Zothique: La prostituta di Oroth Zothique: Assalto all'Oasi Maledetta Ilsa e Anna nel Triangolo Maledetto di Salvatore Conte (2024)
12 marzo 2012
EFFERATO OMICIDIO ALLE PORTE DI ROMA
«Ha letto i giornali, signora Frascata?».
Lui lo voleva indietro e lei si è lasciata prendere la mano...
per non farsi prendere il dito...».
Sembrava un grosso cioccolatino da scartare e sciogliere
in bocca.
Te-le-go-no…?! Mi scusi, ma non l'ho mai sentito prima», una
risatina futile accompagnò la sagace rivelazione. Insomma, lei non crede che il suo nome, addosso a lei, significhi qualcosa?».
«Sì, penso significhi che mi chiamo Anna».
Viceversa, un'altra fazione politica sostiene che il Super-Sindaco debba essere
eletto in seno a tutti i sindaci della vecchia Provincia di Roma, in una sorta di conclave laico.
«Ma che Tuscolo e Tuscolo, Commissario Telegono… Ah... la sa una cosa...?
Il mio nome, Telegono, e quello del suo ragazzo, Antinoo, sono
collegati tra loro dalla figura di Ulisse...».
Commissario... la chiamo se mi venisse in mente qualcosa di utile per le sue
indagini...». 12 aprile 2012
COZZE FATALI PER AMMIRAGLIO A RIPOSO
«Lei ci ricasca per la seconda volta nel giro di un mese, signora Frascata.
In più è emerso il collegamento che io stesso avevo ipotizzato
alla sua (non trascurabile) presenza». «Lei legge i giornali?».
«Si fa per dire, no?». 28 aprile 2012
L'interrogatorio, sempre più informale, faceva tappa dal Brigante Gasperone, ad
Ariccia. «Però dell'Ammiraglio sembravi la figlia...», replicò sagace lui, mentre lei faceva penzolare fanatica le tette sfatte, malcelate nella profonda scollatura della camicetta, umettando al contempo il labbro inferiore.
Nonostante i suoi 46 anni, non portati benissimo, i chili in
eccesso e l'aspetto consumato, rimaneva una donna che piaceva subito, anche il
più distratto doveva arrendersi e rivedere i suoi termini di paragone; volgarmente,
questo tipo di donna era detta una sorca... un pesante apprezzamento che celava
un titolo onorifico, nella doppiezza del linguaggio popolare.
Ma l'Ammiraglio poteva essere tuo padre...». «Sì, ho capito... bella... imponente... Sarebbe degna di me. E tu anche». Approfittò dell'apertura di credito per un bel bacino, con la mano a muoversi sulla morbida pancetta della Frascata, non potendo né salire, né scendere. Doveva arrestarsi, il colmo per un Commissario; era in una fraschetta. «Allora è fatta... intanto continuiamo a vederci, no...? C'è sempre da interrogare...». «Senza impegno, però. Io non ho solo te, Commissario...».
Si era ritratta, senza temere di apparire sgradevole; voleva
fatti per spendersi davvero.
Ti aggiorno su alcune strane coincidenze che ho rilevato nelle mie
indagini. Oggi abbiamo un Papa tedesco che ha lo stesso nome del primo Conte di Tuscolo assurto al trono papale perché filo-tedesco, e con il progressivo del nome pari al doppio esatto di quello. Se per assurdo dovesse dimettersi poi... si ripeterebbe il caso di Benedetto IX, un altro Conte di Tuscolo...». «Aspetta... Lo sai cosa mi sembrano questi... caro...», in modo carezzevole, prendendogli per un attimo la mano, quasi scusandosi con lui per i modi bruschi di prima. «A me sembrano algoritmi... ho il diploma di perito... l'ho preso al Fermi di Frascati», ammiccando con quegli occhi nocciola da Baci Perugina. La Frascata aveva dalla sua l'estrema praticità di una donna pienamente realizzata. «Algoritmi...?». Ingravallo era basito. «Il caffè lo metti su in un certo modo, è sempre quello. Il computer fa sempre le stesse cose, non ti può stupire come una bella donna... La storia è ripetitiva, prevedibile e noiosa: tre attributi tipici di un computer...», e per manifestare il più netto contrasto, si tirò su una zinna con la mano a coppa. Ci mancò poco che il cameriere non dovesse raccogliergli il labbro da terra.
Ingravallo, vedendo entrare nella grotta l'agente Di Maggio,
fece appena in tempo a cambiare registro: «Allora... neanche il vino dei Castelli
le scioglie la lingua,
signora Frascata?».
Ingravallo preferì non
interromperlo.
Ve dico, sì... ma 'o sapete chi l'ha detto?
«Sentito...?»,
sussurrò la madre d'Ingravallo, nell'orecchio del figlio. «Sentito...?», Ingravallo si prese la rivincita. «Ma che ve ce vo 'n'argoritmo pe davve 'n bacio? Ma 'ndo cazzo semo arivati, oh!». «Dobbiamo accontentarlo, o farà qualche pazzia...», sussurrò il Commissario alla Frascata, in tono quasi professionale, procurandosi al contempo di stringerla a sé. «Ah! Si è buttato!», era però destino che il Commissario non riuscisse né a baciare la Frascata, né a distogliere il folle. L'ubriaco barcollò e cadde nel vuoto. Anna lanciò un grido.
«Commissà... ma quanto è alto il ponte? Ma non sempre funziona... Allora... ci mettiamo insieme o no? Lo dice pure er matto… Guarda che sennò me butto de sotto...». La risata di Anna valeva un mezzo sì. 11 maggio 2012, ore 10
«Commissà… Commissà…! Hanno accoltellato la Frascata!», l'agente Di Maggio fece
irruzione nell'ufficio del Commissario Ingravallo.
«Ma…». 11 maggio 2012, ore 13 «Ci sono troppe coincidenze, Di Maggio... E se l'assassino fosse un algoritmo?».
11 maggio 2012, ore 16
«Ma
insomma... ho già detto tutto ai Carabinieri, stamattina…!», obiettò la portinaia. La vecchia si voltò e iniziò faticosamente a salire le scale.
