare l’irreparabile.

«Biondo… Biondo…».

Lui fece finta di non sentire.

«Sto crepando… Biondo...!», la voce del sergente Wallace era disperata.

Il Buono fermò il carro.

«Siamo quasi al villaggio, Layla».

«È finita… Biondo…», la Cessa si guardava intorno impaurita, come se la Morte portasse la colt e stesse per spararle addosso un'altra volta.

I respiri erano corti e affannati.

«C’è stato… un momento… cough-cough... in cui… mi sono illusa…».

Il Buono tamponò il sangue che le colava dal labbro.

«Dimmi... qualcosa... Biondo...», Layla cercava un po’ d’aiuto, ma lui non sapeva che dire.

«Fai presto... dimmi... una parola...», insistette Layla, che non riusciva più a controllarsi.

«Aspetta...».

Tornò alla guida del carro e raggiunse il villaggio in pochi minuti.

«Siamo arrivati: cerca di non crepare proprio adesso!», le gridò da cassetta.

Layla fu trasportata all’interno d’una modesta casupola e medicata dall’anziana del villaggio, mentre un ragazzino correva a chiamare lo sciamano.

Alla Cessa fu somministrata una droga che ne stabilizzò il corpo sulla soglia che separa la vita dalla morte. Il principio di questo intervento, praticato dagli sciamani di quella regione, si fondava sul presupposto che l’organismo fosse perfettamente autosufficiente anche nel più completo stato di incoscienza e che la cura di ferite molto gravi richiedesse la riduzione ai livelli minimi consentiti delle funzioni vitali.

Il Biondo ebbe la netta impressione che Layla fosse morta stecchita, ma lo sciamano lo rassicurò che per il momento non era così.

Lo stregone sembrava molto fiero del suo lavoro e particolarmente compiaciuto di questo compito.

Dopo un po’, si occupò anche di lui.

Il Biondo si mise a sbuffare. Il giorno seguente non si sarebbe fatto trattenere in quello schifo di posto per nessuna ragione al mondo.

La notte passò tranquilla.

Di buon mattino, prima che lo straniero potesse approntare la partenza, lo sciamano visitò la donna e lo avvertì: «Quando signora risveglia da lungo sonno, è momento difficile per lei, può morire senza persona che signora riconosce da sua precedente vita. Dopo che signora riprende da lungo sonno, tu andare via, straniero».

Il Buono aveva la netta impressione che lo sciamano avesse mangiato la foglia e questo doveva capitargli spesso.

Non gli rimaneva che stare al gioco.

Aveva due zinne d'oro da spremere e altrettante di ciccia.

Quanto sarebbero durate?

Chiedetelo allo sciamano...

L'INCASSATRICE

di Salvatore Conte (2024)

Il saloon di Hondo, in Nuovo Messico, si era improvvisamente svuotato.

Risaltava così lo squallore del locale, costruito in fretta per spennare gli illusi in cerca di un sogno fondato sul nulla.

Solo il bancone, in quercia, dava l'idea di qualcosa di stabile, fungendo da spartiacque tra padrone e avventori.

Ora, però, quelle acque si erano improvvisamente ritirate...

Spalleggiata da un paio di scagnozzi, Romina Lopez affrontò Bill Watson con la sua abituale spavalderia da smargiassa.

Immobili, senza diversivi, uno di fronte all’altra.

Duri, senza scrupoli, calcolatori, tutti e due erano cresciuti nella violenza, fra soprusi e brutalità di ogni genere. Niente li fermava, perché avevano un unico credo: la pelle. A qualunque costo.

Lui, Bill, robusto, saldo sulle gambe tozze, la faccia strafottente di chi si prendeva gioco di tutto, morte compresa. Agile di mano e di mente, si fidava solo della colt, del fuoco - come usava dire - che faceva ballare.

Lei, Romina, una puttana. Un tipo tosto, provocante, che sapeva mettere in mostra e a frutto le sue belle curve. Non conosceva altro nella vita. Cercare i disperati, vendergli piacere, e spennarli. Nessuno scrupolo. Il piacere - diceva - vale più della vita, perché è raro.

Non aveva che da scegliere e scelse Franck, uno dei tanti banditi che sfruttavano cow-boy, minatori e spiantati, riducendoli in miseria ai tavoli da gioco. Si era circondato di pistoleri falliti e si sentiva il padrone. Aveva accettato Romina perché una puttana faceva comodo in una compagnia di soli uomini. Ma non si fidava di lei. La impiegava nelle imprese più rischiose per liberarsene quanto prima, perché intuiva che presto o tardi avrebbe ottenuto troppo potere.

Romina si era fatta sempre più sfrontata. Adesso si era messa in testa di conquistarlo. Una sgualdrina con poco cervello, che affrontava le missioni come se andasse a letto. Non sapeva neppure perché uccideva. Lo faceva e basta. Inaffidabile, ambigua, troppo pericolosa. Da eliminare.

Romina appoggiò il palmo della mano sul calcio della colt .45.

C’era. Era al suo posto, nella fondina del suo cinturone.

Ora doveva fregare Bill Watson e farlo sparire per sempre. Erano gli ordini di Franck. E poi aveva già incassato l’acconto di 500 dollari e al saldo ne aspettava altrettanti.

Tanto peggio per mister Watson, dunque.

Ma il rude Bill non era tipo da farsi scavare la fossa sotto i piedi: nonostante tenesse gli occhi fissi sulle curve della bella messicana, seguiva con altrettanta attenzione i movimenti delle sue mani e quelli dei due tagliagole che le facevano da contorno.

«Getta la pistola a terra, Bill. Ti conviene…», Romina sapeva che non l’avrebbe fatto, ma in qualche modo cercava di distrarlo per sorprenderlo.

«E a te conviene non metterti contro di me. Mi dispiacerebbe aprire dei buchi nella tua bella carcassa…».

«Avanti, Bill… molla il ferro…», Romina si era avvicinata ancora, spalleggiata dai tangheri messi a disposizione da Franck.

L’aria era satura di piombo: sembrava mancare soltanto la scintilla…

Uno degli scagnozzi non resse la tensione e tradì l'intenzione di aprire il ballo…

BANG BANG BANG

Bill Watson sembrò sparare con tre pistole, ma era la sua che aveva cantato tre volte: anticipò tutti e spedì all’inferno i due balordi che affiancavano la messicana. Lei, Romina, fu risparmiata: Bill le fece saltare la colt dalla mano. Per il momento se l’era cavata a buon mercato…

Superato il momento di panico, Romina si convinse di potere ancora tirare la corda e si avvicinò con fare seducente al pistolero: «Hai fatto bene a non sciuparmi. Ora possiamo metterci insieme. Questi uomini erano solo degli idioti…».

Gli si strusciò addosso, cercando di stringerlo fra le sue grasse tette.

Aveva un sorriso ambiguo.

Mentre lo fissava e con la lingua umettava le labbra di saliva, cercando di distrarlo, aveva impugnato una pistola di piccole dimensioni, una derringer, occultata in una tasca della gonna. Era pronta a estrarre e fare fuoco.

Gli occhi guizzarono crudeli.

BANG

Il suo vago sorriso mutò istantaneamente in un’espressione terrificata.

Una calibro 45, sparata a bruciapelo, le aveva bucato la pancia.

Bill non l’aveva perdonata una seconda volta.

Gli occhi di Romina erano increduli, la bocca spalancata. Lei lo guardò con aria accusatoria, come se lui l’avesse colpita ingiustamente…

La Lopez si ritrasse rabbiosa da Bill e barcollò verso il bancone del saloon, tamponandosi nervosamente la ferita in pancia con entrambe le mani.

Bill la lasciò fare: era curioso di vedere quanta birra avesse in corpo.

Giunta al bancone, la messicana si voltò verso Bill, puntellandosi contro la struttura. Schiumava rabbia. E aveva ancora la sua derringer nella tasca della gonna.

«Non fare altre cazzate, Romina. Ne hai già fatta una bella grossa, e dovrebbe bastarti», la avvertì Bill.

«Bastardo… Franck mi farà secca… cough...».

Infatti, proprio in quel momento, il temuto Franck fece il suo ingresso nel saloon, seguito da un paio di scagnozzi. Era venuto a controllare il lavoro della Lopez.

Finse di non aver preventivato l’incidente: «Mi hai deluso, Romina: sei soltanto una puttana, non dovevo fidarmi di te…».

«Aspetta... Franck…».

L’uomo si avvicinò minaccioso alla donna.

«Aspetta… aspetta… cough...», supplicò Romina.

«Lasciala perdere, Franck. È solo una puttana, l’hai detto. È me che vuoi, no?», era la voce di Bill.

«Questa puttana mi ha fottuto 500 dollari per ammazzarti, Bill Watson; e mi è costata anche la pelle di due uomini…

Ma ora mi ha stancato.

Falla finita, Cody!», ordinò perentorio Franck.

«No… Franck… no!

Eccoti… i tuoi sporchi dollari… cough...», da un taschino interno della succinta camicetta, tesa allo spasimo dalle pesanti zinne, Romina lasciò cadere a terra la mazzetta dei soldi, sporcandola di sangue.

Ciò fece infuriare ancora di più Franck.

«Sporca puttana messicana…».

Franck lanciò uno sguardo allusivo al suo tirapiedi…

Cody recepì il messaggio e avanzò di qualche passo, con il ghigno di chi da tempo aspettava quel momento...

Bang!

La distanza ideale per la derringer di Romina, che lo centrò in fronte, sorprendendolo nettamente: perché donna, perché puttana, perché ferita a morte, perché con la fondina vuota.

BANG

A questo punto fu lo stesso Franck a estrarre la colt, e prima che la donna potesse tentare una nuova reazione, le piazzò una pallottola nello stomaco.

Romina s’avvitò su sé stessa per un giro intero e quando tornò a voltarsi verso Franck, gli esplose contro la sua derringer, colpendolo all’addome…

Bang!

«Fottuta puttana…», il pistolero reagì subito, scaricando nella pancia di Romina altri due colpi in rapida successione…

BANG BANG

La donna spalancò la bocca, ormai certa di avere incassato una dose fatale di piombo; le gambe cedettero e finì seduta a terra contro la sponda del bancone.

Le braccia si distesero inerti lungo i fianchi. La mano impugnava ancora la derringer. Un rivolo di sangue le colava dal labbro.

Romina le aveva provate tutte, prima di farsi ammazzare, e respirava ancora, nonostante avesse incassato quattro pallottole.

Il bandito puntò la colt verso di lei. Nuovamente.

«Ora basta, Franck: è fottuta, non lo vedi?».

«Tu non la conosci abbastanza, Bill Watson…

Questa puttana è pericolosa come un serpente…», e accennò a metterle in corpo altro piombo.

A quel punto Bill ne approfittò per regolare i conti…

BANG BANG

Estrasse fulmineo la colt e con le ultime due pallottole centrò Franck al cuore e liquidò lo scagnozzo superstite.

Il temuto bandito di Hondo sembrò rimanere indifferente per alcuni secondi, poi crollò improvvisamente a terra, cadavere, accanto ai suoi uomini.

Si era tanto lasciato ossessionare da quella puttana, da trascurare l'obiettivo principale: Bill Watson, lo straniero che aveva ficcato il naso nei suoi affari.

Romina colse l’occasione al balzo per tentare un’ultima volta la fortuna: Watson aveva finito il piombo e prima di morire lei voleva vendicarsi e dimostrare a tutti di essere una vera pistolera.

La sua piccola derringer a 4 canne disponeva ancora di due pallottole. Sembrava tutto facile. La messicana fu colta dalla stupida smania di essere l’ultima a morire in quel tragico saloon, e senza altre esitazioni puntò l’arma che ancora stringeva nella mano e fece fuoco contro Bill…

Bang!