«Qui abitava l'assassino», disse indicando la porta con i sigilli, sita al primo piano dello stabile. «Arrunte Pallavicini, detto l'Etrusco. La vittima invece stava ar quinto. Stava da sola, ma c'era 'n certo via-vai… stavolta 'nvece s'è smossa lei e 'sta cosa alla sora Anna nun ha portato mica bene… Lo sanno tutti come annava in giro... un camicione bianco da donna importante... cor collo alto... sembrava 'na papessa... du bottoni chiusi in panza... e basta! Niente sotto, niente sopra... du bottoni! Ve potete immaginà le zinne...
Ma la mignotta nun voleva morì!
Ce doveva avé sette spiriti come
li gatti, perché ha aperto la porta e gli è
scappata via su pe' le scale. Quel poraccio pe' finilla d'ammazzà s'è dovuto fa
du piani». Il Commissario Ingravallo stava osservando le macchie di sangue cerchiate col gesso sulle scale. «Perché la vittima non è fuggita dabbasso, anziché salire le scale?». «Po esse che c'era qualcuno che scendeva, ma che poi s'è cagato sotto...».
«Tanto per essere chiari, lei ci ha raccontato tutto quanto il fatto, però ha
visto solo l'Etrusco che scappava».
Ingravallo, attraverso il meccanico linguaggio professionale,
cercava di gestire lo stato di shock.
Dal secondo al terzo, sembra che abbiano sgozzato un vitello,
Commissà!». Ma prima in ufficio». 11 maggio 2012, ore 20
«Rilegga». «Quando leggi, leggi bene».
«Grazie, Commissà». «Abbiamo sentito i cugini, ora sentiamo er Cecato de Frascati». 11/12 maggio 2012, ore 24/0
Nuovo interrogatorio informale al Grappolo d'Oro di Frascati: all'interno del
grottino, veniva ascoltato Omero, il vecchio cecato. Però ce deve stà quarcuno che conosce bene 'sta stronza, perché nun s'è fidato... lei pensava de salvasse a cosce de fori e d'arivà de sotto alle scale... ma poi s'è vista arivà sotto n'artro cortello... ha ripreso a core a tutta callara... pe de sopra... ma quell'artro era più pratico, Commissà... l'ha fatta core un po'... e poi l'ha sfonnata de brutto... 'a mignottona se voleva salvà... ma ha fatto l'urtimi du gradini e l'ha s'è stirata... è rimasta co 'e cosce de fori... che zozza...». Di tanto in tanto, Ingravallo versava grappoli nel bicchiere. «Detto questo, Commissà... si ho sbajato quarcosa... è perché nun ce vedo bene». «Omero, quanti erano i figli di Ulisse?». 12 maggio 2012 ACCOLTELLATA A MORTE L'EX MOGLIE DELL'AMMIRAGLIO GIANNINI MA LUI HA UN ALIBI DI FERRO «Speriamo che l'algoritmo stia al gioco, Di Maggio. Sta a noi contagiarlo con una buona dose di follia». 13 maggio 2012, ore 9
«Commissà, pensi che roba... i Carabinieri hanno arrestato er
fijo de l'ex marito de la Frascata... me so fatto manna tutto er faxe...
insomma... come si dice...».
Ma allora cosa l'ha tradito?».
Forse Telegono, il fondatore di Frascati? di Salvatore Conte (2024)
Chiquita Mendez si è sollazzata abbastanza, adesso è pronta per un'altra scorribanda. Il potere che ha raggiunto non le basta; vuole sempre di più. Possente, selvaggia, diabolica, è considerata indistruttibile. La chiamano la Maldita. Nessuno è mai riuscito a sorprenderla, non ha mai incassato piombo, e se anche accadesse, tutti pensano che sarebbe in grado di gestirlo senza problemi. Di questo passo potrebbe mettere le mani sull'intero Messico. E ha già un piano per conquistare Novasol. Chiquita sta usando Lampez per farsi strada, ma prima o poi si libererà anche di lui, prima che lui tenti di liberarsi di lei. I due finiranno per scannarsi a vicenda. Intanto, però, la Mendez si gode i suoi successi. Soltanto il misterioso Chato ha avuto il coraggio di impensierirla. Lei e Lampez hanno messo una grossa taglia sulla testa di quel guastafeste. Due feroci delinquenti che mettono una taglia su un cittadino onesto: succede anche questo in Messico. E alla fine il miraggio dell'oro paga: el Chato è un tale Ubaldo Argentiras, un pezzente idealista che frequenta di nascosto niente meno che la bella figlia del Governatore di Muñoza; il nome è Isidora. Non appena la Mendez apprende tutto ciò, scatta la trappola: è lei stessa che durante un convegno d'amore tra i due, tramortisce Ubaldo e fa possedere Isidora da un toro imbufalito, che la uccide con il suo micidiale fallo, lungo quanto un bastone da passeggio. Il padre della ragazza crede che a ucciderla sia stato il suo amante, e così lo tortura a morte. Ma anche in fin di vita, Ubaldo professa la sua innocenza; e allora il suo aguzzino comincia a capire il proprio errore; vaga impazzito nel deserto e finisce per incontrare proprio Lampez e Chiquita. Con la presa del Governatorato di Muñoza, Lampez e Chiquita sono all'apice della loro potenza. Il piano adesso è quello di allargare l'Impero. Ma non tutto fila per il verso giusto. È proprio una muchacha, Estella, che fa una sconvolgente rivelazione alla diabolica Mendez: «In un punto remoto della Sierra... è custodito un tesoro, Chiquita. Oltre il deserto, a miglia e miglia da qui. È il tesoro che el Rajo accumulò in anni e anni di grassazioni, di rapine». Estella è stata la donna del bandito, e non ci mette molto a convincere l'avida Mendez. I timori di Lampez si rivelano tuttaltro che infondati. La spedizione viene bersagliata dai guai: mancanza d'acqua, clima rovente, misteriose sparizioni di alcuni uomini rimasti isolati dal gruppo, malori, sabotaggi e funeste apparizioni di avvoltoi e spettri. Non manca davvero nulla. E il peggio deve ancora arrivare. In mezzo a questi tragici sospetti, gli incidenti si susseguono, falcidiando gli uomini di Lampez e Chiquita. Serpenti velenosi, belve feroci, scorpioni: sembra che tutti gli animali del deserto si siano uniti contro un solo nemico. I feriti vengono abbandonati al loro destino, gli ultimi superstiti si ammazzano tra loro per accaparrarsi la poca acqua disponibile. La banda di Lampez e Chiquita, il loro esercito personale, è ormai polvere. Polvere nel deserto. La stessa Mendez è ormai impazzita dalla rabbia e dalla paura. Sa di aver fallito, di essere finita, ma non vuole ammetterlo. Si stringerà intorno alla sua colt per scacciare i fantasmi che la opprimono e le minacce di morte. La massiccia bonona è fottuta, sembra invecchiata di 10 anni, ma conserva un briciolo di lucidità. È la più dura a crepare, insensibile a tutto, interessata solo a salvarsi. Ubaldo e Isidora, e i tanti morti senza pace, le vittime invendicate della banda di Lampez e Chiquita: tutti costoro reclamano giustizia. Li hanno attirati qui sotto le spoglie di Luis ed Estella, con il miraggio di un tesoro inesistente... E ora Lampez e Chiquita devono pagare! Già si predispongono a scannarsi reciprocamente, scambiandosi le fatali accuse, nel disperato tentativo di alleggerire la propria posizione di fronte al consesso dei morti. L'alito della morte soffia su Chiquita Mendez! È venuto il suo turno! La maledizione dei morti la condanna! Un freddo gelido la penetra in corpo da capo a piedi e le annuncia la fine! La fine di tutte le sue ambizioni e di lei stessa, la potente Maldita! Ora anche Chiquita ha paura! La massiccia bonona - dalle zinne pesanti e le camicie sbottonate - non vuole crepare! È ora di dimostrare se veramente sia indistruttibile! La Maldita si ostina a provarci, ma ha riportato una profonda lesione all'utero, e non può andare molto lontano. Un bisonte l'ha incornata con qualcosa di ancora peggiore delle stesse corna. Non è lungo quanto quello - proverbiale - del toro, ma poco ci manca. Se ne ricavano perfino bastoni da passeggio di quasi un metro. È letteralmente in grado di finire in bocca, rimanendo dentro. Ma Chiquita si tiene in vita con il miraggio della salvezza; forse è davvero indistruttibile. Il tesoro non le interessa più, il suo tesoro è diventato l'ultimo pezzo di pelle che si ritrova addosso. Anche gli spettri hanno smesso di tormentarla, la vendetta è ormai consumata. Nella sua follia, però, la Mendez insegue una via di scampo. «I fantasmi... non possono spararmi... Lampez... è crepato... sono l'ultima... sono invincibile...». Striscia al riparo di una roccia e nel suo disperato delirio si butta sabbia nella vagina, cercando di tamponare l'emorragia, trascurando però che la ferita è interna. È sola, farfuglia fra sé, schiumando rabbia. «Quella troia fantasma... pensava di uccidermi... ma il bisonte... non ce l'ha come il toro... non ha spinto tutto... nessuno può fermare Chiquita Mendez... ricomincerò da capo... con un'altra banda... un altro socio...». La Maldita si aggrappa al fisico, mantenendo in vita l'illusione, meramente fittizia, di raggiungere un villaggio. «Non finirà così... nessuno può fermarmi... quel cane è crepato... io non farò la stessa fine...», Chiquita ripete il suo mantra preferito, quasi fosse una preghiera rivolta al demonio. Vuole ottenere una via di scampo. Insiste fino all'ultimo. E il diavolo sembra darle ragione, perché all'orizzonte si intravede una nuvola di polvere. Se non è un altro miraggio, se non è un altro spettro, presto ci saranno visite. Né l'uno, né l'altro, infatti, ma un disertore in carne e ossa. Uno a cui non va a genio di crepare per le guerre degli altri. L'intesa è immediata, l'apostolo del demonio si dà da fare. Alla Mendez basta poco per mantenersi in vita: l'acqua le restituisce più di una speranza. «Insieme faremo grandi cose... ho molto oro da parte... tireremo su una banda... voglio tornare ad ammazzare... ho sete di sangue... voglio tutto il Messico... stavolta...», mormora eccitata, con il sangue che le cola dalla vagina come avesse il mestruo, e la bava alla bocca, vogliosa di salvarsi a tutti i costi. «Il Messico sarà tutto nostro, potente Maldita...». Chiquita Mendez annuisce appagata. di Salvatore Conte (2024)
Per evitare la pallottola del bandito, Willer si fa scudo del pezzo di donna davanti a lui e Amabel Collins, alias Janet Frexi, paga con la vita il brutto tiro del Ranger, rimanendo uccisa a terra. È lei, infatti, a beccarsi una fucilata nello stomaco: un colpo che non le lascia scampo.
Lo sparo rimbomba nella stanza come un tuono di
morte, moltiplicato tre volte.
Assorbito lo shock, Janet si gira ventre a terra e
comincia a strisciare verso la porta.
La sua unica possibilità è quella di supplicare il suo nemico. «Aspettami qui, Felicia. Non può averne per molto».
Il Ranger è costretto a rientrare in casa e ad assisterla. La botta è stata
forte. Io... ti ho salvato il culo... stronzo... Questa
cazzo di pallottola... cough... era indirizzata a te... sono morta per te...». Ma se anche ce la fai, cosa di cui dubito, ti aspetta la corda». «E gli altri che hai ucciso?». «Gli
altri... non li troveranno... mai...», un ghigno
sinistro le increspa le labbra.
Willer
è intrigato: ha voglia di vivere, potenza e l'età giusta per lui.
«Però non dovrai crearmi problemi», le sussurra Willer, tornando sul loro
discorso. Però il buco è grosso e le certezze cominciano a sfaldarsi. «Quei cani... in fondo al pozzo... mi chiamano... cough... mi aspettano... cough... vogliono... trascinarmi giù... in mezzo a loro... cough... cough... io li sento...!». «Non farti suggestionare, cara...», e le pianta una mano sulle zinne, prendendosi subito un anticipo. «Sei brava con queste camicie... Domani all’alba convocherò qui
uno stregone, alzando segnali
di fumo in cielo. Il
mio vero nome... è Janet...», e mastica
nervosamente, sforzandosi di mantenere il controllo, ansiosa di andare avanti,
soddisfatta di aver raggiunto l'obiettivo e messo le
mani sul famoso Willer. E le
spreme le zinne. «È quasi l’alba,
Janet. Vado fuori a preparare il falò».