Watson, però, non aveva dimenticato l’ultimo ammonimento di Franck e d’istinto si lanciò a terra, schivando il colpo.

Romina aveva a disposizione un ultimo proiettile. Poteva ancora morderlo.

Bill Watson si affrettò ad allungarsi sul cadavere di Franck, mettendo mano alla sua colt soltanto un attimo prima che Romina gli puntasse nuovamente contro la sua derringer…

BANG

L’arma saltò via dalla mano della donna.

Ora non poteva più mordere.

Bill aveva scelto di non infierire su di lei.

Per quanto avesse cercato di ucciderlo, non una ma quattro volte, era pur vero che l’aveva aiutato a liberarsi di Franck.

E di piombo in corpo ne aveva incassato parecchio. Non sarebbe andata lontano.

Bill si tirò in piedi e rimase a guardarla: era seduta contro il bancone, con il capo reclinato sulla spalla, la bocca semiaperta e gli occhi stralunati che fissavano il soffitto del saloon. La sua pancia era imbottita di piombo.

Si sentì osservata e cercò di incontrare lo sguardo di Bill: gli occhi di Romina erano persi nel vuoto, e atterriti, per una fine che non doveva essere lontana.

Mentre la guardava consumarsi, Bill decise come organizzarsi.

La gente di Hondo sarebbe tornata molto presto.

Per prima cosa ricaricò la colt. E questo lo fece sentire meglio.

Quindi si avvicinò per parlarle.

Raccolse da terra il mazzetto dei dollari e glielo infilò di nuovo nel taschino della camicetta, sfiorandole giocoforza le zinne: «Il saldo te lo puoi scordare, ma l’acconto rimane tuo…».

Gli occhi di Romina si fissarono lentamente su di lui.

«Ero… sicura… di poterti… fottere... cough...

Perché… cough... non mi hai… finito…?».

Bill le asciugò il labbro.

Fu scossa da un brivido, ma riuscì a riprendersi: «Con la pistola… mi è andata... cough... male… ma... posso ancora… cough... succhiarti... il cazzo… gringo…».

Lo stava provocando. Velenosa fino alla fine.

«Non credi che sia finita, Romina?», la incalzò, per tutta risposta, Bill Watson.

«Fottiti…», sussurrò risentita la donna.

L’uomo stava per andarsene.

Ma un’ultima occhiata alla donna, che nel frattempo aveva orgogliosamente distolto lo sguardo, lo indusse a riflettere su come l’avrebbero trattata: era una puttana, era una messicana, e per di più era una donna.

La gente di Hondo stava per tornare.

L’avrebbero violentata e lasciata morire dissanguata.

Alcune voci, provenienti dall’esterno, lo costrinsero a rompere gli indugi.

La gente stava tornando.

Sollevò Romina da terra, afferrò una bottiglia dal bancone e trasportò la donna al piano di sopra.

La distese su un letto.

Gli occhi di Romina lampeggiarono soddisfatti.

Bill chiuse la porta a chiave e si organizzò per medicarla.

«Voglio il tuo cazzo… Bill…», insistette Romina, benché in pieno stato d'agonia.

L’uomo non tentò neppure di farla ragionare, e con parte del lenzuolo ricavò delle bende; quindi le imbevette di whisky e le stese sulle ferite; infine, le fece bere il resto della bottiglia.

Aveva fatto il possibile, ma almeno un paio di quei buchi sembravano prometterle un viaggio all’inferno.

Non poteva far altro che aspettare. Era inutile cercare un dottore. In quello schifo di paese, a stento avrebbe trovato un segaossa.

«Non ti muovere di qui», le disse, accennando ad allontanarsi.

«Aspetta... non voglio... morire... cough... Bill... non è finita... non è finita... vero...?», chiese con scarsa convinzione la bella Romina, intercettando il suo sguardo e cercando di carpire negli occhi di lui il proprio destino.

«Non è ancora finita, no», le rispose Bill, senza guardarla negli occhi.

Le rimaneva poco tempo, e lei fingeva di non saperlo.

«Stammi vicino... Bill… non voglio... crepare così… cough... ho tanto… piombo… in corpo… cough... non ce la farò… ma io... io... voglio vivere... cough... fino... a sessanta... anni...», aveva bisogno di parlare, ma neppure lei sapeva cosa dire.

«Solo sessanta? Torno subito, vado a prenderti qualcosa», Bill dovette quasi divincolarsi, prima di uscire dalla stanza.

Andò a ordinarle del cibo e a chiedere di far venire una governante esperta, per aiutarlo ad assisterla.

Al piano di sotto nessuno fece domande. Nemmeno lo sceriffo. Con cinque morti ammazzati a terra, nessuno a Hondo aveva voglia di fare domande a chi poteva saperne qualcosa.

Fra i tanti avventori rientrati nel saloon dopo la sparatoria, c’era un vecchio indiano apache, che se ne stava per i fatti suoi.

Forse eccitato dal sangue, uno spaccone di paese lo notò e gli si fece incontro: «Ehi, vecchio, che ci fai qui? Ti sei perso? Il tuo brutto muso rosso è troppo brutto da vicino… non ti basta quel pezzo di schifoso deserto che lo Stato chiama Riserva?».

L’anziano apache non rispose.

«Ti ho fatto una domanda, sporco muso rosso…!», gli ringhiò contro il bianco, ormai pronto a passare alle mani.

In quel momento Bill Watson ebbe un’idea. Quel vecchio forse non era un vagabondo. Si smosse dal bancone e si portò alle spalle dello spaccone: «Ehi, bianco! Dico a te!».

Appena l’attaccabrighe si voltò, Watson gli rifilò un cazzotto in faccia da stenderlo lungo a terra.

«Da dove vieni, fratello?», domandò quindi all’indiano.

«Da quello che rimane di mia terra».

A sud-ovest di Hondo c’era una Riserva Apache.

«Tu conosci la medicina, vero?», il pistolero cercava conferme.

«Ugh, fratello bianco».

Watson gli sussurrò all’orecchio: «Ho bisogno di te per una mia amica. Non può darti più di 500 dollari, però».

Lo stregone apache lo guardò stupito: «Chiedi quello che tu vuoi e io fare, ma Falco Grigio no usare carte verdi».

Quasi a conferma, il padrone del saloon gli servì un piatto senza prendergli denaro.

«Grazie anche per questo, straniero. Falco Grigio ha guarito mia figlia».

Watson risalì al piano superiore in compagnia dell'indiano e mostrò la donna all’apache.

«Bill... aiutami...», la messicana era in grande difficoltà; con gli occhi cercava di comunicare la sua disperazione e la sua urgenza all’uomo.

«Vecchio... aiutami tu...», insistette Romina, con la rabbia di chi non vede molto davanti a sé.

«Puoi aiutarla?», chiese Bill, tirando l’apache in disparte.

Lo stregone esitava.

Watson sbuffò, deluso.

«Squaw bianca essere forte come bestia.

Ma viaggiare verso celesti praterie...», disse sottovoce l’indiano.

«Come non detto, allora», replicò stizzito Bill Watson.

Falco Grigio comprese allora che la squaw era importante per l’uomo bianco.

«Ma se tu volere... io provare...».

«Allora prova, Falco Grigio. Tu conosci la medicina. Fai quello che puoi», e chinò il capo a scongiuro.

«Bill… Bill… prima di crepare… cough... voglio... il tuo cazzo…», insistette Romina, attirando l’attenzione su di sé.

Ma al posto di Bill si fece avanti lo stregone apache.

Fu così che il viaggio della squaw bianca verso le celesti praterie venne rimandato di ora in ora e di giorno in giorno.

Una settimana dopo, un carro trainato da quattro cavalli trasportava nella sua Riserva lo stregone apache Falco Grigio.

Distesa sul pianale di carico, viaggiava anche una squaw messicana di nome Romina, detta un tempo - nel paese di Hondo - la Sgualdrina di Franck.

Il carro era guidato da un viso pallido di nome Bill Watson.

Dopo quattro settimane, gli apache chiamavano la squaw: Incassa-Bene- Piombo.

E nessun popolo della Terra sceglie i nomi meglio di quello apache.

ADDIO CALIBRO 38

di Salvatore Conte (2024)

Layla aveva deciso di mollarlo.

Si era stancata.

L’avrebbe mollato e l’avrebbe fatto quella sera stessa.

Avrebbe aspettato Drake indossando una camicia ben attillata, bianca, con bottoni bianchi.

Il bianco rappresentava la rinascita dopo l’addio.

Quel bianco cercato invano in una vita troppo spesso infangata. Bastava poco per diventare preda dei desideri altrui e ci si poteva difendere solo se si era capaci di provare odio. Layla aveva imparato a odiare, per sua fortuna. In tante forme: da principio sfogava la sua rabbia senza controllarsi, poi si era fatta astuta e aveva appreso a inghiottire le sciocche pretese di quegli omuncoli che credevano, soltanto perché maschi, di essere superiori a lei e di avere potere su di lei. Il veleno ingerito si trasformava, all’occasione, in sorriso, gentilezza, sguardo carezzevole. Una difesa ben strutturata, che impediva a quei rozzi approcci di toccare la sua mente. E men che meno il suo cuore. Così, da stupido oggetto del desiderio, si era fatta donna, stabile e forte, dietro un viso da gran puttana; una donna perfetta in un corpo perfetto.

E quella sera, oltre a questo, vestiva di bianco: un camicione bianco a collo alto, importante, da donna prestigiosa, sbottonato fino allo stomaco.

Non era più una donna, ma l’incarnazione stessa del potere femminile. Difficile descriverla: le forme fiorivano nella camiciona come il vento di mare gonfia le vele e le rende imponenti. Forme tonde, potenti, massicce.

Per Drake non sarebbe stato facile incassare un colpo così duro: perdere la donna perfetta.

Layla versò da bere a entrambi. Non aveva ripensamenti. Il mondo le aveva dato ben poco. Lei invece aveva dato molto. Ed era libera di lasciare Drake, come tutto il resto del mondo, se soltanto lo voleva.

Layla non esitò oltre a comunicargli i suoi intendimenti.

Ma quella camicia bianca, importante e sapientemente sbottonata, non incoraggiò Drake ad affrontare il distacco.

L’uomo ascoltò in silenzio, serrando le mascelle.

Una smorfia di disgusto segnò il montare della rabbia; prima un rumore sordo dentro di sé, poi l’esplosione del furore.

Layla attese che sbollisse.

«Insomma che ti aspettavi? Il gioco è finito, Drake», lei non tornava indietro.

Lui diede in escandescenze.

«Niente da fare, Drake: non è affatto il caso che ti scaldi così. La decisione è presa», ribadì Layla.

«Tu non puoi farmi questo…», insistette lui.

«Io posso, eccome. E ora è tempo che tu vada…», Layla si alzò in piedi e si avvicinò alla porta.

Fu allora che Drake perse la testa.

Aveva con sé la sua pistola e l’avrebbe usata. Non sarebbe mai uscito da quella porta, se non quando l’avesse deciso lui.

Rimanendo seduto, estrasse il suo revolver calibro 38 e lo puntò contro di lei senza rivolgerle parola.

Layla non si fece intimorire: «Avanti, non fare lo sbruffone… abbassa quella pistola…», e accennò a tornare verso di lui.

BANG

Un proiettile calibro 38 la raggiunse al fegato. Barcollò all’indietro, portando d’istinto la mano destra sul buco. Con gli occhi esterrefatti, la ritrasse e rimase a osservare inorridita la chiazza vermiglia che si andava allargando sulla camicia bianca...

La mano tornò a comprimere la ferita, mentre il volto si spostava sull’uomo: «Ora basta, Drake… basta…!»

Ma l'uomo non sembrava soddisfatto di vederla ancora in piedi.