Janet pensa che tu la uccideresti. Aquila della Notte ringrazia l'uomo della medicina che ha risposto alla sua convocazione. Ha fatto un buon lavoro. E per sdebitarsi gli fa un regalo, visto che è scortato da due guerrieri. «Prendila. È tua». «Aquila della Notte sempre generoso...». «Avevi ragione su quella serpe...». «Tutte le mie vittime... erano degli infami...
Tex... se non sbaglio… hai tre pard... DI UNA MESSALINA di Salvatore Conte (2024) IL PRESAGIO
Aveva sognato di ritrovarsi con le budella di
fuori.
LA FINE
«La potente Frexa Messalina ha preso ferro! Ferro bello lungo...! E per due volte! Due volte ferro bello lungo!». L'amministratore del gruppo plebeo "Tutti i cazzi de Roma" strilla per le vie della Città portando la fatale notizia. «Si può sapere che cazzo stai dicendo? Non si sente niente», un tale lo ferma, il messaggio non arriva, l'orecchio non prende, disturbato dal frastuono dell'Urbe. «Frexa Messalina... la grossa mignottona... dovresti conoscerla...». «Certo... e allora...?». «L'hanno tolta di mezzo...». «Che cosa?!». «È finita nella congiura del fratello. Due pretoriani l'hanno stroncata col ferro; un colpo per uno, per dividersi responsabilità e merito: i consoli del ferro... ti piace?». «Giove benedetto! Dici sul serio?». «Lo sanno tutti che lei non c'entrava un cazzo con gli affari del fratello, ma le donne ci vanno sempre di mezzo... e poi giocare col gladio, a Roma, si sa... è troppo pericoloso... Non le mancava certo l’ambizione, ma non aveva gli intestini per rischiare tanto, sebbene adesso dicano che li abbia tirati fuori…!», un sorriso sardonico e impietoso, a corollario dell’efferata battuta. «Quello stronzo del fratello, poi, il ferro non l'ha ancora preso. È stato portato a palazzo per essere interrogato. Sono coinvolte decine di personalità». «Ma la zozza... Messalina... è morta subito?». «No, ha un fisico da bestia, si sta ancora consumando. Pare stia salutando gli amici più intimi. Se ti sbrighi, fai in tempo a salutarla anche tu...», finisce tra sé, perché l'altro è già partito, sembra calzare i sandali di Mercurio. Quando la vede, Publio tira un sospiro di sollievo: Frexa Messalina non è ancora cadavere. La prestante matrona è seduta nell'atrio, stretta in mezzo a due serve, che l'aiutano a tenersi dritta, le tamponano il sangue sul labbro e le portano alla bocca del vino per tenerla su; con una mano non lasciano mai la pancia della padrona, premendovi sopra delle bende, cercando di contenere le perdite; sotto di quelle la matrona ha due paia di labbra nuove. La condanna è stata spietata. Sorpresa nelle sue stanze, le hanno affondato il gladio in corpo. Ha provato a sbottonarsi, ma è stato inutile. Il volto è pallido, conscio della fine; e pur tuttavia lascia trapelare un sorriso; forse perché la finta matrona è contenta di non esserci rimasta secca sul colpo e di avere il tempo per salutare famigliari, amici e amanti. Statua vivente di Giunone, erede delle famose e venerate matrone latine, pur senza aver generato, Frexa Messalina riceve le ultime adulazioni. Le baciano i piedi, disperandosi per la sua sorte. «Reverendissima Messalina... ditemi cosa io possa fare per voi...». «Publio... ci sei anche tu... amico mio... Scrivi la verità... sono coinvolta anch'io...
Ho
chiesto pietà... ma quelli... hanno colpito...», un attimo di pausa e
di affaticamento, Frexa rivive il momento con gli occhi spalancati, come se la colpissero
di nuovo. «Non un colpo... ma due... avevano paura... dovevano... spartire il
delitto... e c'ho rimesso io... io... io un colpo... me lo tenevo...», sussurra
la possente Frexa, con rimpianto e paura. «Ti basta… per scrivere…?».
Comunque a me basta. Ma voi?
Amico mio... fammi andare avanti… non ho molto tempo…», ha fretta, si gestisce,
ma sa di
essere finita. Ormai rimane in sospeso un solo fatto...
Non c’è solo Vatsapio nell’Urbe, con il suo gruppo immortale “Tutti i cazzi de
Roma”.
Dopo le udienze, la matrona si è chiusa nella sua casa, con la gente di Roma fuori dalla porta, ad aspettare il culmine della tragedia. Ma la plebe è impaziente, vuole notizie, preme, bussa alla porta.
«La matrona è vigile, sta bene, non ha paura»,
una delle generiche dichiarazioni dei servi, impegnati a calmare gli animi. Il carnefice le ha risistemato alla meno peggio le budella, bendandola con una fasciatura rigida: almeno adesso non si vedono più. L'avvelenatrice ha cercato di stabilizzarla, per farle guadagnare un po' di tempo, quanto non si sa. Publio prende appunti sulle ultime ore della matrona, le ultime parole, le ultime reazioni: come affronta la fine, insomma, affinché i posteri ne siano informati. Tutto serve per rendere decorosa la sua morte, come merita una donna di questo genere. Bisogna cercare di farle vivere tutti i fiati che le rimangono, senza buttare via nemmeno un granello della clessidra: è il modo supremo per rispettare la sua importanza e la sua lotta; anche se non vi sono possibilità di modificare il verdetto della sorte. Accompagnarla alla fine, alla Porta Fatale, concedendole tutte le divagazioni possibili: questo l'ultimo servizio. Non c'è altro da fare per la bella matrona. Solo divagare. «Publio... non allontanarti...», la morente ha paura, è umano. «Sono qui, non mi muovo». «Volevo tentare... ancora... ma...». «Ma...?». «Sono arrivata... ho perso...». Publio sa che ha ragione, e non risponde.
Nella clessidra i granelli sono tutti da
una parte.
Il fiato è sempre più corto, il panico la blocca,
Plutone la chiama. «Coraggio, venerata matrona... rinsaldate le forze!», ma quella è ormai sovrastata dal suo destino.
«Publio…», sussurra il nome con voce dolente e allarmata,
ha la fine scritta sul volto, «il
momento… non lo decido io... è finita… muoio...», la bocca si spalanca… «Giunone… aiutami...», biascica gutturale a bocca aperta la potente Frexa, «mu...o...i...o… aiu...to… mu...o...», non finisce nemmeno, è l’ultimo fiato, la bocca rimane spalancata... La situazione è precipitata, Messalina ha chiesto aiuto, ma non c'era più niente da fare. La delusione è grande.