Uno sguardo gelido anticipò l’esplosione di un altro confetto calibro 38…

BANG

Layla venne colpita in pieno stomaco: un’espressione attonita si dipinse sul suo volto.

Barcollò ancora, sbattendo sulla credenza del soggiorno. Cominciò ad ansimare, portandosi entrambe le mani sulla nuova ferita. I seni importanti, a stento trattenuti dalla camiciona sbottonata, palpitavano impazziti.

Si rese conto che la situazione stava precipitando, che stava per rimanere uccisa proprio quando aveva deciso di ricominciare tutto.

Drake sapeva sparare e aveva dimostrato di volerla morta. Ora non poteva più fermarsi.

Gli rivolse uno sguardo languido, sforzandosi di rimanere in piedi: «Aspetta… Drake… dammi… una possibilità…».

«Volevi mollarmi, Layla. Ho dovuto farlo».

«Troviamo… una soluzione… ho tanti soldi...», insistette lei.

Drake ci stava pensando, ma soprattutto stava guardando.

L’occhio era fisso sulle zinne palpitanti.

Però ormai sembrava andata, era evidente, bastava guardare dove s’erano piazzate le sue pallottole e il sangue che stava perdendo. Presto avrebbe perso il controllo della situazione, sarebbe crollata a terra, moribonda. Il suo volto stava sbiancando. Forse sarebbe morta entro pochi minuti. Ormai ne era certo. E l’aveva uccisa lui.

Decise di darle corda, rimanendo comodamente seduto: «Dove tieni i soldi? Non mi hai mai parlato di tanti soldi…».

«Nel cassetto… ho delle mazzette...», Layla volse lo sguardo verso l’estremità opposta della credenza.

Sapeva di essere lenta e barcollante, e sapeva anche che lui avrebbe sospettato un colpo di coda.

Ma non aveva scelta. Doveva giocare l’ultima mano della partita anche con carte perdenti. Aspettare sarebbe stato inutile. Stava morendo e forse era già tardi per chiamare un’ambulanza. Lui, tanto, non glielo avrebbe mai permesso; avrebbe chiuso il conto con altro piombo: ormai ne era certa.

Layla pensava in fretta mentre si trascinava faticosamente lungo la credenza, puntellandosi con le braccia e facendo sponda contro il bordo.

Sapeva che difficilmente poteva evitare di incassare altre pallottole.

Era lenta e appannata, e Drake l’avrebbe anticipata. Ma lei non doveva mollare, doveva far fuoco a ogni costo. Doveva colpirlo al cuore o alla testa. Aveva bisogno di molta fortuna.

Mancava poco al cassetto dove lei custodiva un revolver sempre carico.

Ci credeva. Ci credeva ancora.

Per distrarre Drake dalle sue mani, Layla recitò, favorita dagli eventi, la parte della donna ansimante, scossa dalla paura, con i seni agonizzanti che pulsavano eccitati sotto la camiciona...

E l’uomo abboccò: «Mi dispiace, Layla... io non volevo… devi credermi...», il trucco stava funzionando, Drake stava cedendo al suo potente fascino.

Layla si sentiva pronta a eliminarlo. Era il momento giusto. Aveva ancora il controllo della situazione. Poteva vendicarsi e l’avrebbe fatto.

BANG

La smorfia soddisfatta di Layla mutò – in meno di un istante – in un’attonita espressione di terrore.

BANG

Aveva ricevuto un’altra calibro 38 in pancia.

Sussultò bruscamente senza per questo abbassare la pistola. La bocca si spalancò a dismisura. Gli occhi erano increduli e sgomenti, come quelli di chi viveva un terribile incubo senza poterne uscire.

Ma ritrovò subito la forza di sparare, mentre Drake era rimasto, impietrito, a fissarla.

BANG

Si ricordò che doveva colpirlo in fronte.

Ma ora le gambe non la sostenevano più. Finì sulle ginocchia senza nemmeno accorgersene.

Un attimo dopo si sentì spingere in avanti da una forza sconosciuta. Ebbe appena il tempo di attutire la caduta protendendo la mano.

Si ritrovò faccia a terra, con la testa vuota. Non capiva neppure perché si trovasse lì e cosa stesse facendo.

Layla alternava momenti di consapevole disperazione ad altri in cui si accontentava di riuscire a respirare.

Sebbene imbottita di piombo, riuscì a concepire, se non un piano, un’idea fatta a brandelli.

Resistere, strisciare, chiamare.

Con la mano intrisa di sangue, si protese in avanti, arrancando ventre a terra. Cercava di sostenere il faticoso movimento del corpo spingendo con le gambe. Aveva sangue in bocca e gli occhi faticavano a fissarsi su un qualsiasi obiettivo.

Stava per cedere.

Ma insistette.

Il telefono non era lontano.

Protese il braccio in avanti e cercò di guadagnare altri centimetri.

C’era quasi, doveva spingere con le gambe, doveva continuare.

Non poteva crepare proprio ora.

Allungò il braccio e protese la mano fino all'ultimo, ma la testa vuota di Layla si schiacciò sul pavimento a un metro dal telefono.

Dietro di lei una scia di sangue.

CRASH

Il rumore di una porta abbattuta.

Si sentì sollevare.

Non sapeva nemmeno se fosse vero, o frutto della sua agonia, oppure se fosse già morta, in viaggio verso qualcosa.

Vide occhi che la guardavano. Forse era riuscita a chiamare, forse stava morendo, forse era già morta, oppure nessuna di queste cose.

La curiosità dei vicini, a volte, è un vero salvavita. O quantomeno permette di illudersi.

L’ambulanza ripartì a grande velocità.

Trasportava una donna perfetta, imbottita di piombo, e le sue ultime illusioni.

Una come Layla non le avrebbe mai mollate.

MORTE ALL'OMBRA DEL FARAONE

di Salvatore Conte (2024)

L’avidità di Layla era senza limiti. Voleva tutto. Niente era mai troppo.

Tuttavia, avvicinata la soglia dei 50, cominciava anche lei a perdere colpi e a mostrare qualche magagna; malgrado ciò, però, Layla aveva sempre il vento in poppa.

E avrebbe schiacciato tutti gli altri.

Layla era ossessionata dall'antico Egitto, cercava il nesso tra potere e morte, ma senza perdersi in scartoffie da biblioteca.

Ora, infatti, era lì, in Egitto, nella tomba di un Faraone di cui neppure conosceva il nome. Stava per portare a termine il capolavoro della sua vita.

Senza dare prestigio al suo corpo femminile, però, non sarebbe andata da nessuna parte.

Un copricapo tradizionale con i colori dell'oro e della porpora, una camicetta bianca sbottonata aggressivamente e un'armilla d'oro al braccio per darsi importanza: era il look che aveva scelto per la sua missione in terra d’Egitto.

E adesso, entrata nella tomba, con il tesoro finalmente apparso sotto i suoi occhi, facile preda, nulla sembrava poterla fermare.

Layla, Robert e Paul si guardarono, divisi tra l’estasi dell’oro e il timore dato dalla sensazione che fosse tutto troppo facile.

Una goccia di sudore si perse fra i seni prestigiosi: il tesoro era suo, Robert e Paul erano solo delle comparse. Prima o poi se ne sarebbe sbarazzata.

In lei l’estasi dell’oro prevalse su ogni timore.

Fu in quel momento che Layla mosse il passo fatale, avida, febbrile, incapace di trattenersi.

Al primo passo ne seguirono altri, fino a quando non fu davanti all’antico basamento sul quale splendevano, sfidando millenni di polvere e oblio, numerosi oggetti d’oro, incastonati di gemme preziose.

Robert e Paul rimasero indietro. Nessuno dei due ebbe la prontezza di fermare Layla, oppure gli faceva comodo che fosse lei a esporsi.

La massiccia quarantottenne di origini libanesi era a non più di un metro dall’oro e tutto stava procedendo bene.

Quindi mosse un altro passo in avanti, ansiosa di poter finalmente abbrancare il tesoro.

SWOSHH

Fu in quel preciso momento che un dardo di bronzo saettò nell’aria fetida e si infisse profondo nel ventre della donna, trapassandola da parte a parte, nonostante la stazza di Layla.

Era il benvenuto agli inferi del Faraone. La aspettava da 6.000 anni.

L’urlo soffocato di Layla vagheggiò nell’aria. Entrambe le mani scattarono sull’addome trafitto, chiudendosi attorno all’asta di bronzo.

Un furore folle le invase il volto, mentre - ruotando su sé stessa - cercava disperata gli occhi dei compagni.

Paul si compiacque che la trappola fosse toccata a lei.

Robert era incredulo e rimase paralizzato a osservare i suoi movimenti, attendendosi il crollo.

Gli occhi di Layla si fissarono su di lui; i denti erano digrignati in un’espressione irreale. Gli stava chiedendo di aiutarla, ma lui non sapeva cosa fare.

Intanto Paul si era avvicinato all’oro, ripetendo i passi di Layla e schivandone la grossa sagoma.

Layla invece aveva dimenticato il tesoro e si sforzava di rimanere in piedi, cercando di trascinarsi verso Robert, barcollando in precario equilibrio, aggrappandosi proprio all’asta che la trafiggeva.

La sua figura era surreale.

Non più quella di una donna potente e invincibile, ma quella di una grossa mignotta giunta al capolinea.

L’asta era lunga oltre un metro, con un diametro che doveva sfiorare i due centimetri, ovvero più che sufficiente per ucciderla: lo sapevano loro, lo sapeva lei; la punta di bronzo protendeva dalla schiena di Layla; era una punta semplice, priva di uncinature, ma a parte questo si trattava di un proiettile micidiale, in grado di abbattere un rinoceronte.

Eppure Layla era ancora in piedi.

La libanese dalla volontà di ferro si era scontrata con un attrezzo degno di lei.

Robert era sbigottito. Non poteva credere che l’avessero fregata. Sembrava ancora aspettarsi una sua reazione.

Di tutto questo trasse vantaggio Paul, che senza curarsi del contesto, afferrò lesto quanto la sua borsa poteva contenere e si dileguò nell’ombra.

Robert non ebbe la forza di fermarlo. La sorte di Layla l’aveva gelato, non riusciva a distogliere lo sguardo da lei, che era rimasta come ad aspettarlo, barcollante sulle gambe divaricate e malferme. Un rivolo di sangue le era salito alla bocca.

Erano entrambi imbarazzati e paralizzati: lei avrebbe dovuto rassegnarsi alla sconfitta, ma non sapeva farlo, lui non osava né compatirla, né incoraggiarla.

Dall’espressione tesa e angosciata fissa negli occhi di Layla, si poteva intuire che lei cercasse di capire quanto tempo le rimanesse.

«Rob… ascoltami…», Layla ruppe gli indugi.

Robert, però, non riusciva a scuotersi.

«Devi tirarla fuori... dalla schiena... senza strappi… capito...?», l’ordine era chiaro, Layla era ancora sicura di sé, convinta di farcela anche questa volta.

Robert era perplesso. Forse era meglio per lei non muovere quel dardo, ma ormai era stanco della sua arroganza. Avrebbe eseguito il suo comando.

Fu in tal modo che Robert estrasse l'asta di bronzo dalla schiena della libanese.

La fece piegare in avanti, poi afferrò il dardo e lo tirò fuori, con un movimento secco e regolare, senza strappi, sforzandosi di non avere esitazioni.

«ARGHH…!».

L’asta era fuori.

Robert si ritrasse, stremato dall’orrore, e gettò a terra il macabro arnese impregnato delle budella di Layla. Un clangore metallico echeggiò sinistro nel silenzio tombale.

Dopo il grido di dolore e di sollievo, la bella avventuriera era rimasta con la bocca spalancata in tutta la sua ampiezza, mentre entrambe le mani si premevano a tutta forza contro la ferita, nel vano tentativo di arginare il flusso sanguigno; Robert le tamponò la piaga con un fazzoletto, cercando di sostenerla.

Layla rimase in piedi ancora per qualche istante, con lo sguardo torvo e inquietante di chi non sapeva adattarsi alla propria situazione.

Crollò sulle ginocchia senza nemmeno accorgersene, manifestando il suo disappunto con una smorfia di delusione. Aveva disceso un altro gradino verso l’inferno. E lo sapeva.

Un dolore fitto la fece piegare in avanti.

«Robert…», Layla invocò il compagno con un accento di rassegnata disperazione nella voce.

Robert era lì, ma non sapeva cosa fare.

La libanese lo fissò da terra, con sguardo freddo, spietato: «Paul... ci ha tradito… uccidilo… e prendi l’oro…

Io... io... ti aspetterò qui…».

Dunque non si era affatto dimenticata del tesoro.

Avida com’era, nonostante il grosso buco che le si apriva nella pancia e nella schiena, l'imponente libanese si preoccupava di far suo un carico d'oro che ormai, con ogni probabilità, non le sarebbe servito a niente.

«Layla, io devo portarti fuori da qui. Poi studieremo la situazione», le rispose Robert.

Senza attendere approvazioni, considerò i punti di presa più propizi; aveva paura di sbagliare qualcosa, era imbarazzato a toccarla in quelle condizioni, ma vinse le sue paure e la sollevò fra le braccia con grande sforzo, ripercorrendo con lei gli oscuri cunicoli della tomba.

Ormai stremato, l'uomo varcò a ritroso l’ingresso della tomba ipogea e subito dopo dispose Layla a terra, mettendola seduta contro il tronco di una palma.

Le asciugò il sudore che dal collo si incuneava nel petto. La mano dell'uomo indugiò tremante sulle zinne morenti...

Gli sguardi si incrociarono imbarazzati.

Lei era sempre più in difficoltà. Sapeva di non avere molto tempo.

«Io... voglio essere imbalsamata... come la moglie... di un faraone...

Tornerò a farmi viva... Robert...».

«Va bene...», rispose imbarazzato Robert. «Ti porterò dalla vecchia».

Nell'oasi abitava infatti un'anziana imbalsamatrice, abbastanza nota nel giro degli archeologi clandestini; era anche una guaritrice, a seconda dell'occorrenza e delle circostanze.

Rimaneva però un grosso problema: Paul aveva di sicuro portato via la jeep.

D'altra parte non ricordava di aver sentito il rumore del veicolo.

Ma era talmente confuso da non poter più giurare su niente.

Non gli rimaneva che controllare.

Senza perdere altro tempo, scattò in quella direzione.

Quando vide la jeep, strabuzzò gli occhi.

Estrasse la pistola e si avvicinò guardingo.

Infine, lo vide.

Vide Paul a terra, accanto al veicolo. Lo scalciò, ma non restituì segni di vita.

Era andato. Aveva bava alla bocca. Un infarto o un avvelenamento. E la borsa dell’oro era sul sedile. Lo sportello era aperto.

Robert rimase guardingo.

Qualcosa non tornava.

Girò intorno al veicolo, cercando di trovare un indizio su ciò che era successo.

Quanto ritornò verso il corpo di Paul, ottenne una confessione completa.

Un grosso serpente si allontanava sinistramente dall'abitacolo della jeep, allungandosi per non meno di tre metri.

Lo strano caso era dunque risolto.

Un brivido, però, gli percorse la spina dorsale, offuscando l'euforia per aver ritrovato il fuoristrada e lo stesso oro.

Era stato solo un incidente del destino, o qualcosa di molto più inquietante?

Layla portava al braccio una vipera d'oro.

"Uccidilo", gli aveva ordinato poco prima.

Lasciò stare le congetture e si concentrò su quello che doveva fare.

Paradossalmente aveva la jeep ed era rimasto solo con l'oro.

Chiunque altro al posto suo se ne sarebbe andato via immediatamente.

Poteva mettere in moto e andarsene. Ricco sfondato.

Ma c’era ancora Layla…

Valeva la pena di rischiare per lei?

Non era affatto da escludere che fosse già morta.

In realtà Robert era subito tornato alla tomba, perché non aveva esitato un attimo.

Cercò con gli occhi la libanese: aveva cambiato posizione. Non era più seduta contro la palma, ma giaceva supina a terra, con le gambe disarticolate.

Forse la morte l’aveva sorpresa così, oppure era vittima degli spasmi dell’agonia.

Cercando di mantenere la calma, si avvicinò alla donna.

La potente libanese era viva, ma durante la sua assenza la situazione era precipitata.

Le sollevò il capo e cercò di parlarle: «Layla… Layla… mi dispiace… ma almeno Paul è morto e ho ritrovato l'oro...».

Layla avrebbe voluto rispondere qualcosa, ma il fiato non saliva alla gola. Il petto si sollevava appena.

Il tessuto della camicetta, imbevuto di sangue, aderiva alle forme grasse del ventre come una seconda pelle, disegnando i contorni di un tormento in estenuazione: il pulsare irrequieto e irregolare delle budella strette nella morsa dell'agonia fatale.

«Ti porto dalla vecchia, va bene?».

«Non ce n'è bisogno», rispose una voce senile alle spalle dell'uomo.

Robert si voltò di scatto: una figura femminile, grossa e formosa a dispetto dell'età importante, con addosso una tunica rossiccia ampiamente sbottonata e un tradizionale fez sul capo, stava dritta in piedi a pochi passi da lui.

L'uomo era esterrefatto: che diavoleria era mai questa?

Le sorprese non mancavano, all’ombra del Faraone.

Senza curarsi di lui, l’anziana donna si avvicinò a Layla e si distese sopra di lei, coprendola interamente con il proprio corpo, ancora massiccio.

Robert la lasciò fare: non sembrava una minaccia e in ogni caso la potente libanese era ormai in fin di vita, senza contare che lei stessa aveva chiesto di rivolgersi alla vecchia.

L’anziana pronunciò strane parole, incomprensibili a Robert.

E le mise in bocca qualcosa.

Poi lasciò il corpo di Layla, tornando in posizione eretta.

«È finita, vero?

Mi ha chiesto di farla imbalsamare e di rivolgermi a te».

«Costerà molto oro. Se vuoi un lavoro fatto bene. Ti interessa questa donna?».

«Oro? Che oro? Che cazzo stai dicendo?», quella vecchia lo stava innervosendo. Ma tanto era inutile cercare di nasconderle qualcosa. Ormai l'aveva capito. «La preferivo da viva, ma in ogni caso voglio soddisfare il suo ultimo desiderio.

Dovrai fare un lavoro degno della moglie di un faraone».

«Porta Layla a casa mia. Il mio nome è Anaka. Senza perdere tempo».

E senza attendere risposte, si diresse verso la jeep e vi prese posto, accomodandosi sul sedile posteriore.

Robert era sconcertato, ma ormai bisognava andare fino in fondo.

Sollevò ancora una volta il corpo esanime, trasportandolo fino alla jeep, e lo sistemò sul sedile anteriore del fuoristrada, allacciandolo alla cintura di sicurezza, per farlo stare dritto.

Prima di ripartire, Robert provò il desiderio di toccarla, le sfiorò le labbra e i fianchi, mentre ne fissava lo sguardo sbarrato, perso lontano, nel vuoto.

Per quanto cruda, quella vista smarrita era il suo ultimo contatto con lei, ed era per questo motivo che non le aveva chiuso gli occhi.

Robert sembrava ipnotizzato. Si ritrovò a tastarle il seno e a tamponarle inutilmente la fatale ferita aperta nel ventre.

L’uomo si separò a fatica dal corpo della donna e si pose alla guida.

La casupola della vecchia si trovava isolata ai margini dell’antica oasi, quasi lambita dall’infuocato deserto.

«Prendi il corpo di Layla e portalo dentro, ma non trattarlo come fosse un cadavere qualsiasi».

L’anziana non attese risposte e precedette l’uomo all’interno dell'abitazione.

Robert rimase da solo, con il corpo di Layla accanto.

Il cuore gli pulsava veloce.

Si ritrovò a inseguire gli occhi vitrei della donna, nelle siderali distanze in cui s’erano smarriti.

Quasi non si accorse che era tornato sopra di lei e le stava palpeggiando il seno, con la fottuta paura di sentirlo immobile, di ricevere conferma che fosse rimasta uccisa dal dardo e caricata cadavere sulla jeep; si impegnò lo stesso nel tamponarle la mortale ferita, come fosse ancora importante farlo.

«Layla… sei fatta… mi dispiace... ma l'avevi capito... eri troppo stronza per non capirlo...», mormorò trasognato l'uomo, catturato dagli occhi languidi della donna.

Alla fine si scosse e portò dentro il corpo.

Il cadavere era ancora caldo.

La vecchia gli mostrò il letto ove andava deposto.

Poi accese tre bracieri e da ognuno si librò nell’aria un vapore di colore diverso.

«Se vuoi andartene con il corpo di Layla, devi lasciarmi la metà dell’oro che avete razziato. Sarà sepolto vicino alla mia casa. Nessuno lo dovrà mai possedere. Appartiene al faraone», disse seria l’anziana.

Robert lanciò uno sguardo verso il cadavere della libanese.

Gli sembrò che quegli occhi, benché sbarrati, lo chiamassero. Si avvicinò e si sedette sul letto. Con la mano percorse il seno, fino a toccarle il collo e la bocca. Neanche lui sapeva cosa stesse cercando. Le sfiorò ancora le labbra, ma ne defluì un sinistro rivolo di sangue. Le tamponò la ferita al ventre con l'altra mano, usando forza, e un nuovo rivolo di sangue le fuoriuscì dal labbro: il sangue era risalito dalle interiora alla bocca.

La guardò ancora, dal fondo del letto: «Sembra addormentata… sospesa nel vuoto… eppure si è fatta fregare…», mormorò quasi involontariamente, tuttora incredulo.

«Tu ti sei fatto fregare, Robert.

Il sonno è l’immagine della morte, non lo sai?

Nel sonno che somiglia alla morte, non vi è nulla a sorreggere chi muore.

Mi hai compreso, uomo?».

Robert era confuso.

Andò a prendere l'oro.

Anaka staccò l'armilla dal braccio di Layla.

«Aggiungila al tesoro».

E lo mandò subito a seppellirlo, a dodici palme di distanza dalla casa, in direzione del mezzogiorno.

Quando rientrò nell’abitazione, vide l’anziana intenta a declamare formule con le braccia tese verso il corpo di Layla.

«Presto eseguirò l'imbalsamazione.

Ma intanto siedi accanto a lei e attendi la risposta del Faraone», ordinò perentoria, prima di uscire dalla casa.

Dopo alcuni minuti, Robert si lanciò fuori gridando: «Signora…! Anaka! Dove siete? L'imbalsamazione può attendere!

Layla vi chiama!

Layla!

Layla!».

Le sue parole si propagarono nell’antica oasi, ma l’eco ne restituì una sola.

Layla...

UNA PALLOTTOLA PER LAYLA

di Salvatore Conte (2024)

           

Era appena rientrata a casa.

Indossava ancora la sua camicetta bianca, sbottonata aggressivamente fin sotto lo stomaco, con cui si sbatteva in giro durante il giorno.

Salì al piano superiore, nell’ampio salotto, lasciò la borsetta sul mobiletto e si guardò allo specchio, in una luce soffusa: le piaceva rimirarsi il corpo possente.

Un tempo molto bella, ora poteva definirsi piacente; con qualcosa in più di quand’era più giovane e molto bella.

Le forme abbondanti, il seno generoso, il sorriso largo e gli occhi sensuali la rendevano molto desiderabile.