«MATRONA!», la chiama ancora, non si è arresa
fino all'ultimo, ha
chiesto disperatamente aiuto.
«Per Plutone!
Sembrava non invecchiare mai, quasi eterna e
indistruttibile, così simile a Giunone».
Vatsapio e Pasquino si involano per la Città. Le voci si spargono, tumultuose, confuse. Frexa Messalina ha lottato con tutte le sue forze, ma è rimasta uccisa. È spirata, o comunque vicinissima a farlo, tirata senza speranza negli ultimi spasmi di una fatale agonia giunta all'epilogo...
La disperazione dilaga, non c'è più niente di
fare, la tragedia è consumata.
L’Imperatore non immaginava che la caduta di
Messalina avrebbe generato tanto
cordoglio. A Bruto non giovò l’uccisione del padre.
E qui a perire c'è la matrona più famosa di Roma. Di tutto questo approfittano alcuni congiurati, tuttora scampati alla retata, che infiammano la plebe e la spingono verso il palazzo, con il corpo sbottonato di Messalina al seguito, finalmente tornata visibile. La borchia contro il gladio. Caricato su una lettiga, è oggetto di morbosa attenzione; un braccio della sventurata cade a penzoloni dal bordo, è evidente che la bella matrona non ha più il controllo; nonostante tutto, l'avvelenatrice prova ancora a inalarle dei sali, o chissà quale altro intruglio; spes ultima dea: si spera in una sua tardiva reazione, in un sussulto disperato, nella sua voglia di protrarre la lotta; il braccio viene tirato su, per una questione di rispetto. A deludere le speranze di una ripresa in extremis, quella bocca spalancata e incredula, indiscutibilmente cadaverica. In molti urlano, quando riescono ad avvicinarsi alla lettiga, vedendola schiantata e incapace di reagire.
La lettiga che trasporta il corpo della famosa
matrona si arresta.
Uccisa dal gladio, sventrata dal ferro!», e la
indica platealmente, abbandonata inerte sulla lettiga. «L'ira
di Giunone è sopra le nostre teste!». Bisogna scegliere con lo stomaco. E col gladio. Dopo un breve scontro interno ai Pretoriani, viene giustiziato il vecchio Imperatore e acclamato successore il fratello di Messalina.
L'hanno stabilito le sorti del ferro, come tante
altre volte a Roma. C'è fermento intorno al cadavere, giunto in lettiga sul Campidoglio. L'avvelenatrice ci lavora ancora. Ha ricomposto la bocca, l'espressione è meno tesa, la sventurata matrona appare meno infelice. Si cerca di cogliere un sospiro, un baleno negli occhi, un auspicio. Si spera di annunciare - tramite la rete di Vatsapio e le Pasquinate dell'ultima ora - che la lotta prosegue. ««CESARE!»». A breve distanza dal corpo della sorella, la folla acclama il nuovo Imperatore. ««Guardate!»», le Sibille indicano un prodigio: intorno alla lettiga di Frexa Messalina si sta formando un ristagno d'acqua scura, melmosa, puzzolente. Un plebeo lancia una moneta nell'acqua. E quella, anziché affondare, rimane a galla, come fosse di pomice. «Un rantolo!», urla l'avvelenatrice, subito seguita da un'acclamazione.
Caronte aspetta. di Salvatore Conte (2024) Tra Whitechapel e Shadwell, 1888.
Ha lasciato la sua locanda - la Scrofa Bianca - e sta tornando a casa.
È tardi, la nebbia è padrona della notte.
Il tacchettio degli stivali sul ciottolato risuona grave nell'etere plumbeo: è l’unica nota di vita in una notte lugubre e
di luna nera.
Qualche dettaglio usurato tradisce il peso dei 50 anni sul groppone, ma per il
resto c'è tanta roba, tanto da guardare, tanto da squartare. Chana è possente e presuntuosa, si considera senza rivali in tutta Londra. Ha sempre tanta bella carne addosso e ai suoi clienti lascia fare quasi tutto... che si divertano... purché paghino... Dai più facoltosi si fa accompagnare nelle sue stesse camere. A cinquantanni ha perso un po' di smalto, ma si tiene abbastanza bene e nessuno è in grado di trovarle un difetto. Senza dubbio si è appesantita e imbolsita, ma sempre sulla falsariga giusta: quando c'è il sole riunisce i clienti migliori in un villa di Greenwich, e tutto va a posto. La Scrofa Bianca è sempre piena. E lei non riesce a nascondere la propria ossessione: conoscere ogni dettaglio sugli omicidi di Jack; ai clienti più fedeli non esita a mostrare la sua collezione di articoli di giornale.
Ma per sé stessa non ha paura: ha fatto molti soldi, vive in una bella casa, vanta amici influenti e si considera un'intoccabile.
Dalla nebbia emerge un signore elegante, con cappello a cilindro e mantello
nero.
«Anche a me…». Ma anche eccitazione per essere stata scelta, forse è questo che voleva, in fondo.
Però
implora... implora una salvezza, che sembra impossibile pronosticare. «Ma io sono Chana...! Non ti dice niente il mio nome?».
«Mi dice molto infatti».
SZOCK
SZOCK
Dovremmo diventare soci, io e te. Chana spalanca la bocca, attonita, quasi indignata. La vecchia puttana teme di aver incassato un colpo mortale.
«Rimanere in piedi dopo l'undicesima pugnalata. Sa che non può fallire, che dovrà esserci e ci sarà; anche a costo di farsi mettere - cadavere - su una sedia a rotelle, e di farsi spingere in mezzo ai tavoli con la bava alla bocca e gli occhi vitrei. La vecchia puttana sa che alla Scrofa Bianca ci sarà da servire un cliente speciale. Molto esigente. E che lei non potrà deluderlo. LA PROSTITUTA DI OROTH di Salvatore Conte (2024)
II
marito era crepato, e lei s’era presa la sua taverna.
Del destino, però, nessuno è padrone. La sua camicia sbottonata girava - impressa su una carta speciale del mazzo - per tutte le taverne di Zothique.