Con la mano si lisciò il petto, accompagnando le curve fino ai fianchi pesanti, fermandosi a guardare, compiaciuta, l’immagine riflessa nello specchio.

Doveva dimagrire, era vero. Il solito impegno che non aveva mai messo in atto.

D’altronde, piaceva così com’era, lo sapeva, piaceva anche se la pancia prominente la rendeva tozza. Anche se le cosce grassocce si attaccavano una contro l'altra.

Lei compensava tutto con la camicia sbottonata in profondità e il sorriso allegro da bagascia. Layla era una grossa mignottona: amava il pisello, in tutte le sue forme, ma non l'uomo.

Si ravvivò i capelli con le mani, lentamente, con fare sapiente, rimanendo a guardarsi nello specchio. Era il gesto che conquistava, il segnale della disponibilità, anche se nell’ultimo periodo si era data una calmata, perché piaceva a Wil e poteva esserle utile.

Era da tempo ormai che Layla aveva spezzato la routine della sua anonima vita da impiegata con un genere di affari molto pericoloso. Era entrata in un giro sempre più grosso e ora cominciava ad avere paura. Ma non poteva dire di avere rimpianti, se guardava al suo passato. E questo l’aiutava a sopportare il presente.

Era in fuga da una vita. Fuggita dal Libano, assieme alla famiglia, era finita a New York, sposa di un certo Abdel, commerciante di animali esotici. Il matrimonio era durato due anni. Anche troppo visto che niente li univa, se si escludeva la terra di nascita.

Per lei era iniziato un periodo di vagabondaggio, che si era concluso a Phoenix, in Arizona, dove aveva trovato un lavoro presso una grande azienda di pannelli solari. Credeva di aver trovato un posto tranquillo, ma la sua assunzione era stata pilotata per orientarla verso altro. All’inizio solo compiti di informazione, poi consegne e attività sempre più azzardate, che Layla eseguiva sulla propria pelle, giocandosela a carte con la Morte.

Forse era anche per questo che nello specchio si vedeva come la Donna di picche.

   

Nella sua quotidiana partita a carte scoperte, o quantomeno sbottonate, Layla non nascondeva nulla del proprio corpo, tutto in evidenza con qualche trucco, come quello di indossare camicioni enormi, che la rendevano per certi versi informe, ma proprio per questo ancora più appetitosa. La morbida pelle ambrata, tipica di una bella donna libanese, il collo corto che le conferiva forza e l’attaccatura del seno bene in vista facevano sospirare uomini e donne.

Uno stridio di gomme sotto casa la distolse dallo specchio. Si mosse verso la porta-finestra che dava sul balcone. Il suo corpo massiccio si stagliava nella semiombra del salotto. Fu una mossa imprudente.

ZING

Si udì un sibilo sinistro. Il proiettile raggiunse Layla in pieno stomaco.

La libanese barcollò all’indietro fino a sprofondare sul divano, assumendo una postura goffa e contorta.

Incredula, abbassò gli occhi sullo stomaco e - inorridita - si portò entrambe le mani a coprire lo scempio.

Layla annusò un odore di morte attorno a lei. Era finita?

La suoneria del cellulare la scosse. Era rimasto nella borsetta, sul mobiletto dei liquori. Chi era? Chi poteva essere? Il suo assassino? Oppure Wil? Con lui si stava frequentando da non molto tempo, dopo che i rischi erano aumentati sempre di più. Non poteva ancora fidarsi, ma aveva sentito il bisogno di alleati e Wil era quanto di meglio fosse riuscita a lavorarsi finora.

Layla non poteva commiserarsi: la sua bella casa con giardino stava a testimoniare che i soldi non le mancavano. Ma ora, tutto quello che aveva conquistato facendo la doppia e tripla vita, senza scrupoli, senza pentimenti, le presentava il conto.

Prostrata sul divano, cercava di capire come fare per arrivare al mobiletto. Si lasciò scivolare a terra, finì con la faccia schiacciata contro il tappeto.

La bocca era spalancata per l’ansia, lo sguardo incerto e sbarrato dalla paura. Per un attimo sembrò che dovesse rimanere così per sempre.

Rompendo quell’attimo, con un lungo, disperato gemito, Layla prese a trascinarsi pancia a terra verso il mobiletto dei liquori, sopra al quale continuava a suonare il telefono cellulare.

Forse era Wil, forse era lui, Layla provava a crederci.

Continuò ad allungarsi verso il cellulare, irrigidendo le gambe per sospingersi in avanti.

Sembrava una grossa anguilla ormai a secco che si allungava lenta e pesante verso un’impossibile salvezza.

Ma c’era quasi… c’era riuscita… al telefono c’era arrivata…

Rovesciò a terra la borsetta e afferrò l’apparecchio con la mano intrisa di sangue.

«Uhh...».

«Layla… sei tu? Che succede?», era la voce di Wil.

«Wil... sto crepando…».

«Ma che cazzo dici…?».

«Vieni subito… fai presto… erghh...», un attimo dopo la testa della libanese si schiacciò sul pavimento, con gli occhi ritorti verso il soffitto.

Sentì la bocca impastarsi di sangue. Era il segno che stava morendo, lo sapeva ormai.

Chi l’aveva uccisa? Da chi s’era fatta fregare?

Abdel...

Era stato un matrimonio combinato, lo sapevano. Ma quello stupido pretendeva che lei fosse moglie a tutti gli effetti, esigeva i diritti tirannici del marito. Lei aveva iniziato a disprezzarlo e a non risparmiargli il suo rancore, finché, esasperato, aveva acconsentito al divorzio.

Tuttavia, aveva continuato a cercarla, perché una come lei non si trovava più.

E benché fosse un fallito e un perdente, era riuscito a rintracciarla in tutti i posti dov’era andata a finire.

Abdel, però, non aveva mai imparato a sparare ed era troppo vigliacco per uccidere, lo sapeva per esperienza. Avrebbe ucciso soltanto in un accesso d’ira, a calci e pugni, al più con un coltellaccio, mai con un atto pulito e meditato.

Abdel era da scartare. Doveva essere qualcuno del giro.

Intanto Wil era già nei pressi. Non era lontano quando l’aveva chiamata. Voleva chiederle di uscire, come stavano facendo da un po’ di tempo, e confidava in un assenso.

Lasciò l’auto a breve distanza e si avvicinò a piedi, senza dare nell’occhio. Il vicinato era tranquillo. Giunto sotto al balcone di Layla, notò - con occhio esperto - il caratteristico foro di un proiettile nella vetrata.

Un foro netto e incrinature concentriche.

Decise di entrare da lì, issandosi furtivo lungo il tubo di scolo.

Prima di forzare la porta-finestra, guardò dentro: nella penombra del salotto, vide Layla a terra, una lunga scia di sangue dietro di lei, dal tappeto persiano fino al mobiletto dei liquori. L’avevano fregata!

Entrò nella stanza e si piegò su di lei, voltandola supina: il braccio si allargò inerte dal fianco, rivelando una tremenda ferita d’arma da fuoco in pieno stomaco; una ferita di grosso calibro, che non le lasciava scampo.

Non era stato un avvertimento, ma un’esecuzione.

La libanese si era ficcata in qualche grosso guaio.

Attraverso la fitta nebbia che la circondava, Layla si rese conto che Wil era arrivato e il suo istinto di conservazione ebbe immediatamente il sopravvento: iniziò ad agitarsi e a muovere le gambe come a fargli capire che era ancora viva, così viva e vitale da protendere il petto verso di lui, quasi a volerlo sedurre. Non dimenticava certo di essere una grossa mignotta.

Wil allungò il braccio per afferrare dal mobile una bottiglia di whisky.

Le labbra scomposte di Layla trangugiarono un po’ d’alcool, il resto colò giù dal mento fino a spargersi sul petto ansante. Un debole colore tornò a dipingere il volto dell'importante donna, gli occhi cercarono di posarsi su quelli di Wil, mentre questi le tamponava la ferita con un fazzoletto.

«Wil… aiutami…».

Lui preferì cambiar discorso: «Chi è stato? Gliela farò pagare…».

«Prima… un dottore… fai presto… non voglio… lasciarci… la pelle… ohh...», la Donna di picche si giocava le ultime carte.

«L’ordine di fotterti è venuto dall’alto, Layla.

E tu conosci le regole: se mi metto dalla tua parte, farò la tua stessa fine».

Lo sapeva, non poteva fidarsi di quello stronzo. Un’ondata di panico la travolse.

«Fanculo Wil… lasciami crepare… fanculo…», imprecò risentita.

L’importante era che avesse capito. Wil le sistemò un cuscino sotto la testa e l’aiutò a premersi una mano sulla ferita, sopra al suo fazzoletto.

Quindi si affondò nel divano come a prendersi una pausa. Era il suo stile. In ogni circostanza. Un bell’uomo, alto, asciutto, di poche parole: nessuno sapeva con esattezza chi fosse. Si prendeva molta cura di evitare intromissioni nella sua vita. Layla era stata un’eccezione. Doverosa.

La libanese lo guardava rabbiosa da terra, con il sangue alla bocca.

Ma conosceva le regole del gioco. Non poteva aspettarsi niente di diverso.

«Sei sempre la migliore, lo sai, Layla?», disse con tono impenetrabile l’uomo.

«Fanculo... Wil…», Layla non si trovava nelle condizioni di scherzare.

Aveva un debole per lei, ma a cosa sarebbe servito illuderla?

Solo a mettere nei guai lui. Lei sarebbe morta e l’avrebbe lasciato solo, in mezzo ai guai.

Decise di parlarle, sporgendosi dal divano.

«Layla, so che una donna come te non la trovo più, ma ho paura che nessuno possa aiutarti, mi dispiace», parlò tutto d’un fiato, cercando di rimanere controllato.

Se Layla avesse potuto sorridere, lo avrebbe fatto, ma era troppo sgomenta per ridere di quello stronzo di Wil.

Lo aveva frequentato solo perché poteva fargli comodo.

Ma ora si stava rendendo conto che i suoi calcoli erano sbagliati.

Con le unghie della mano prese a raschiare il pavimento: era un moto di rabbia e disperazione; e l’ultimo richiamo per Wil.

Il fisico solido e ostinato e la sete di vendetta la tenevano in vita.

I loro sguardi si incrociarono.

A Wil sembrò che il divano fosse divenuto scomodissimo. Fu spinto ad alzarsi.

La raccolse da terra e la distese dov’era seduto un attimo prima, con la testa sotto il bracciolo e le gambe sollevate sopra gli schienali abbattuti e impilati, allo scopo di farle arrivare sangue al cuore; le asciugò la bocca e le smosse i capelli.

Uno spasmo la fece sussultare. Si irrigidì, cercando di controllare la crisi.

«Layla…», la mano di Wil si strinse sul lembo della camicetta, nell’istintivo gesto di strapparla al suo destino.

La libanese lo fissava con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati di paura.

«Fanculo Layla…», Wil lasciò la presa e la donna si afflosciò sul divano.

Era deluso: la grossa zoccola non lo seguiva, stava crepando da stupida, la ferita era fatale.

Wil scosse la testa. Non capiva cosa potesse aver fatto Layla per meritarsi di essere eliminata così.

La mignottona non gli raccontava tutto, evidentemente.

Ebbe l’impulso di abbandonarla alla sua sorte e andarsene.

La guardò, commiserandola. Stava crepando come una puttana qualsiasi, sventrata nei bassifondi della città.

Lei capì tutto, non era nessuno sulla faccia della terra, nonostante le zinne sbottonate; lo afferrò in un abbraccio disperato, cercando di dimostrargli di avere ancora il controllo: «Non voglio... crepare... non... voglio… crepare…», lo ripeté convinta, affinché Wil se ne persuadesse una volta per tutte.

«Sì, lo so, Layla. Nessuno vuole morire. Ma ora cerca di calmarti, okay?

Ascoltami bene... fanculo le regole.

Ti faccio sistemare questo buco e ci mettiamo insieme.

Che ne dici? Ci stai?».

Wil aveva capito che non poteva lasciarla morire così, anche se era un gioco dannatamente pericoloso, soprattutto per lui, che aveva molto ancora da perdere.

«Ci sto… io... io... non mi faccio... fottere…», rispose esaltata la grossa zozzona, sputando bava dalla bocca.

La decisione era presa, dunque.

Poche parole in linguaggio convenzionale furono sufficienti.

L’avrebbe portata dal Dottor Jenkins, il medico della Mala.

«L’ambulanza sta per arrivare, Layla.

Non rischierei la mia vita per salvare una puttana», fu la risposta agli occhi di lei.

Anche fra delinquenti c’era una zona franca ed era quella: la clinica privata del Dottor Jenkins, dove nessuno faceva domande, inclusa la Polizia, foraggiata a dovere per starsene alla larga.

Gli sarebbe costato un mucchio di dollari, ma per quale altra donna avrebbe dovuto spenderli?

In pochi minuti la libanese fu intubata e stabilizzata.

L’ambulanza ripartì a forte velocità.

Layla rimase cosciente finché non si sentì sistemata e vide salire Wil; poi si lasciò andare al sonno, certa di esistere, di essere qualcuno sulla terra.

CADUTA E ASCESA DI FINA

di Salvatore Conte (2024)

     

     

     

     

La potente Fina - ignara del proprio destino - era ormai completamente impazzita: la sua follia erotica aveva superato ogni limite.

Stava per essere stroncata e ancora non l'aveva capito.

Sarebbe rimasta uccisa, senza scampo, nonostante la sua incredibile  esuberanza e disperata voglia di vivere.

     

     

««Ohh…!»», esclamazioni di stupore si levarono nella sala.

Gli occhi della Regina erano rimasti spalancati in un’espressione carica di orrore allo stato puro: un abisso si era aperto sotto il suo trono e Fina poteva leggerne l’infernale oscurità negli occhi attoniti dei presenti.

Gli occhi della donna si abbassarono, infine, increduli e sconcertati, sulla spada che l’aveva trafitta e inchiodata al trono tanto agognato.

Stava perdendo tutto, il suo regno era durato lo spazio di un banchetto: il dolore più immediato era questo, il gelo mortifero dalla lama era diluito nel vino.

Fina voleva parlare prima di uscire dalla scena, ma dovette faticare non poco per dare fiato alle sue parole, fra il sangue che le saliva alla bocca e le colava dal labbro, annunciando la sua fine ai presenti e partecipando a lei stessa l’amaro sapore della morte: «Come hai… potuto…», disse infine, nel silenzio generale carico di attesa, indirizzandosi a Irina, che era rimasta impassibile a guardarla.

«Maledetta… tu mi piacevi… noi due… potevamo… fare… grandi cose…», ogni parola era sofferta. «Pagherai caro… tutto quanto…. anche tu… Hiras… maledetti…».

Fina rimase superba fino all’ultimo. Non chiese aiuto. Non cercò di commuovere nessuno degli astanti verso la sua terribile sorte.

Con gli occhi dilatati, fissi, ormai incapaci di vedere, e la bocca vanamente spalancata, cercava di rimanere aggrappata alla vita, pur sapendo di non poter sfuggire al proprio destino.

La testa stava per caderle sul petto, ma raccolse le forze e rialzò la fronte.

«Nessuno… può… fermarmi…».

La vana sofferenza di Fina e la sua delirante ostinazione, sembrarono scuotere per un attimo la dura maschera di Irina, che fu indotta a muovere alcuni passi verso la morente.

La testa di Fina tornò a oscillare, sembrava sul punto di afflosciarsi in avanti.

Ancora una volta, però, la donna riuscì a reagire e a raccogliere forze residue.

Irina l’aveva quasi raggiunta.

Per un attimo ebbe l’impulso di sostenerla.

«Io… sono… ancora… la… la…», la Regina non riuscì a completare la frase: il volto assunse un’espressione di crescente orrore e un fiotto di sangue uscì dalla bocca al posto della parola mancante.

L’amazzone non le aveva lasciato scampo. Era chiaro a tutti presenti.

Irina le afferrò la mano, spinta a compassione, sotto gli occhi di Hiras.

Fina boccheggiò ansante per qualche secondo, mentre i meravigliosi occhi chiari vagavano sbigottiti da una parte all’altra del salone, cercando di intercettare uno sguardo di buon auspicio, nella poca luce che rimaneva loro, senza però trovarne nessuno.

Si accorse della presenza di Irina al suo capezzale, strinse la sua mano, ma non le diede la soddisfazione di incontrare i suoi occhi.

La testa, sempre più pesante, era sul punto di flettersi, ma Fina, con penoso sforzo, stringendo forte la mano di Irina, riuscì a risollevarla ancora una volta.

L’amazzone avrebbe potuto precipitarne la fine, semplicemente estraendo la lama dal petto, ma rispettò l’estrema volontà di Fina, che si stava struggendo per rimanere aggrappata alle ultime forze.

Un’atmosfera di fatalistica attesa impregnava la sala.

A nessuno venne in mente di chiamare un medico.

Eppure la Regina respirava ancora.

Soltanto in ultimo, sentendosi definitivamente perduta, Fina lanciò uno sguardo disperato a Irina, vincendo il proprio orgoglio.

L’amazzone ne fu colpita come da una pugnalata.

Ma era troppo tardi per entrambe: dopo una convulsa catena di gemiti e sospiri, seguendo un rantolo soffocato, il capo della Regina si afflosciò sul petto.

La mano non stringeva più. Irina insistette, ma la mano di Fina non stringeva più. Appena la lasciò andare, cadde inerte sul grembo, accanto all’altra.

Pagava la smania di potere.

Un brusio inquieto serpeggiò nella sala. Aveva mollato.

«La Regina è morta», esclamò Hiras.

Un giovane curioso si avvicinò al trono e sollevò la testa della donna, afferrandola per i capelli: due occhi sbarrati, fissanti il nulla, furono una vista più che eloquente.

Quando la mano del giovane abbandonò incurante il capo della donna, la testa della Regina tornò ad afflosciarsi sul petto.

«Ti lascio la mia spada, Fina. Portala con te all’inferno», esclamò Irina.

Subito la fama si involò per la città e le vaste contrade: Fina era stata colpita a morte e detronizzata.

L’attenzione dei convitati venne dirottata su Kuri, il figlio di Fina, che Hiras e Irina avevano ritrovato e condotto con sé per sostituirlo alla madre.

Kuri diventava, da quel momento, per acclamazione generale, il nuovo Patesi, nonostante la giovane età, in forza del sangue di sua madre Regina.

Il ragazzo fu omaggiato da tutti i presenti: chi vince ha sempre ragione, chi perde è dimenticato in fretta.

Il figlio di Fina, benché la odiasse, non riuscì a sopprimere un folgorante rimpianto nel vedere il corpo esanime della madre, imbrattato di sangue e brutalmente impalato da una lama; ma non ebbe la possibilità di avvicinarsi, perché fu portato fuori in trionfo, a raccogliere l’abbraccio dei sudditi che si ammassavano intorno al palazzo reale.

Tutti lo seguirono. Nella sala rimase soltanto il muto corpo di Fina, vanamente seduto sul trono, con la spada di Irina ancora infissa nel petto.

Nessuno si era preoccupato di rimuovere, anche simbolicamente, la Regina dal trono.

Un servo zelante afferrò la questione.

Il trono doveva essere ripulito al più presto, pronto per il nuovo Patesi.

Fu chiamata una lettiga.

Mentre dall’esterno del palazzo giungeva l’eco dei festeggiamenti, i due servi designati stavano per occuparsi del cadavere della Regina.

Per prima cosa, c’era la spada da estrarre.

«Io sollevo la testa e tu tiri forte», la fronte quasi toccava la lama, infatti.

Uno dei due sollevò il capo della donna, con grande delicatezza, quasi a non disturbarla da un sonno profondo: due occhi spenti e tristi, come quelli di un pesce sfiatato sulla sabbia arsa dal sole, sembrarono dirigersi su di lui, fissandolo.

L’uomo ebbe un sussulto e lasciò andare la testa, che tornò a piegarsi sul petto.

«È morta, non ti preoccupare», lo tranquillizzò il compagno.

L’altro riprese un po’ d’animo e sollevò di nuovo la testa, senza guardarla negli occhi; il compagno estrasse la spada con un movimento secco ed esperto, deponendo l’arma su una mensola attigua; il corpo, disincagliato dallo schienale, franò in avanti, a stento trattenuto dalle braccia del servo; in quel momento sembrò rilasciare un grugnito soffocato.

Il servo guardò il compagno con aria interrogativa.

«È morta, è morta. Vuoi lasciarla lì per caso?», lo fissò irritato. «Su, aiutami…».

Il corpo fu caricato sulla lettiga e coperto fino al collo da un drappo.

Quando la Regina sfilò esanime lungo il salone, con i suoi occhi fissi e increduli, i servi presenti ne furono raggelati: lo sguardo sbarrato tratteneva impresso il momento della fatale sorpresa, un braccio cadeva a penzoloni dalla barella.

Fu lasciata sopra la lettiga, in una saletta attigua, esposta su un basamento di pietra: in fondo era stata Regina, anche se per poco.

Non mancarono i giovani che accorsero pietosi, da tutta la città, per vederla.

La sua bellezza continuava a sedurli, anche nella trance della morte.

Volevano sapere perché fosse rimasta uccisa, volevano vedere le ferite di cui era morta.

«Una sola ferita, ma fatale», spiegò uno dei barellieri. «Io stesso ho estratto la spada che l’ha freddata», disse ancora, con inopportuna ostentazione.

«Vogliamo vedere la ferita fatale, Fina era la nostra Regina…», pretese uno dei giovani.

Il drappo fu sollevato e rivelò la spietata piaga. Il sangue si era ormai coagulato.

««Ohh…»», una sommessa esclamazione accomunò i presenti.

Uno di loro, particolarmente pietoso, si avvicinò alla salma per chiuderne gli occhi.

«Non meritava questa fine», disse, ritraendosi.

Un altro si avvicinò: «Era bellissima… e lo è ancora… bellissima…

Ma non le hai chiuso gli occhi…?».

Quasi contemporaneamente un rantolo sordo sembrò vagheggiare nell’aria immobile.

«È il petto che rilascia aria», disse il barelliere.

Ma gli occhi erano di nuovo aperti.

Tutti si avvicinarono con un solo movimento. Tutti intorno al corpo di Fina, fra eccitazione e incredulità.

«La mano… guardate! Si è mossa… forse cerca un sostegno…».

«Se muove la mano, potrebbe non essere morta…», suggerì uno, forse un lontano antenato di Jacques de la Palisse.

«Presto! Dobbiamo chiamare il Sacerdote Nero. Solo lui può aiutarla, se è ancora viva. Ma non verrà a palazzo, ne è escluso da tempo…

Svelti, allora, copriamola con il lenzuolo e portiamola via…».

Detto-fatto, i giovani si disposero intorno alla barella, così da occultarla ai curiosi. Tutto il resto della città partecipava al trionfo di Kuri.

Giunti al Tempio amministrato dal Sacerdote Nero, presentarono il corpo all’altare.

«Presto, cercate il Sacerdote…», disse uno di loro: Nebu, colui che vede.

«Sono qui, ragazzo. Fate vedere cosa avete portato».