Kelly Maddy
lo nascondeva
a tutti e ci riusciva bene, perché non voleva scatenare il panico. Intanto si era spaventosamente smagrita in volto.
Aveva consultato un curatore di Ummaos, affinché non se ne sapesse nulla a Oroth,
ma il responso era stato negativo: il curatore non aveva cure. Lei stessa ne prese tragicamente coscienza. Donna allo stato puro, imponente, formosa, prestigiosa, era l'attrazione principale della città portuale sita nel Regno di Xylac.
Aveva ricevuto attenzioni anche da personaggi in vista, ma adesso che si temeva
una sua rapida fine, aveva perso potere d’acquisto.
Ciò le dava l'illusione di poter andare
avanti, nonostante tutto. Mio marito... vuole portarmi con lui... da Thasaidon... ma io... non mi lascerò prendere...». «L'hai ucciso?». «Sì... era un porco...», confessò senza quasi rendersene conto. «Come?». «L'ho avvelenato... lentamente... nessuno l'ha scoperto...», la confessione era completa; gli altri, però, sembravano non ascoltare. «Però ci sono delle voci in città...». «Non importa... non ci sono prove... vecchio Plin...
Ma non parliamo di quel porco...
Quando starò meglio... ti servirò gratis... per
un lungo giro del sole...», come tutti i moribondi aveva dei momenti di euforia.
Il nuovo giorno non la vedeva ancora cadavere.
Venivano anche da altre città, dove si era pensato a una burla
fino all'ultimo. ASSALTO ALL'OASI MALEDETTA di Salvatore Conte (2024) «Non ho voglia di crepare, Dago. Ci sono andata molto vicino, e non voglio ricascarci». «Credi che io ne abbia voglia? Il piano è perfetto: riuscirà, e saremo ricchi. Sarebbe da stupidi perdere un'occasione simile». «Può anche darsi che tu abbia ragione, e non ti nascondo che la prospettiva di sistemarmi per il resto della vita mi alletti. Ma ho ancora problemi con le mie budella, non sono più quella di un tempo...». «Non dovrai fare alcuno sforzo particolare, all'occorrenza c'è la mia spada...». «Ci conosciamo da poco. Porterò con me un paio di succubi; ma non sono dei guerrieri, mi faranno solo compagnia». «Come vuoi, sono felice tu abbia scelto di diventare ricca».
«Io ho detto sì a nome di tutti e due, Birk». «A volte Anafra sembra non reggersi in piedi. Sei sicuro che ce la faccia?». «Scherzi? Galeor ha fatto un capolavoro.
Anafra si sta riprendendo completamente. Sai che l'ha sospesa a lungo prima della putrefazione, e intanto le ha ricostruito le budella usando i maggiolini operai; ce li ha ancora dentro. Anafra ha ancora qualche acciacco, ma la sua ambizione è rimasta quella di sempre; e si fida soltanto di noi». «Non sputo sopra all'argento e tantomeno sopra ad Anafra. La tua risposta è stata giusta... Anche se rischieremo la pelle, sempre meglio di star qui a non combinare niente!». «L'hai detto, amico mio! Le zinne di Anafra valgono qualsiasi rischio!». Il piano era senza dubbio ben congegnato e si era andato formando quasi da sé. Dago conosceva bene il tratto di deserto, tra Yoros e il Tasuun, infestato dai Ghorii. Infatti aveva trovato un modo per ammansirli: gli consegnava cadaveri prelevati dai cimiteri di Zothique. Ne erano ghiotti. In cambio riceveva qualche ora di libertà per setacciare il deserto alla ricerca dei tesori perduti dalle carovane attaccate e massacrate dai Ghorii. Non aveva raccolto molto, finora, ma il caso di Spun gli aveva ridato fiducia. Quella stessa carovana doveva nascondere molti altri tesori, di certo - in quelle circostanze - non poteva aver portato via tutto. Dago aveva bisogno di una complice come Anafra, perché il suo status di Sceriffa l'avrebbe protetto da controlli e perquisizioni, che per lui erano un rischio più letale degli stessi Ghorii. C'era infatti il supplizio per i trafficanti di cadaveri, sia a Yoros che nel Tasuun, e quasi ovunque nel Continente. È sempre tempo di sciacalli a Zothique. La prima parte del piano era filata liscia. Un paio di ispezioni erano state ammorbidite dalle stella e dalle zinne di Anafra, ormai famosa ben oltre Cincor. Ma la seconda si stava rivelando perfino migliore. La banda dei 4 ebbe la fortuna di capitare tra i Ghorii, a distanza di poche ore dal loro ultimo massacro. Gli avvoltoi indicavano chiaramente la direzione da prendere. Il raccolto fu impressionante... C'era talmente tanto oro che a stento riuscirono a caricarlo, benché avessero un carro a disposizione! «Non ricordavo che ci fosse un'oasi da queste parti...», disse Dago, sulla via del ritorno, quasi al tramonto. Il sole morto di Zothique allungava su di loro funebri ombre purpuree. «Che importanza ha? I cavalli hanno bisogno di riposo, l'oro pesa...», la risposta di Anafra. «E poi è quasi buio, passeremo lì la notte... Non va bene?». «Va bene, va bene...», ma il tono di Dago era perplesso. Penetrati nell'oasi, forse a causa dell'oscurità incombente, il gruppo si ritrovò immerso in un ambiente alquanto insolito e per certi versi inquietante.
La vegetazione era anomala, e il colore che spiccava maggiormente
- forse per un gioco di luci provocato dal tramonto - era il rosso, accompagnato da un sinistro
celeste. L'oasi offriva comunque un valido riparo, pertanto i 4 montarono il campo e si abbandonarono a un sonno ristoratore. Al mattino, Anafra si confidò con Dago: «Ho l'impressione che ci stiano osservando...». «Anch'io...». «Ed è un po' troppo buio per essere giorno, non trovi?». La luce filtrava da spazi angusti, era come se la vegetazione, già fitta, si fosse infoltita in una sola notte. «Questa storia non mi piace, Anafra. Andiamocene». Però il carro non riusciva più a passare attraverso la fitta vegetazione, e di certo non potevano abbandonare l'oro. Dago avanzò a piedi fino al limite dell'oasi, ma anche così non riusciva ad uscirne! Rovi e liane, improvvisamente cresciute, sbarravano il passo. Avrebbe potuto estrarre la spada, ma preferì ricongiungersi ad Anafra, temendo di restarne separato. Fu quasi colto dal panico. «Deve trattarsi di un sortilegio... Inutile usare la spada, hai fatto bene a trattenerti. Dobbiamo esplorare l'oasi: dev'esserci qualcuno o qualcosa al suo interno...». «Va bene, ma senza mai dividerci...». Anafra si stirò addosso la camicia d'ordinanza, sempre sbottonata fino allo stomaco, gonfiando le zinne: nessuno poteva sfuggirle. Si rese conto in quel momento di essere come l'oasi: solo un po' più piccola... Separandosi controvoglia dall'oro, i 4 si addentrarono nell'oasi.