Il Mago protese le mani sulla figura esanime: «Lo spirito di Fina si è ristretto nel sangue rimasto. Si è rifiutato di abbandonare il corpo. Si è asserragliato nei suoi più remoti recessi. Solo una donna, dispensatrice di vita, può opporsi così tanto alla morte. La Regina è ancora aggrappata alla vita, ma non può parlarci né vederci».

Espressioni di meraviglia sottolineavano le parole del Sacerdote.

«Tu puoi aiutarla, vero?», domandò Nebu, senza timore reverenziale.

«Lo spirito della Regina si annida ancora fra le spoglie, perché è assetato di vendetta, si aggrappa a qualunque cosa e ha trovato calore nel vino di cui il corpo è saturo».

«Quanto può resistere ancora?».

«Non molto. I fati la sovrastano. Le potenze infernali la reclamano».

«Noi ti preghiamo, Gran Sacerdote: aiutala!», gli occhi dei giovani erano eloquenti.

«A qualunque costo?».

««A qualunque costo!»», risposero in coro.

Il Sacerdote li guardò tutti, sembrò contarli, quindi accostò la bocca a quella della donna e vi soffiò dentro: pochi attimi dopo, le labbra di Fina si mossero, sebbene gli occhi rimanessero persi nel vuoto.

Il Sacerdote batté le mani e un discepolo, rimasto fino ad allora in disparte, apparve sulla scena con un vassoio d’argento e delle ampolle.

Il contenuto di una di queste, verdognolo, fu versato nella bocca di Fina.

«Portatela dentro», ordinò il Mago.

La barella fu introdotta nei recessi del Tempio e Fina venne adagiata su un letto.

Il Sacerdote Nero cosparse la piaga con un unguento di colore cinereo; poi la bendò e riallacciò fino allo stomaco la leggera tunica, con piccole borchie centrali, vestita da Fina.

«Ora tutti dovete versare», proruppe il Sacerdote.

I giovani rimasero interdetti, ma quando il discepolo estrasse un affilato coltello e si piazzò accanto a un tripode sormontato da una bacinella d’oro massiccio, rimanendo in attesa, tutto fu abbastanza chiaro: in fila per uno, i giovani si incamminarono verso il discepolo.

Nebu si fece avanti, ostentando la propria devozione: «Per Fina!», esclamò, nell’offrirsi al pugnale, benché ignaro sull’entità del versamento.

Gli venne incisa una vena del braccio sinistro e il sangue si riversò nella bacinella; al termine dell’operazione, l’emorragia venne smorzata attraverso un laccio stretto sotto la spalla, e si passò al successivo offerente.

Uno dei giovani, spaventato dalla vista del sangue, cercò di sottrarsi al sacrificio, sfilandosi dalla coda.

Poco dopo, fece il suo ritorno nella stanza, con un pugnale affondato nello stomaco, accompagnato da un tenebroso guardiano: quando questi mollò la presa, l’altro crollò a terra; una pozza di sangue prese a spandersi sul pavimento.

Allorché tutti i giovani ebbero versato la loro offerta, la bacinella era ormai stracolma.

Intervenne allora il Sacerdote Nero, che pronunciò alcune formule rituali, rivolte alle potenze infernali; poi, con il sangue, tracciò due segni sulla fronte della donna.

Un'elisse verticale e una linea, aventi la stessa altezza.

Quindi sciolse una sostanza nel resto del sangue e lo fece ingerire a Fina, molto lentamente; la maggior parte si spandeva ai lati della bocca.

Gli occhi della donna rimasero fissi nel vuoto per tutta la cerimonia.

I giovani vivevano una forte apprensione, nell’attesa di un qualche evento.

Il Sacerdote abbassò la testa in raccoglimento, e quando la rialzò, la sua espressione era vaga e assente.

Improvvisamente, proruppe: «Fina! Io, Assurbanipal, il Grande Servitore, io ti chiamo! Connettiti al Tempio!», quindi accostò la bocca a quella di Fina e sembrò vedersi un vapore nero passare dalla prima alla seconda.

Dopo l’operazione, il Mago si ritirò, senza fornire alcuna spiegazione o significare pronostici ai giovani in attesa.

Trascorsero minuti interminabili, poi, finalmente, un lamento soffocato, carico di sofferenza, si liberò dalle labbra di Fina; gli occhi sbarrati rivolti al soffitto si allargarono meravigliati sugli astanti.

L’attenzione generale si fece passione, e quando la mano si portò istintivamente sulla ferita, esplose in una spontanea esclamazione: ««FINA!»».

I giovani si strinsero intorno a lei, muti, smarriti ed esaltati insieme.

«Regina, come vi sentite?», domandò Nebu, con estrema semplicità.

«La… Regina… io… sono… ancora… la… Regina…».

La frase era stata completata.

«Sono ancora la Regina… e voglio la mia vendetta… voi… chi siete?

Dov’è Assurbanipal?», gli occhi redivivi cominciavano a indagare i volti dei presenti.

«Sono qui, Fina. Questi giovani ti hanno portato a me», il Sacerdote era rientrato nella stanza. «La tua ferita è molto grave, hai rischiato di rimanere uccisa. Ora devi riposare…», il Mago passò la mano sul capo della donna e le palpebre di Fina divennero sempre più pesanti, fino a chiudersi completamente.

«Lasciatela riposare. Tornate alle vostre occupazioni. La Regina ha recuperato la vita, ma nessuno deve saperlo, almeno per ora. Brucerete il cadavere del vostro stupido compagno e quello sarà il corpo di Fina per tutti coloro i cui occhi sono sbarrati. Andate…!», il tono di Assurbanipal era imperativo.

Hiras e Irina avrebbero presto lasciato la città.

E lui, Assurbanipal, aveva il dominio su colei che avrebbe dominato su tutti gli altri!

Al risveglio da un lungo sonno durato giorni, Fina si sentiva un’altra.

Si sentiva più forte, invincibile: aveva sconfitto la morte. Si alzò e andò a cercare uno specchio. Mentre a fatica muoveva i primi passi, sopraggiunse Assurbanipal, con uno specchio nella mano.

Un lampo attraversò la sua mente: a tal punto la adorava, da prevenire i suoi desideri?

Ma fu un attimo, un bagliore della vecchia Fina.

Non appena recepì lo sguardo di Assurbanipal, posato su di lei, perse il senso di sé e si identificò in lui, il suo salvatore.

Fina non ebbe più voglia di specchiarsi.

Assurbanipal si ritrasse, portando con sé lo specchio.

Subito dopo fecero il loro ingresso delle guardie.

«Divina, il Gran Sacerdote ci ha ordinato di vegliare su di te. Non potrai allontanarti senza il nostro parere, né appartarti».

Tornò a letto e di nuovo si lasciò andare al sonno.

Avrebbe avuto tutto il tempo per sedurli.

Il sonno di Fina fu turbato da un incubo.

«Come ti senti, adesso?», Assurbanipal era seduto sul letto, accanto a lei, e le teneva la mano.

«Rimani qui... ho rischiato di cadere...».

«Stai diventando saggia, Fina.

E non sei ancora vecchia».

MAI MOLLARE, ANCHE SE È FINITA

di Salvatore Conte (2024)

In quei giorni bisognava arrangiarsi come si poteva.

Dalla Rivoluzione alle rapine, non si poteva trascurare nessuna opportunità. Non era insolito passare da ricercati a eroi nazionali, e di nuovo a ricercati, in breve tempo.

In quei giorni mi muovevo con un gruppo composto da una ventina di uomini, incluse le donne.

Per loro la gamma dei ruoli era particolarmente ampia: guerrigliere quando la Rivoluzione andava bene; puttane, ladre, streghe e molti altri quando il Governo riprendeva fiato.

Tuttavia le donne messicane erano sempre le stesse.

La Rivoluzione le rendeva solo più necessarie, perché davano un tocco di tinta popolare all’impresa.

In quel gruppo avevo conosciuto Anna Fernandez.

Aveva quasi raggiunto la sessantina, con un fisico solido e una vitalità da trentenne.

Per il resto nessuno sapeva nulla di certo su di lei.

Tuttavia i giudizi, si sa, tendono sempre verso gli estremi e i compagni erano infatti divisi. Chi era Anna? Una disgraziata, ormai finita e consumata, o una donna ribelle, feroce, che sapeva tenere in pugno gli uomini, non solo con le armi, ma soprattutto con la sua sfrenata passione?

Quest’ultima fama non era certo in minoranza all’interno del gruppo e intorno a lei, come a un favo di miele, ronzavano uomini d’ogni età e d’ogni risma. Non era lei a cercarli. Ma venivano.

Anche a me piaceva. E tanto.

Mi piaceva perché non mollava mai quello che aveva iniziato. Fra di noi non c’era niente, beninteso, ma a me piaceva lo stesso. In mezzo alle sparatorie ero più in ansia per lei che per me.

Quel giorno, come spesso accadeva, eravamo in marcia sotto un sole a picco, su una mulattiera che si incuneava nella Sierra, per ricongiungerci a un gruppo più grande.

La nostra colonna avanzava in doppia fila, senza una particolare disciplina.

Io cavalcavo dietro ad Anna per tenerla d’occhio. Le spalle forti e il rotondo fondoschiena, ben piantato in sella, erano punti di riferimento certi. Il compagno di fila poteva godersi il ritmico penzolare dei suoi seni cedenti, a stento trattenuti dalla camiciona azzurra, spavaldamente sbottonata fino allo stomaco.

In un tratto più largo della pista, quelli avanti si sfilarono e lei si ritrovò davanti. Sapeva montare molto bene, poteva rimanere in sella per ore e la sera era di solito la meno affaticata del gruppo, uomini compresi.

Il rumore della fucilata echeggiò lugubre nel canyon, Anna allargò le braccia e venne sradicata da cavallo, sotto ai miei occhi! Nonostante la stazza!

Era un agguato. Mentre i proiettili presero a grandinare, nella confusione generale, tutto il gruppo smontò immediatamente da cavallo e ciascuno cercò di raggiungere il riparo più vicino, me compreso.

Ero in pieno panico. Non tanto per l’agguato, che non era cosa nuova, ma per Anna. Era molto probabile che ci fosse rimasta secca...

Il vecchio trucchetto della camicia sbottonata stavolta non aveva funzionato. Quegli stronzi dei governativi non s’erano fatti incantare, anzi l’avevano presa di mira. Ormai era conosciuta. Era stata una vendetta.

Le tempie mi pulsavano. Mi sporsi dalla roccia dietro cui ero nascosto per vedere se Anna si muoveva. Era a venti metri da me, ma sotto quella pioggia di fuoco era come a un chilometro. Purtroppo non dava segni di reazione. Era stramazzata ventre a terra, con gambe e braccia disarticolate. Sembrava morta stecchita, anche se una come lei era scaltra abbastanza da rimanersene buona a terra per non farsi impiombare ancora. Questo era ciò che speravo.

Per qualche secondo gli spari si placarono. Poi ripresero più violentemente di prima. Il nostro volume di fuoco era superiore al loro. L’effetto-sorpresa si era esaurito.

A quel punto vidi Anna che cercava di strisciare al riparo di un roccione. Ebbi un salto al cuore: era viva…

Forse era svenuta, forse la nuova gragnola di spari l’aveva fatta rinvenire.

Lanciai il sombrero nella direzione opposta a quella verso cui cominciai a correre e completai il tratto con un tuffo, che mi consentì di raggiungere indenne il costone dietro al quale aveva trovato rifugio Anna Fernandez.

La appoggiai seduta contro la parete di roccia e cercai ansioso il punto dov’era stata ferita. Spiccò subito una macchia all’altezza del fegato…

Questa volta non era stata fortunata. Troppe volte aveva sfidato il pericolo. Forse pensava di essere ormai invulnerabile, quasi una sorta di intoccabile, ma stava scoprendo di essersi sbagliata, di avere coltivato una pericolosa illusione, una stupida esaltazione, frutto della sua sfrenata voglia di vivere e sentirsi importante.