Il terreno era molto irregolare. Pozze di
fanghiglia ribollente si alternavano a tratti compatti. Una nebbiolina endemica
strisciava ovunque. Inquietanti getti di vapore sbuffavano qua e là, senza
coerente giustificazione. «Dago, questa oasi sembra non finire mai...». «Ma allora... che camminiamo a fare?», rispose l'avventuriero.
«Camminiamo in attesa di qualche evento», confermò Anafra.
«Chi sei?», domandò la Sceriffa.
«Lunalia?! La Regina è morta nel crollo di Miraab, molto tempo fa». «Ti dico che sono la Regina Lunalia, straniera». In ogni caso era bellissima, sotto ogni aspetto. La stessa Anafra reggeva a stento il confronto. Per un attimo la misteriosa figura fissò Dago. Nel guardarla, gli girò la testa.
«Noi... stiamo esplorando il deserto... in
cerca di tesori», uno strano impulso lo spinse a parlare. Era lui che chiedeva, o lei stessa che si faceva le domande?
«È da molto che sono sola. Adesso erano in cinque.
Il
gruppo si riunì intorno al bivacco. Io non mi sono mai arresa nella mia vita.
Tutti i re di Zothique mi hanno conteso. Non
potevo scomparire nel nulla.
Sì, la tua bellezza non può appartenere che a
Lunalia stessa!», Anafra lo guardò sconcertata.
«Che pensi di fare ora? Dove sono le
tue guardie?», proseguì Dago. «Che malattia?». «Quella da cui io sono guarita». Il fuoco del bivacco sembrò spegnersi di colpo. «Quanto a ciò che intendo fare… intendo curarmi per sempre...
Ma adesso… raccontami di te e dei tuoi
amici.
Cosa vi ha spinti in questo deserto?». Ora, però, mi sento un po’ stanca… vi prego di scusarmi... il fungo lenisce gli effetti della malattia, ma rimane tanta stanchezza...». Lunalia si ritirò nella tenda messa a sua disposizione. I suoi movimenti erano goffi e incerti, come quelli di una persona molto anziana, benché apparisse più giovane di Anafra. Il mattino, se così poteva chiamarsi, portò un nuovo evento. I cinque dell'Oasi Maledetta si ritrovarono circondati da una decina di cadaveri in uniforme, putridi e bagnaticci. Le insegne del Tasuun erano facilmente riconoscibili. Avanzarono verso il campo con la spada sguainata. Solo Dago era all'altezza di affrontarli, ma era solo contro 10. E per di più lento, impacciato. Pensò per un attimo di utilizzare il fuoco, ma quello si spense subito dopo il suo pensiero. In quel mentre, la risata malata di Lunalia sembrò stormire le fronde della vegetazione come una brezza thasaidica. «Uccidila!», ordinò secca a una delle guardie, puntando Anafra con gli occhi. La Sceriffa rivolse un rapido sguardo a Dago, senza aspettarsi alcun aiuto, perché sapeva che ormai aveva ceduto all'influsso della strega. D'altra parte, lei stessa abusava di questo potere da una vita. SZOCK Però si sbagliava. Lo capì quando vide, incredula, la daga dell'avventuriero immersa nella pancia di Lunalia. La Regina mugolò un lamento innaturale, un terribile stridio fatto di rabbia e rancore. «Maledetta...», sibilò disperata, appena dopo, rivolta ad Anafra. Dago infatti era sotto il suo controllo, ma aveva sottovalutato il suo attaccamento alla Sceriffa: finora non vi era stato nessun assalto nei suoi confronti, almeno all'interno dell'oasi. L'avventuriero, da parte sua, scosso dal pericolo incombente su Anafra, aveva subito preso la decisione giusta: colpire Lunalia per fermare i suoi cadaveri. Le guardie si erano infatti paralizzate, cosa del resto normale per dei cadaveri, compresa quella che avrebbe dovuto colpire Anafra. Il fuoco del bivacco aveva ripreso vigore. Le fronde dell’Oasi cominciarono a diradarsi. Il sole purpureo di Zothique filtrava abbondante. Dago usò la fiamma per bruciare - non certo viva... - una delle guardie, come esempio per gli altri cadaveri, che lentamente, molto lentamente, ritornarono nel fitto della macchia. Lunalia crollò sulle ginocchia. E quindi strisciò disperata verso il fuoco, quasi a cercare un'ultima fonte di calore. Ma si dissolse in cenere pochi attimi dopo, come avesse bruciato per ore. La vegetazione si diradò completamente. Rimanevano solo arbusti secchi, rovi, qualche pozza e un piccolo stagno, attorno a cui crescevano centinaia di funghi rossi maculati di bianco, e sul quale galleggiavano numerosi cadaveri. «Quando ne aveva bisogno, faceva uccidere i malcapitati che giungevano qui per fare una sosta; e ne beveva il sangue, per mantenersi addosso una parvenza di vita; e con la putrescenza dei cadaveri alimentava il fungo maledetto. Il fungo che guarisce dal tempo... e che cresce vicino ai cadaveri...», Dago faceva delle ipotesi. «Allora ricordami di ripassare da queste parti, fra una ventina di anni... e di cercare quel fungo...». «Purché funzioni anche sugli uomini...». «Certo, perché non dovrebbe?». E si fece stringere i fianchi e impalare, semplicemente usando la sguardo, al di là delle ipotesi. L'assalto che finora era mancato, e che aveva tratto in inganno Lunalia, giunse adesso, seguito da quello dei succubi. A pochi metri dalla sua cenere. NEL TRIANGOLO MALEDETTO di Salvatore Conte (2024)
Modena,
2 aprile 1945.
Però se cominciassimo subito la mia cura... e se la paziente riuscisse a
resistere per il tempo necessario a conseguirne i primi benefici… diciamo che potrebbe sopravvivere
qualche settimana, forse alla fine della guerra.
Ilsa Von Thurn mostra un lingotto d'oro al
medico italiano. «So come badare alla feccia, Colonnello. Piuttosto, debbo arguire che lei sia in partenza?». «Esattamente, dottore. Non appena riuscirete a stabilizzare il Maggiore, toglierò il disturbo». «Nessun disturbo, davvero». Mi lasci dire che mi dispiace molto per il Maggiore, avrei preferito seguirla personalmente fino alla fine». «Non mi rimane difficile crederlo. In qualche modo, però, vi farò sapere quanto sarà durato il mio ufficiale subalterno, prima di arrendersi...». «Gliene sono grato. E tuttavia... ho suggerito a un mio giovane assistente di mettersi a sua disposizione, Colonnello». «Molto bene. Anna deve ricevere il meglio fino alla fine».
Triangolo delle Bermude, 2 maggio 1945. «È finita, Anna. Sei sopravvissuta al III Reich». «E... a questa tempesta...?». Anna è una maschera di cera; stretta intorno a sé stessa, le prova tutte prima di mollare. «Non cedi, vero?». «Voglio crederci... fino alla fine...», la faccia spettrale di chi combatte una guerra impossibile da vincere. Dopo Berlino, sta per cadere anche la Frentzen. «Ma ricordati... che voglio risvegliarmi...». «Appena saremo in America, sarai ricoverata in una delle migliori cliniche: e se anche fosse tutto inutile, sarai ibernata e risvegliata dai nostri scienziati». «Colonnello... il mare è troppo grosso, dobbiamo puntare sulla vicina isola». «Come si chiama?». «Ehm... veramente... non è segnata sulle mappe». «Ne prenderemo possesso noi, allora. Procedete pure, Capitano».
Il vecchio Capitano Ben Morris ha la fortuna di avvistare una profonda insenatura nell'isola, quasi un porto naturale. L'imbarcazione è in salvo. Cessata la tempesta, Ilsa Von Thurn rivela il suo piano: «Esploreremo l'isola, prima di andarcene. Voi, Capitano, rimarrete qui, insieme al nostromo. Ma occhi bene aperti... Tutti gli altri sbarcheranno con me». Detto-fatto, viene calata una lancia. Il paesaggio è tropicale, incontaminato, per ora nessuna traccia di presenza umana. Il Colonnello Von Thurn, arma in pugno, guida la piccola colonna. L'avvenente puttanone nazista è come sempre sbottonato con studiata indifferenza. Anche lei non si è arresa. È seguita, in ordine di marcia, dall'aitante timoniere Luke Halpin, a cui cede il passo quando la giungla s'infittisce; il marinaio ha con sé un machete. Viene poi la carrozzina del Maggiore Anna Frentzen, bella cinquantenne invecchiata bene, ma spremuta dalla malattia, che l'ha annientata con la forza devastante di un bombardamento a tappeto. Ha in bocca l'ultima sigaretta del condannato a morte.
È spinta dal dottor Luigi Di Brutto, giovane allievo dell'anziano luminare modenese. Chiudono la fila l'industriale tedesco ribattezzato Jack Davidson e la moglie Beverly. «Mi scusi, Colonnello... si può sapere cosa spera di trovare in questo accidente di posto?», la domanda viene dallo pseudo-Davidson, ormai spazientito dalla lunga scarpinata nella giungla. «Mister Davidson...», il tono è ironico, «non la incuriosisce il fatto che quest'isola non sia riportata su nessuna carta nautica?». «E perché dovrebbe? Abbiamo perso l'intera Europa... e l'Africa... e...». «Vero... però abbiamo guadagnato l'America... Comunque l'unico a potersi lamentare sarebbe il Maggiore Frentzen», le asciuga il sudore dal collo. «Almeno lei se ne sta seduta». «Ne farebbe volentieri a meno». Durante la miserevole polemica, che almeno è servita a fermare il passo, Ilsa nota una struttura anomala. Il Colonnello smuove un fascio di liane aggrovigliate tra loro e intorno a qualcosa. «Luke... dai una sfrondata... ma con cautela...». «E questa... che roba è...?». «È una colonna classica, Mister Davidson».
«E come ci è finita qui? È un bel mistero... Organizzeremo una spedizione non appena arrivati in America». «Prima, però, effettuerò un sopralluogo. Il Maggiore Frentzen e il dottor Di Brutto rimarranno con me. Voi tre, invece, potete rientrare. Luke... sei in grado di rifare il percorso al contrario?». «Penso di sì». «Anna, voglio vedere se riusciamo a trovare qualcosa per te. La spingo io, dottore». «Non pensi che... quegli idioti...», la voce affaticata, incerta, il volto spettrale, «possano ripartire... senza di noi...?». «Solo io so dove approdare, mia cara». I tre entrano nell'antica struttura: sembra un tempio classico. Ma niente tecnologia, come forse sperava la Von Thurn. «Ilsa...». «Anna... cosa c'è...?», si riavvicina. «Aiutami...», il Maggiore ha una crisi. La Von Thurn le asciuga pazientemente il collo, facendole sentire la sua presenza. La Frentzen è alla fine. «Devi stare calma, Anna. Continuare così e andare avanti». «Mi sento strana... sto male...», sta perdendo i sensi. Il giovane medico apre subito la borsa: tutti i palliativi possibili vengono immediatamente somministrati. La Frentzen è semi-incosciente: forse è l'avvio dell'agonia fatale. «Vieni fuori da lì!», un ordine secco, rivolto a una colonna.
È uno zombi, ma Ilsa non si scompone minimamente. Orrori ed esperimenti estremi erano la normalità fino a poche settimane prima. «Appartieni a questa antica civiltà?». La creatura annuisce blandamente. «Che attività svolgevi?». «Io... guaritore...», la sapienza universale dei morti permette al cadavere vivente di superare la barriera linguistica. «Allora è l'inferno che la manda, dottore... Ho bisogno di sapere come curavate il tumore». «Tumore... malattia... Scendere... livello 8...». «Faccia strada, dottore».
Il Reparto segreto del Reich - Elite Sbottonate - resiste alla Caduta. |
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