Le tamponai la ferita con il fazzoletto, mentre intorno a noi fioccavano ancora pallottole.

«Non voglio crepare… non voglio crepare…», fu la prima cosa che mi disse, lucida e decisa a non mollare.

Non sembrava affatto disponibile a immolarsi per la Rivoluzione. D’altra parte tutti sapevano che Anna aveva scrupoli solo per sé stessa: ora avrebbe pensato a trovare una via di scampo.

Mi diedi da fare con il fucile e intanto la osservavo: stava strofinando gli stivali nella sabbia. La ferita la tormentava. Non so chi altri fra noi si sarebbe mosso da terra con una palla di winchester nel fegato; ma lei l'aveva fatto...

Lei era sgusciata via e ora cercava di capire cosa fare.

Altri spari, anche di pistola.

L'eco di grida disperate si diffondeva nel canyon.

I compagni uscirono allo scoperto. La sortita era riuscita.

Il gruppetto di cecchini era stato individuato ed eliminato. Era solo una pattuglia, che aveva sopravvalutato i vantaggi della posizione e della sorpresa.

Ora la marcia poteva riprendere, ma avevamo perso diversi uomini.

Anche Anna era obbligata a tornare a cavallo.

Mostrarsi deboli era molto pericoloso. Chi rimaneva indietro veniva eliminato, perché sarebbe stato torturato dai governativi e costretto a parlare. Al più gli veniva data la possibilità di farla finita da sé.

Anna fu aiutata a rimettersi in sella, anche se era chiaro a tutti che non sarebbe andata molto lontano.

Cavalcava piegata in due, con una mano sulle redini e l’altra sulla ferita.

Il suo cavallo rimaneva costantemente indietro e io, ogni volta, lo affiancavo per spronarlo.

Manteneva la testa bassa, nascosta sotto il sombrero, forse per non mostrare agli altri quanto fosse provata.

Ma il tramonto era vicino, e se Anna avesse retto ancora per un po’, nella notte avrei escogitato un piano.

Nel gruppo non c’era un vero capo, la Rivoluzione era anche questo; c’era piuttosto un modo di fare condiviso da tutti.

Trovato un punto adatto, ci fermammo per trascorrere la notte.

Tirarono giù la Fernandez e la distesero su una coperta. Se non avesse dato problemi, sarebbero stati gentili.

Per il momento non mi avvicinai.

Dovevo evitare di rendere prevedibile il mio comportamento.

Mi controllai, mantenendomi apparentemente distaccato, quando un compagno sogghignò al mio indirizzo, sapendomi attaccato a lei.

Non potendo dormire, mi offrii per il primo turno di guardia.

Se avessi mostrato di volerla aiutare a tutti i costi, mi avrebbero prevenuto. Invece nessuno doveva pensare che mi sarei opposto all’idea di eliminarla.

Dalla postazione di guardia, la vidi agitare le braccia, la sentii chiamare, si fece portare della tequila e cominciò a spassarsela…

In pochi minuti era già al terzo…

Nessun dubbio che fosse consenziente… non era ancora crollata e benché ferita gravemente, tutti la temevano.

Non voleva morire da perdente; sprezzante e spavalda fino all’ultimo, cercava nuova energia dal pisello dei compagni; per lei era birra.

Si fece avanti il quarto.

Stavolta, però, prima del servizio, Anna si piegò su un fianco e finì con la faccia schiacciata a terra.

Ebbi un salto al cuore.

La birra era finita.

Subito ci fu animazione intorno a lei. La voltarono supina, le diedero da bere.

Vidi le gambe e le braccia muoversi leggermente.

Non era ancora finita.

Il capannello di compagni accorsi al suo capezzale si sciolse.

Si era ripresa, c’era ancora da aspettare.

Il quarto della serie fu il più sfortunato. Viste le condizioni di Anna, si ricompose e rinunciò.

Finito il mio turno di guardia, continuai a osservarla di nascosto per tutta la notte.

Si contorceva su sé stessa, in mezzo ad affanni soffocati; ma continuava a rimandare la fine: la sua forza di volontà era pari al fisico possente.

All’alba riprendemmo la marcia.

Anna tornò in sella fra il sommesso stupore di tutti.

Più di qualcuno doveva aver pensato che non avrebbe superato la notte.

Anna Fernandez riusciva ancora a stare sul cavallo, sebbene praticamente piegata in due.

Perché lo facesse non lo aveva capito nessuno.

Ma la storia non poteva durare. Dopo un paio d’ore accadde ciò che più temevo: Anna si rovesciò a terra con un tonfo sordo, finendo supina con le braccia allargate dai fianchi. Lo sguardo era assente, un rivolo di sangue le colava dalla bocca. Era rimasto solo il debole movimento delle dita, che raschiavano disperate la sabbia della pista.

Per tutti quanti loro, quello era il segno della resa.

Era da tutti accettato che i feriti andassero finiti. Erano un pericolo per gli altri, perché sarebbero caduti nelle mani dei governativi.

Anna lo sapeva e aveva provato a reggere fino all’ultimo…

A quel punto, giocai il mio bluff.

«Ci penso io, voi andate avanti. È meglio non perdere altro tempo», dissi, cercando di essere convincente.

Il cuore pulsava veloce mentre aspettavo la giocata dei compagni.

Se non avessero abboccato, avrei scatenato l’inferno.

Quelli davvero duri erano soltanto cinque o sei, comunque non più delle pallottole calibro 45 nel tamburo della mia colt.

Ma non arrivò nessun rilancio, nessuno venne a vedere il mio bluff.

Dopo alcuni sguardi d’addio all’indirizzo di Anna, tutti gli altri ripresero la marcia.

Fin quando rimasero in vista, finsi di procedere come chiunque altro avrebbe fatto.

Smontai, estrassi la colt e la puntai verso Anna.

Non dimenticai di stare molto attento ai movimenti delle sue mani, perché da lei c’era da aspettarsi di tutto: benché morente, avrebbe potuto reagire, portandomi con sé all’inferno; prospettiva che per il momento preferivo differire.

Anna però era tuttaltro che stupida: sapeva che con me poteva giocarsi un'altra carta.

«Aspetta… aspetta… cough... tu... tu non sei… come gli altri…».

«Soltanto adesso te ne rendi conto, Anna?», scandii le parole lentamente, perché era giunto il mio momento.

Puntai la colt.

BANG

Si irrigidì tutta, come se l’avessi centrata.

«Non ti muovere, sono ancora in vista. Da adesso tu sei morta per loro. Mi prenderò del tempo per seppellirti, poi dovrai decidere cosa fare del tuo cadavere, Anna.

Se rompiamo le regole, siamo tutti e due fuori dalla Rivoluzione».

Credo che Anna fosse sicura di essere morta dopo quello sparo. Ma aveva il cuore forte.

Rimase a respirare, visibilmente incredula. Nonostante tutto, per lei non era ancora finita. E sembrava ancora cercare una via di scampo.

Si stirò addosso la camiciona, gonfiando le zinne: mi ero messo dalla sua parte e di certo lei sapeva come ringraziarmi.

«Juan… Juan…», mormorò sbavando, come per avvolgermi nella sua ragnatela. «Vieni qui… prendimi... cough... scavami… la fossa… », stava al gioco, pazza com’era.

E io non me lo feci ripetere, stavolta era arrivato il mio turno e c’era molto da scavare, dopo tutto quel tempo.

Con una mano sulla sua, premute insieme contro la ferita, fui dentro di lei: volevo darle forza, tutta la mia forza.

Era il nostro esorcismo contro tutti gli avvoltoi.

«Non mollare, Anna. Ti tirerò fuori dalla fossa».

Mi sorrise con labbra amare.

Mi ricomposi e la feci bere. Mi confidò la sua paura.

Rimasi a osservarla mentre il suo respiro si faceva sempre più affannoso, non riusciva più a parlare.

Gli occhi vagarono incerti al cielo, come a raccogliere segnali.

Mi coricai di nuovo accanto a lei e seguii il suo sguardo.

Sopra gli avvoltoi, volava un’aquila. Da quell’altezza controllava con un solo occhio tutta la Sierra Madre.

«Mai mollare… mai…

Ora... va meglio… è stato... solo… cough... un momento…», forse stava bluffando con sé stessa, ma lo faceva bene.

Subito dopo si udirono diversi spari in rapida successione.

Provenivano dalla direzione presa dai nostri ex compagni.

Rimasi in ascolto. Gli spari divennero meno frequenti, fino a quando le bocche dei fucili tacquero.

Un gran numero di avvoltoi cominciarono a volteggiare in quella direzione, compresi quelli che stavano sulla testa di Anna.

Era paradossale, eppure la vecchia Fernandez mi aveva salvato.

Caricai Anna sul suo cavallo, e montai anch’io, tenendola stretta.

Non avevo la più pallida idea di dove dirigermi.

Poi, come se un lampo mi attraversasse la mente, ricordai che ci trovavamo vicini a un vecchio pueblo semi-abbandonato.

Non potevo trasportarla da nessun altra parte. Eravamo troppo lontani da tutto. E lei non aveva molto davanti a sé.

Il suo corpo si abbandonava pesante contro il mio, mentre procedevo a passo andante.

Forse non ce n’era bisogno, ma la tenevo stretta con tutte e due le braccia. E la stringevo più forte quando la sentivo gemere e abbandonare la testa sulla mia spalla. Allora le baciavo la nuca, come fosse una bambinetta, ma il suo seno a penzoloni, che le mie mani congiunte sul grembo sostenevano, mi ricordava chi fosse.

E la passione saliva e scendeva, dal cuore alle gambe, dalle mani al cervello, e di nuovo la stringevo a me e le soffiavo sul collo il mio calore. Lei ansimava affannosamente, per catturare aria e trattenere la vita, con le mani che fremevano nervose intorno alle mie, socchiuse a pugno per reggere le briglie.

Di tanto in tanto mandava una sorta di ruggito, come per caricarsi.

E gonfiava il petto per dimostrarmi che c’era; per poi afflosciarlo d’improvviso, esausta, lasciandomi costernato.

Arrivò il momento in cui il sangue mi si raggelò nelle vene: dopo alcuni spasmi, la bocca le rimase semiaperta, mentre gli occhi si andavano fissando su un punto lontano, sempre più sgomenti…

Infine, però, Anna buttò fuori il fiato, come a sputare un rospo, e mi sussurrò felice: «È passato… è passato… non è finita...», sebbene con l’ombra della paura sempre addosso. «Questa storia… mi farà invecchiare… cough... di 10 anni…».

«Fa niente... sarai bella anche fra 10 anni».

Dopo quell’episodio, cercò di ricomporsi, di sistemarsi meglio in sella, di controllare meglio il respiro, per non farsi più sorprendere da uno spavento del genere.

Non era ancora finita, comunque. Tanto bastava a entrambi, mentre cavalcavamo insieme, ciondolando l’uno sull’altra.

“Mai mollare” era la cosa più bella che avesse detto e ce l’aveva ancora sulla bocca. A ogni respiro.

Forse la portavo a morire in un posto ormai spettrale, forse non l’avrebbe nemmeno visto, ma nel vederla ancora in sella, con la camicia sbottonata e quel latente “mai mollare” sulle labbra, cominciavo a credere che il suo non fosse un bluff.

Aveva avuto tanti uomini.

Conosceva l’uomo e quella voglia beffarda che prende il corpo.

Sapeva come soddisfarli, senza fare la difficile.

Quel che c’era, dava. Ora toccava a lei, era lei a ricevere.

A obbedire alle pressioni che il mio corpo le trasmetteva.

Un abbraccio che non le lasciava scelta.

Non mollare.

Mai.